Si definiscono orgogliosamente anti-femministe. Sventolano bandiere a stelle e strisce come antidoto contro l’America multirazziale. Celebrano il culto di una nazione che non esiste più. Accolgono e rilanciano teorie complottiste, coltivano la paura. Difendono la Costituzione e negano l’esistenza del razzismo sistemico nei confronti delle minoranze, anzi bollano Black Lives Matter come un collettivo violento di marxisti. Tutto si riduce a una irrinunciabile istanza: la libertà di espressione messa in pericolo dalla “combriccola dei liberal”. Sono le donne - bianche - dell’ultra destra americana. Spesso nelle retrovie, attive sui social più che in tv, poco plateali come i colleghi. Ma non meno efficaci. Decine di personalità che, pur rifiutando l’etichetta “far-right”, condividono con i propri seguaci idee oggettivamente estremiste. «Ormai chiunque appoggi Donald Trump viene definito far-right. Io mi ritengo invece una conservatrice. Difendo il diritto di esprimere la mia opinione, di possedere armi». Vicki McKenna, speaker radiofonica in una stazione locale del Wisconsin, si è fatta notare recentemente per aver giustificato Kyle Rittenhouse, il ragazzo di 17 anni che a Kenosha uccise due manifestanti durante le proteste scoppiate dopo il ferimento dell’afroamericano Jacob Blake da parte della polizia. «Non capisco perché la questione sia controversa. Si è trattato semplicemente di difesa personale», dice quando la sentiamo. «Se Joe Biden dovesse vincere le elezioni, non potrei più esprimermi. Qualsiasi cosa diventerebbe incitamento all’odio», tuona, convinta che non siano neri e minoranze ad essere in pericolo, bensì i bianchi, vittime della violenza di gruppi di sinistra come Black Lives Matter e Antifa. «La polizia non può più fare il suo lavoro, il crimine aumenta. Le persone hanno paura, per questo si armano». Il razzismo non esiste in America, assicura McKenna, «Siamo la nazione che ha lottato per i diritti civili! Siamo tutti uguali; a renderci diversi sono le conseguenze delle scelte che facciamo», aggiunge. Considerate un pericolo dalla sinistra, le donne della destra estrema rimandano tutte le accuse al mittente: l’unica minaccia sarebbe una vittoria dem.
«Credo che Trump abbia aperto la strada. La sua elezione ha permesso alla gente di dire cose che non avrebbe mai detto prima», ci spiega Seyward Darby, una delle più esperte conoscitrici di questo movimento declinato al femminile. È un lavoro di scavo il suo ultimo libro, “Sisters in Hate” (Little, Brown and Company, 2020), sorelle in nome dell’odio. «Quando ho iniziato le ricerche a stupirmi era il fatto che fossero poche le donne della destra estrema sui giornali o in tv. Le ho trovate online. Evitavano le telecamere tradizionali, ma erano lì». Con una funzione specifica: normalizzare l’estremismo. E reclutare seguaci, soprattutto attraverso i video di YouTube. La rete è una comunità che accoglie: «Qui nessuno ti giudica se dici cose politicamente scorrette». Con internet è molto più difficile quantificare il fenomeno, incasellare in categorie distinte: estremiste, nazionaliste, suprematiste. «Dipende da cosa intendete - ci spiega Pamela Geller, attivista e blogger - Se per nazionalisti vi riferite ai patrioti che vogliono di difendere la Costituzione, allora si tratta di milioni di persone; i suprematisti sono invece un gruppo sparuto, per lo più una creazione dei media». Nonostante le parole misurate, Geller è una delle militanti anti-islamiche più importanti. È legata a gruppi estremisti in America e Europa, come la English Defense League. Nel 2009, insieme a Robert Spencer, ha dato vita a Stop Islamization of America. È convinta che Obama, di fede musulmana, sia il figlio illegittimo di Malcom X; inoltre crede che il certificato di nascita dell’ex presidente sia falsificato. Teorie comunemente giudicate razziste. Non per lei. «Il mio lavoro è dedicato a difendere la libertà di parola - ci racconta - Chiamarmi estremista è una bugia. Trump, invece, ci aiuta a difendere il nostro diritto alla libertà». Ed è proprio con l’avvento dell’attuale presidente che certe idee hanno iniziato risuonare familiari anche nelle conversazioni politiche tradizionali.
Basti pensare a quello che è successo in Florida, dove ad aggiudicarsi le primarie repubblicane del ventunesimo distretto (quello in cui vota Trump) per un seggio alla Camera, è stata Laura Loomer, una delle esponenti più influenti della far-right. Fa campagna elettorale all’antica, attraverso i comizi; su internet ci pensano i suoi collaboratori perché lei è stata bannata ovunque: Twitter, Facebook, Instagram, YouTube e Uber, a causa delle dichiarazioni anti islamiche. Secondo questa ventisettenne i musulmani sono un «cancro dell’umanità». Per il circolo più stretto della candidata, la vergogna non sono le sue posizioni, ma il potere di cui abusano i social media. «Se sono delle piattaforme, allora ogni opinione può essere espressa, offensiva o meno», ci dice Karen Giorno, a capo della sua campagna, con un passato nello staff di George H.W. Bush alla Casa Bianca. «I giganti delle telecomunicazioni decidono chi lasciar parlare, però non spetta a loro scegliere cosa gli elettori debbano leggere». La sua candidata è famosa per le teorie complottiste. «Laura può essere incendiaria, ma non falsa. Tutto quello che riporta è accurato. Può essere scioccante per alcuni, offensiva per altri, ma in questo Paese il primo emendamento ti permette di essere offensivo». C’è una falsa narrativa, sostiene. «Ci chiamano estremiste, ma io mantengo idee e valori di 30 anni fa, quando lavoravo alla Casa Bianca e per tutti ero una conservatrice».