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Mondo
ottobre, 2020

Emmanuel, Blessing, Osita: emigrati in Europa, rimpatriati in Nigeria e rifiutati anche a casa

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Espulsi da Germania e Italia con una scorta di poliziotti, scaricati nella sezione merci dello scalo di Lagos. E circondati dalla vergogna per il fallimento della fuga dalla povertà

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“Qui è dove vive mia sorella, si chiama Bridget». Emmanuel scosta la tenda di perline all’ingresso e si ferma un istante, per abituare gli occhi al buio. Fuori ci sono il cielo lattiginoso e la polvere di Benin City, quarta città della Nigeria e zona di origine di gran parte dei migranti nigeriani in Italia ed Europa. Dentro, in un appartamento di due stanze basse, appena rischiarato dalla luce di una lampadina, c’è un incontro sognato e rimandato a lungo.

Nove mesi dopo essere stato rimpatriato dalla Germania e sette anni dopo una partenza tumultuosa per la Libia, e da lì per l’Italia, Emmanuel sta tornando per la prima volta a casa. Da perdente, da reietto. Finora, per evitare gli sguardi della madre, degli zii, dei vicini, che immaginava di rimprovero, di delusione, si era nascosto nei ghetti labirintici di Lagos, l’immensa capitale economica del paese, dormendo per strada o condividendo stanze sovraffollate con altri sognatori come lui, indesiderati dall’Europa.

Fermo sulla soglia ora guarda la sorella, seduta per terra, che fa il bagno a un neonato in una bacinella piena di schiuma. Sguardi che si incrociano, occhi che diventano lucidi. In un silenzio sospeso, Emmanuel afferra il bambino, nato pochi giorni prima: il suo primo nipote, ancora senza nome. «È per lui che alla fine sono venuto a casa, dovevo vederlo», dice, mentre lo culla tra le braccia. Poco dopo li raggiunge il cognato, con alcuni amici. Abbracci imbarazzati, poche parole attorno a bibite fresche, risate trattenute.

Tra loro, tra Emmanuel e gli altri, aleggia un non detto: l’enigma di un viaggio finito male, scontratosi con la macchina europea dei rimpatri, quelli che le norme comunitarie definiscono - in modo più asettico - “ritorni”, e che tanta parte hanno nel nuovo Patto Ue per le migrazioni e l’asilo presentato lo scorso 23 settembre, che tenterà di ridefinire le modalità di gestione comune del fenomeno migratorio da parte dei 27 paesi dell’Unione.

Emmanuel, che chiede di non usare il suo cognome, è uno degli oltre 2.900 nigeriani rimandati a casa dall’Unione Europea nel 2019. Tra i paesi di partenza spiccano Regno Unito, Germania e infine Italia, in terza posizione con 384 cittadini nigeriani rimpatriati nel 2019, cifra record nell’ultimo decennio. Operazioni in parte sostenute da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, braccio lungo (e per alcuni critici, fin troppo indipendente) della Commissione Ue. Nel 2019, dal suo quartiere generale di Varsavia, l’agenzia ha coordinato le operazioni di rimpatrio di 911 nigeriani, organizzando 32 voli charter congiunti: aerei che toccano più scali europei, raccogliendo donne, uomini e bambini da scaricare nella sezione merci dell’enorme hub aeroportuale di Lagos, lontano da sguardi indiscreti.

Per Emmanuel quel viaggio a ritroso, su un aereo pieno di poliziotti - «quattro per ogni passeggero, con mani e piedi legati per tutto il tragitto, da Francoforte a Lagos» - è una crepa ancora inspiegabile in un percorso (lungo, faticoso e alla fine fallimentare) per costruirsi un futuro migliore.
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A vent’anni, dopo la morte del padre, aveva lasciato il villaggio materno, alle porte di Benin City, per cercare lavoro a Lagos. Formatosi come saldatore, passava da un impiego all’altro, navigando tra i quartieri popolari della più grande metropoli africana: 26 milioni di abitanti, gran parte dei quali distribuiti tra oltre cento baraccopoli, appariscente contraltare ai grattacieli della finanza e a una vibrante, ed esclusiva, vita notturna e culturale.

