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Nel 2011 Soufan decide di raccontare quegli anni in un libro di memorie, ma la CIA censura gran parte del racconto per "motivi di sicurezza nazionale". Oggi, dopo nove anni e una lunga causa legale, "The Black Banners: How Torture Derailed the War on Terror After 9/11" è stato ripubblicato con i contenuti declassificati. È la prima volta che un libro di un funzionario dell'intelligence americana viene censurato e i documenti successivamente declassificati. Abbiamo raggiunto Soufan al telefono nella sua abitazione di New York.
Vorrei partire da una domanda personale, all’ex agente FBI e al cittadino americano. Che effetto le ha fatto vedere il suo libro finalmente privo di strisce nere che oscuravano interi paragrafi?
«È stato un grande momento. Sfogliare il libro senza parti censurate era il senso di una battaglia legale durata nove anni. Volevo che i lettori conoscessero la verità su quel periodo, l’inefficacia della tortura negli interrogatori, che sapessero come sono stati ingannati. È stata una battaglia per la verità e una vittoria per la trasparenza».
Ha sempre sostenuto che le censure imposte dalla CIA fossero un abuso di potere per nascondere l’inefficacia delle Enhanced Interrogation Tecquiques (EIT) (le pratiche di tortura) utilizzate negli interrogatori.
«La tortura è stato un tema enorme della politica americana. L’idea era: se attraverso la tortura otteniamo informazioni utili a tutelare la sicurezza nazionale, allora la tortura è accettabile. Il punto è che le opinioni erano basata non su fatti, ma su una falsa narrazione. L’intero racconto della guerra al terrore è stato inquinato e corrotto, distorcendo le opinioni delle persone. Ora è finalmente possibile sapere cosa è accaduto in quei mesi nella stanza degli interrogatori. I lettori sapranno che abbiamo ottenuto informazioni per sventare altri attentati con metodi tradizionali. Non con la violenza. E sapranno che la violenza ha prodotto menzogne. Per paradosso, nascondere i contenuti di Black Banners e declassificarli ora, è la dimostrazione che abbiamo sempre sostenuto la verità. Si cancella ciò che si teme, non ciò che è inoffensivo».
Può spiegare quali informazioni, tra le tante, siano state censurate?
«Dettagli sulla guerra al terrore e i fallimenti di quel percorso. Il resoconto dell’interrogatorio di Zubaydah, la nostra conversazione durata di fatto dieci giorni. L’identificazione di Khaled Sheik Mohammed come mente dell’attacco alle Torri Gemelle, o le informazioni su José Padilla, accusato di voler organizzare negli Stati Uniti un attacco terroristico con una bomba radiologica. Nel 2005 la CIA sostenne di aver ottenuto le rivelazioni grazie alle "tecniche di interrogatorio avanzate", alla tortura, la verità è che sono state ottenute con tecniche tradizionali. Quando la CIA ha interrotto l’accesso all’FBI la tortura è diventata sistematica, nelle forme del waterboarding, della privazione prolungata del sonno. Oggi i lettori possono valutare autonomamente che quelle tecniche abbiano portato più disastri che successi».
Lei ha sempre sostenuto di opporsi alla tortura perché non funziona, perché non avrebbe reso l’America più sicura, diventando al contrario strumento di reclutamento. Penso alle immagini di Abu Graib. Gli Stati Uniti oggi sono un paese piu’ sicuro di 19 anni fa?
«Dipende. Molte cose sono state sistematizzate e regolate per scongiurare pericoli di un altro attacco. Da questo punto di vista ritengo che abbiamo avuto successo. Ma se osserviamo le piste globali della minaccia jihadista sono molto meno ottimista. Al-Qaeda è più potente di quanto non fosse dopo l'11 settembre, quando contava circa 400 membri. Oggi vanta circa 40.000 membri in tutto il mondo e conserva la capacità di reclutare e agire in suo nome in Sahel, in Libia, Yemen, Somalia, Siria. Tatticamente abbiamo vinto, ma strategicamente abbiamo fallito. Non abbiamo saputo imporre una narrazione alternativa né trovare soluzioni per le instabilità di questi paesi. E al Qaeda ne approfitta.
"The management of savagery" era la strategia qaedista del 2004: la violenza è tutto e la gestione della ferocia porterà al controllo del territorio. È ancora così?
«Decisamente. Fase uno, sconvolgere l’ordine locale, regionale e internazionale con attacchi terroristici. Fase due: impedire a chiunque di riempire i vuoti di potere e quindi indebolire lo stato. Fase tre: controllare il territorio. Oggi al Qaeda sta implementando la Fase Due in vaste aree, dal Sahel appunto, al Medio Oriente. E lo fa in assenza di una diplomazia e una strategia statunitense».
Recentemente ha detto che la diplomazia un tempo consistesse nel dialogo con i nemici e oggi all’opposto, sia diventata l’esercizio di parlare solo con gli amici. Gli Stati Uniti si stanno ritirando da molti scenari delicati. Che Medio Oriente si sta modellando e quali sono le responsabilità americane?
«Francamente stento a vedere una strategia diplomatica in Medio Oriente. Ho l’impressione che si stia creando una regione con fattezze più simili a quelle che precedevano la prima guerra mondiale, basti pensare alle energie che la Turchia sta mettendo nel Mediterraneo con ambizioni egemoniche. Osservando la capacità dell’Iran di avvantaggiarsi dei paesi indeboliti, come lo Yemen, la Siria, il Libano, o l’Iraq, per influenzare l’equilibrio regionale, è evidente che la regione attraversi una condizione peggiore di quella che viveva prima della guerra in Iraq del 2003. E questo senza dubbio dipende dall’indebolimento degli Stati Uniti. Stiamo gridando al mondo: lasciamo la regione, ce ne andiamo, togliamo le tende. Gli altri si organizzando, cercano di capire su quale carta puntare perché sanno di non poter piu’ contare su quella americana».
