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Politica
novembre, 2020

Non basta il patto ZDR: alla politica italiana serve un partito della ripresa e della resilienza

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Si parla di un accordo tra Zingaretti, Di Maio e Renzi, con Conte o senza, per completare la legislatura. Ma il Pd rischia di crogiolarsi nel ruolo di partito indispensabile, mentre c'è bisogno di un partito contro le divisioni

Il picco della pandemia sanitaria, con il suo carico di morti e di dolore indicibile, coincide in Italia con il picco della pandemia politica. Il virus della divisione, «le polemiche scomposte, la rincorsa a illusori vantaggi di parte» di cui ha parlato Sergio Mattarella nel suo intervento all’Anci, l’associazione dei sindaci italiani, uno dei più drammatici in questo anno così tragico. La seconda ondata consegna l’immagine del Paese Babele, ingovernabile.

Lo scontro tra le regioni, con la richiesta di cambiare parametri che decidono le chiusure, cinque al posto di ventuno, gli insulti del presidente della regione Campania verso il governo nazionale e il sindaco di Napoli (ricambiati). E la commedia oscena della Sanità commissariata in Calabria, dove la cura era un miraggio ben prima del covid, con due posti letto e mezzo ogni mille abitanti contro i quattro di media nazionale e la cancellazione di ospedali, medici, infermieri, ambulatori, servizi territoriali (Alessia Candito, Repubblica 18 novembre) e con la diserzione delle figure chiamate a far risorgere il servizio pubblico sanitario calabrese: l’ex generale dei carabinieri che ha preferito travestirsi da perfetto idiota davanti alle telecamere, pur di negare le sue responsabilità, il commissario negazionista delle mascherine e sponsorizzato dal ministro del suo partito Roberto Speranza, l’ex magnifico rettore della Sapienza che si è ricordato di tenere famiglia.

A tenere alto l’onore delle istituzioni è rimasto il solo Gino Strada, verrebbe da chiamarlo un patriota in senso risorgimentale se non fosse che per Emergency l’unica patria riconosciuta è quella universale dei sofferenti, dei malati e dei feriti delle guerre e degli orrori provocati da uomini su altri esseri umani.

È il virus della divisione, «tra fasce di età più o meno esposte ai rischi più gravi, tra categorie sociali più o meno colpite dalle conseguenze economiche, tra le stesse istituzioni chiamate a compiere le scelte necessarie», di cui ha parlato il presidente della Repubblica. In questa situazione, «il pluralismo e l’articolazione» delle istituzioni repubblicane, da moltiplicatori di energie positive, finiscono per alimentare una spirale auto-distruttiva.

È una storia soltanto italiana? Per nulla. La politica della divisione è il tratto distintivo del nostro tempo. Negli Stati Uniti, dove il presidente in carica non ha ancora riconosciuto l’elezione del candidato avversario a oltre due settimane dal voto, e in Europa, percorsa dalla tentazione di fare da soli che si aggira di volta in volta tra i paesi dell’Unione, con la luminosa eccezione della Germania, almeno finché ci sarà Angela Merkel.
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La frattura, l’impossibilità di riportare ad unità la necessità di governare le società complesse. Un fenomeno che è più ampio del populismo e dei suoi rappresentanti politici, o dell’antipolitica. È una guerra civile permanente che si combatte territorio per territorio, centimetro per centimetro. Attraversa gli schieramenti in modo trasversale, perché la sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni non ha colore, non è soltanto della destra o della sinistra, anche se è poi la nuova destra a beneficiarne, quella parte che scommette e investe sulla disgregazione del corpo sociale per poi proporre una soluzione verticale: un capo, l’annullamento degli istituti di controllo e dei corpi intermedi in cui si articola la società, la concentrazione del potere. Se la società democratica non riesce a considerare il pluralismo una virtù, ma lo trasforma nel caos senza possibilità di governo, l’alternativa rimane il modello cinese o putiniano o turco nel senso di Erdogan o il tentativo di Trump (fallito, almeno per ora) di trasformare la democrazia americana in un regime trumpista.

In Europa c’è un problema in più, è la crisi sociale che sta per abbattersi sul continente, aggravata dalla incertezza che avvolge ora il piano che l’Unione ha messo in campo per arginarla e per rilanciare il suo ruolo nel mondo. Il Recovery Fund, il Next Generation Eu da cui dovrebbe partire il programma Recovery and Resilience Facility. In italiano, il Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza (Pnrr), come lo ha sempre chiamato il professor Enrico Giovannini.

La brutta notizia è che in Europa il piano è bloccato da Polonia e Ungheria (Wlodek Goldkorn e Andrea Porcheddu, ne scrivono per l'Espresso), che esercitano il veto sul bilancio Ue per non essere sottoposti alle condizioni sullo Stato di diritto. E in Italia siamo in alto mare. A lanciare l’allarme è l’italiano più alto in grado nella commissione di Bruxelles, il commissario all’Economia Paolo Gentiloni. Il tempo per presentare il piano italiano sta per scadere e la preoccupazione è legittima. Marco Buti, capo di gabinetto di Gentiloni, e l’economista Marcello Messori, in un report presentato alla Luiss il 15 novembre, affermano che ruolo dell’Italia è decisivo per il successo o il fallimento dell’intero piano europeo. «Si tratta di cogliere un’opportunità e di vincere una sfida che non hanno eguali nel recente passato e che sollecitano una mobilitazione del sistema paese in forme innovative. Tale mobilitazione dovrebbe investire ogni fase di elaborazione e di realizzazione della strategia e dei progetti nazionali».