Quando parte per la Libia, con qualche risparmio in tasca, non aspira solo a trovare un impiego più stabile e dignitoso, ma anche a formare una famiglia e mandare qualche soldo alla madre. I desideri di molti migranti, a ogni latitudine.

Sopravvissuto al Sahara, ai centri di detenzione libici e alle onde del Mediterraneo, a 26 anni si lascia alle spalle i maxi-centri della non-accoglienza italiana per fare richiesta d’asilo in Germania, sperando in un documento di soggiorno. Dopo attese e ricorsi, e mentre già lavora come operaio edile nei cantieri della regione del Reno, gli arriva però il “duldung” - letteralmente “tollerato” in tedesco: un discusso status giuridico provvisorio che relega in un limbo oltre 150 mila persone in Germania, tra cui 12 mila nigeriani, autorizzate a rimanere ma sotto la minaccia costante del rimpatrio, che per Emmanuel avviene a maggio del 2019.

Inizia allora un vagabondaggio per le strade di Lagos, insieme a Taiwo e Prosper, giovani compagni di questo doloroso ritorno anticipato. Dormono in una spiaggia o ai bordi delle strade, taccheggiati da gang di quartiere, fino a spartire una stanza soffocante in un dormitorio con altri disoccupati nell’immenso ghetto di Ajegunle, il cui nome in lingua yoruba significa, con una certa ironia, “dove vivono i ricchi”. Per mesi, condividono pasti essenziali e una vergogna profonda, quella di chi torna senza nulla dalla terra promessa e non può, non vuole essere di peso per la famiglia.

È Rex Osa, attivista nigeriano-tedesco della rete Flüchtlinge für Flüchtlinge (i rifugiati per i rifugiati), a intercettare i tre mentre dormono per strada, dandogli una tenda e mettendoli in contatto con altri rimpatriati. «C’è una doppia invisibilizzazione di chi chiede asilo in Germania: prima relegato nei centri d’accoglienza, poi rimpatriato lontano dagli sguardi dell’opinione pubblica», spiega Osa, secondo cui molti tedeschi non sanno che a essere rimpatriate sono anche vittime di tratta, bambini spesso di pochi anni, donne incinte. Come Stella Olubwella, rimpatriata sempre dalla Germania con la figlia di sette anni, che racconta di avere avuto un aborto dopo essere stata legata per ore al sedile dell’aereo con un tubo di gomma.

Dal ministero dell’Interno tedesco fanno sapere all’Espresso che «la pratica non è confermata, ma la contenzione è ammessa» in una serie di casi. Per l’Agenzia Ue per i Diritti Fondamentali, incaricata di vigilare sul rispetto dei diritti umani da parte delle istituzioni comunitarie, il sistema di monitoraggio dei rimpatri in Germania è però «frammentato» e non sufficientemente indipendente.

«Viviamo come senzatetto, come rifugiati nel nostro paese e nessuno ci allunga una mano», ci dice Emmanuel, di ritorno nei ghetti di Lagos dopo la visita fugace alla sorella e poi alla madre anziana. E non ha torto. Chi è rimpatriato dall’Europa è costretto a sgattaiolare furtivamente fuori da un cancello sul retro dell’aeroporto, per scomparire nel traffico della metropoli.

Un po’ diverso è il destino di chi invece rientra dalla Libia senza aver attraversato il Mediterraneo, spesso accolto da una pletora di funzionari pubblici, organizzazioni umanitarie, medici. Nell’ultimo di questi viaggi, a fine febbraio 2020, prima che la pandemia di coronavirus sigillasse i confini di mezzo globo, Nigeria inclusa, oltre cinquanta agenti pubblici hanno passato in rassegna 113 tra bambini, donne e uomini atterrati a Lagos e partiti poche ore prima dal conteso aeroporto di Tripoli. Un gruppo di giovani donne ammette che toccare il suolo nigeriano è «sweet», dolce, dopo aver vissuto sotto i bombardamenti incrociati nella Tripolitania in guerra.