Eppure Trump ha rivendicato I suoi successi nella lotta al terrore. Mi riferisco all’uccisione di al Baghdadi e di Soulemani.
«È necessario distinguere le due cose. L’uccisione di Baghdadi è senza dubbio legittima, ha inflitto atrocità al mondo. Sull’omicidio di Soulemani le valutazioni sono molto diverse. Ammetto che il mondo sia migliore senza di lui, eppure quell’omicidio si trascina molti ma. Innanzitutto è evidente che la sua morte non abbia portato stabilità, dopodiché se la nostra sola strategia è chiamarci fuori dalla regione, mentre quella iraniana è esserci, la nostra uscita di scena sarà inevitabilmente usata come segno di una vittoria iraniana. Per gli iraniani equivale a dire: Soulemani è vendicato. Dovremmo avere una strategia di lungo termine basata sui nostri valori e i nostri interessi. La verità è che in venti anni di guerra al terrore abbiamo troppe volte contraddetto quei valori apparendo ipocriti agli occhi del mondo, e continuiamo a farlo».
Vede un’America indebolita?
«Molto, sì. Il punto è che la debolezza americana rischia di influenzare la sicurezza globale, ho sempre pensato che la nostra leadership fosse una pietra angolare della sicurezza e la stabilità del mondo, e lo abbiamo dimostrato negli ultimi 70 anni. Sono stati commessi errori? Certo. Ma ho l’impressione che invece di imparare dagli effetti nefasti di quegli errori li stiamo peggiorando».
Vede corrispondenze tra l’amministrazione Bush - penso alle falsità sull’efficacia della tortura - e l’atteggiamento dell’amministrazione Trump verso l’intelligence, sulle elezioni del 2016 ad esempio?
«L’amministrazione vuole modellare la percezione dei fatti. Questo vale per la gestione della pandemia o per la situazione al confine messicano, o per i rapporti con l’Iran o i sauditi. Oggi viviamo la continuazione del passato. La politicizzazione dell’intelligence non è iniziata con Trump. Esisteva prima, Trump ne ha solo tratto vantaggio. Dopo l’11 settembre il 70% dell’opinione pubblica americana credeva che Saddam Hussein fosse coinvolto negli attacchi perché c’era una campagna coordinata, atta a far credere che fosse così. L’intelligence otteneva informazioni con la tortura, le informazioni erano false, ma davano forma alla narrazione che serviva a quell’amministrazione. Così chiunque era favorevole alla tortura. È il sistema intero che crea un circolo vizioso di menzogne e disinformazione. ?Se non ci battiamo per la trasparenza e per l’obbligo di rispondere dei propri errori, lo vivremo ancora e ancora.È necessario punire chi ha mentito, così ci penserà due volte a mentire di nuovo».
Il Coronavirus ha modificato le vite di tutti e inevitabilmente cambierà anche le strategie dei gruppi terroristici, come pensa che si modellerà il terrorismo del futuro?
«La pandemia è un’opportunità per i fondamentalismi. Gli estremismi religiosi così come il suprematismo bianco vedono nella crisi da Covid un modo per rafforzare e promuovere le loro ideologie. La pandemia produrrà una crescente instabilità e disparità sociale. Se a questo uniamo la proliferazione di disinformazione e teorie del complotto, è facile immaginare un terreno fertile per gruppi terroristici di varia natura. I gruppi religiosi dipingeranno la crisi come una volontà superiore, reclutando in nome di una interpretazione rigida dei testi. Penso a gruppi come i talebani, al Shabab o quel che resta e si sta ricompattando dell’Isis. Dall’altro lato i gruppi di destra rafforzeranno la narrativa populista dei confini rafforzati per evitare contaminazioni e altre epidemie. La conseguenza naturale sarà un’ondata xenofoba».
Alcuni mesi fa il New Yorker ha rivelato che lei è stato avvertito dalla CIA di una minaccia da parte di al Qaeda sostenuta dai Sauditi, questo mentre era al centro di una campagna online e di intimidazione con gli stessi protagonisti della tragica vicenda di Jamal Khasoggi. Lei era amico di Khasoggi, si batte per fare giustizia per la sua morte. Può dirci di più sulle minacce ricevute?
«Non posso dire molto perché ci sono indagini in corso. Non abbiamo trovato collegamento tra le minacce di al Qaeda e la campagna di disinformazione dei sauditi, certamente le coincidenze sono singolari. E le somiglianze con il caso Khashoggi lampanti. Stesse parole, stesse frasi per augurarmi la morte, stessi account social che minacciavano Jamal. La verità non ha molti fan e io ho tanti nemici. Non mi faccio intimidire, se lo facessi avrebbero vinto loro».
Abbiamo iniziato la nostra conversazione con una domanda personale, vorrei concluderla con un’altra domanda personale. È spaventato?
«Sarò totalmente onesto. No. Diciamo che se dopo più di vent’anni al Qaeda e i sauditi sono così interessati al mio lavoro è perché il mio lavoro li disturba e li ostacola, segno dunque che sono nel giusto. Mi alleno a non pensare nei termini della paura quanto nei termini della giustizia».