Con tre caratteristiche: uno schema macroeconomico che incorpori il cambiamento, una cabina politica di regia speculare a quella europea, con un numero ristretto di componenti, poteri decisionali e struttura tecnica adeguata e con il coinvolgimento di istituzioni e corpi intermedi che non sfocino però nella rappresentanza degli interessi particolari. Infine, una selezione rigorosa e limitata di progetti e di priorità strategiche su cui concentrare la maggior parte delle risorse disponibili. Il contrario degli interventi a pioggia.

Se questi sono gli obiettivi, è evidente il ritardo politico con cui l’Italia sta affrontando questa scommessa decisiva per il suo futuro. La politica italiana parla d’altro. La coppia Salvini-Meloni insegue ogni micro-rivendicazione, qualsiasi refolo di protesta anti-governativa. E nella maggioranza avanza una inedita convergenza di convenienze. All’indomani dei fantasmatici stati generali del Movimento 5 Stelle, con una regia degna del film “Il Sesto senso”, il vero capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha chiesto più spazio per il suo partito: ovvero per se stesso. Anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi reclama da mesi un rimpasto. Manca all’appello il segretario del Pd Nicola Zingaretti, ma il pressing per farlo entrare nella squadra di governo è fortissimo.

Conclusione: per ora è una suggestione più che un progetto, ma avanza l’idea di un patto tra i tre leader che reggono la maggioranza per gestire gli ultimi due anni di legislatura: elezioni amministrative nelle grandi città (2021), elezione del nuovo presidente della Repubblica (2022), voto con il Parlamento ridotto a 400 deputati e 200 senatori e con una legge elettorale riscritta (2023). Per affiancare Giuseppe Conte come nuovi vice-premier in una specie di direttorio o per guidare un nuovo governo con un altro premier. E per scegliere insieme il successore di Mattarella che, specifica Renzi, dovrà durare fino al 2029. Non è una notazione accademica: significa alludere a un presidente nuovo con un mandato pieno, non una rielezione di Mattarella a termine, soluzione che oltretutto vede indisponibile l’attuale inquilino del Quirinale.

Un patto Zingaretti-Di Maio-Renzi. In acronimo, lo Zdr. Analogamente alla Ztl delle città, lo Zeta-di-erre sarebbe il quartiere centrale della politica. Ricorda accordi analoghi di leader del passato. Il Caf, Craxi-Andreotti-Forlani, tra il 1989 e il 1992, e l’Abc, Alfano-Bersani-Casini, tra il 2011 e il 2013 con il governo tecnico di Mario Monti. In comune c’è la trasversalità, si mettono insieme leader diversi sopra i partiti di appartenenza, e le opportunità di potere. Nel 1989-92 il Caf aveva il progetto di spartizione delle principali cariche istituzionali, Palazzo Chigi e il Quirinale, ma finì malissimo, con le inchieste Mani Pulite che affossarono le ambizioni di Craxi di tornare alla guida del governo e la strage di Capaci che bloccò l’ascesa di Andreotti alla presidenza della Repubblica. Era un patto di fine legislatura, ma anche di fine percorso, come sarebbe oggi lo Zdr. Anche allora c’era anche una scena internazionale in movimento e che il Caf non seppe interpretare: la caduta del muro di Berlino, l’annuncio di una nuova leadership americana e democratica in arrivo (Bill Clinton), gli accordi di Maastricht per la moneta unica europea. È stato lo spartiacque di quell’epoca, trent’anni fa, un mutamento accelerato e improvviso, non meno profondo di quel mondo cambiato che ci attenderà alla fine dell’incubo della pandemia.

Zingaretti, Di Maio e Renzi sono leader ancora giovani e ansiosi di futuro, a differenza dei capi democristiani e socialisti degli anni Novanta. Ma devono sapere che ogni patto di potere è destinato a sgretolarsi senza un disegno politico. Deve esserne consapevole, in particolare, il Pd. Può continuare a crogiolarsi nel suo ruolo attuale di partito inaggirabile per fare qualsiasi maggioranza, passaggio obbligato per qualsiasi schema di potere, incontournable . Oppure candidarsi a costituire per gli italiani senza rappresentanza l’autentico partito che oggi manca, il partito dell’interesse generale e del bene comune. Quello che ricuce e ricostruisce dove gli altri dividono. Il Partito della Ripresa e della Resilienza che oggi non c’è. Strappando questo ruolo a chi incredibilmente se ne è impadronito, Silvio Berlusconi. Che poi, forse, l’unico incontournable della politica italiana rimane lui. Meglio Gino Strada.

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