I 113 di febbraio erano gli ultimi arrivati di un maxi-progetto europeo, l’Iniziativa congiunta per la protezione e la reintegrazione dei migranti, lanciato nel 2017 e finanziato con 364 milioni di euro di fondi per lo sviluppo, con l’obiettivo di «ridurre la perdita di vite nel Mediterraneo e l’attività dei trafficanti», spiega Abrham Tamrat, funzionario per la Nigeria di Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che coordina il programma. Un ambizioso piano di “rimpatrio volontario assistito”, come si dice in gergo, che ha favorito il ritorno nel paese di origine di 83 mila persone, in grandissima parte migranti bloccati in Libia e Niger a causa di controlli sempre più serrati lungo le frontiere sahariane e mediterranee, molto spesso grazie allo stesso appoggio dell’Ue e dei suoi stati membri.

I nigeriani sono al primo posto, con 16 mila persone rimpatriate e immesse in un circuito di reintegrazione, basato su brevi corsi di formazione e sul sostegno alla creazione di microimprese. Un welfare parallelo finanziato da Bruxelles, che ha riempito le strade di Benin City di negozi di alimentari, parrucchiere e sarti.

È questa la storia di Blessing, 27 anni, un viso tondo e uno sguardo timido, che si fa duro quando racconta delle violenze in Libia, dov’è stata costretta a prostituirsi per poi sopravvivere a un naufragio - durante il quale ha visto annegare il compagno e padre del figlio - e ai respingimenti da parte della guardia costiera libica. Tornata una prima volta in Nigeria e ripartita per la Libia per ripagare il debito contratto con chi l’aveva fatta viaggiare, rientra infine a Benin City tramite l’Oim.

Il negozio di parrucchiera in cui passava le giornate prima che il lungo lockdown nigeriano la obbligasse alla chiusura, rigettandola in una povertà senza prospettive, è una baracca di lamiera di pochi metri quadrati. I caschi asciugacapelli giacciono in un angolo, inutilizzati. «Mi hanno pagato l’attrezzatura», dice Blessing, «ma qui l’elettricità non c’è quasi mai». Per Osita Osimene, anche lui ex migrante verso la Libia che ha creato una ong per dissuadere altri concittadini dalla partenza, «finchè l’Europa continuerà a finanziare iniziative di breve termine, la migrazione irregolare proseguirà, anzi si rafforzerà: le istituzioni qui hanno deluso le aspettative della gente e l’Ue continua a innalzare barriere d’ingresso; ma più crei muri, più si fabbricano scale».

A migliaia di chilometri di distanza dalle periferie impoverite di Benin City, il ministero dell’Interno tedesco comunica che riaperte le frontiere, «i rimpatri ripartiranno appena possibile». E durante l’ultima riunione dell’EuroMed, il blocco dei paesi Ue del Mediterraneo, il premier Giuseppe Conte ha invitato a «lavorare per meccanismi europei realmente efficaci per i rimpatri». Il budget europeo in fase di approvazione per il settennio 2021-2027 moltiplicherà i fondi per per le migrazioni: 40 miliardi di euro, ovvero il 440 per cento in più del settennio in chiusura. 30 di questi saranno destinati proprio a rimpatri, gestione dei confini e fondi per paesi terzi, diventati gendarmi per conto dell’Europa.

Nella sezione merci dell’aeroporto di Lagos, a poche centinaia di metri dai varchi di lusso per capi di stato, big della finanza, del petrolio e del real estate, con doppio o triplo passaporto, continueranno così a transitare i migranti respinti dall’Europa, bloccati in Libia o intercettati nelle strade europee. Condannati a un ricominciare continuo e - spesso - a nuove partenze.

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