Quando la mafia iniziò a taglieggiare i commercianti di Capo d'Orlando, lui capì che bisognava opporsi subito. E tutti insieme. In trent'anni l’associazione antiracket ha fatto scuola anche fuori dalla Sicilia

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Da quando esiste la mafia, e sono quasi due secoli, l’estorsione è stata elemento odioso ma fondante dell’organizzazione criminale, anche se i boss hanno sempre cercato di mimetizzarne l’esercizio violento dietro una parola, “pizzo”, che richiama il tessuto gentile con cui venivano fatti i candidi fazzolettini, segni di riconoscimento in uso agli “esattori” mafiosi che passavano al setaccio i quartieri, a Palermo come a Napoli o a Reggio Calabria, per incassare l’”offerta” estorta a commercianti e professionisti.

Per lunghissimi decenni generazioni di bottegai e piccoli e medi imprenditori hanno pagato il “contributo” a Natale e Pasqua senza mai un lamento, senza un cenno di ribellione, finendo per finanziare e sostenere quella che Diego Gambetta, in uno dei suoi libri, definisce “l’industria della protezione”. Un inganno che ha impedito alle vittime dissanguate di capire che il bisogno di protezione era una “necessità” creata da quegli stessi avvoltoi che poi chiedevano il prezzo del “servizio reso”. In sostanza si creava un pericolo per le attività produttive (risse, rapine, incendi, insolvenza dei creditori) per poter poi offrire la protezione.

Questo fino agli anni Novanta, quando, grazie anche ad una mutata consapevolezza culturale e politica (basti ricordare Vito Ciancimino spedito in carcere da Giovanni Falcone) e un nuovo impegno dello Stato (il Maxiprocesso), la catena viene spezzata e un gruppo di commercianti siciliani si rifiuta clamorosamente di continuare a pagare il “pizzo” accettando, novità impensabile fino a quel momento, addirittura di denunciare i suoi aguzzini e trascinarli in tribunale. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione, una rivoluzione sociale messa in moto da pochissime, coraggiose persone che fondano l’ACIO, la prima Associazione Antiracket italiana.
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Oggi la cellula primaria si è evoluta ed è diventata una grande confederazione, la FAI, presente in tutte le regioni a testimonianza dell’ottimo lavoro portato avanti negli ultimi tre lustri. Già, perché proprio in questi giorni il movimento antiracket, fondato dal commerciante “filosofo” Tano Grasso e da pochi altri, compie i suoi primi trent’anni e può vantare il non trascurabile risultato di aver “cambiato” la testa di tanti operatori economici che hanno scoperto la libertà d’impresa e la possibilità di opporsi alla prevaricazione. Una rivoluzione, appunto.

Tutto cominciò alla fine dell’estate del 1990 a Capo d’Orlando, un “tranquillo” paesone turistico del Messinese ufficialmente immune dal contagio mafioso (quella era considerata la “provincia babba”, proprio per la presunta assenza di Cosa nostra), ma sostanzialmente dominato da due “famiglie” fameliche e violente: i Bontempo e i Galati. Sotto la cenere covava il fuoco e così cominciarono e esplodere bombe e bombette, l’impossibile fenomeno dell’autocombustione divenne regola, fino all’aggressione selvaggia: i colpi d’arma da fuoco alla finestra della camera da letto di Ciccio Signorino, titolare della concessionaria Renault che aveva già subito l’incendio dell’autosalone. Era cominciata la diffusione a tappeto del “pizzo”.

Ricorda Sarino Damiano, allora titolare anima e motore dell’albergo ristorante “La Tartaruga”, che una sera andarono a trovarlo nella sala da pranzo, a San Gregorio, e senza indugi gli dissero: «Siamo quelli del pizzo». Gli chiesero subito trenta milioni, aggiungendo che era un “prezzo di favore”. Insomma, a Capo d’Orlando la vita cominciava a diventare difficile. Se ne rendevano conto in pochi ma il clima si faceva davvero difficile.
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Allora Tano Grasso, laureato in filosofia e titolare di un avviato negozio di scarpe, intuì che bisognava inventarsi qualcosa altrimenti si sarebbe avviato un processo di assoggettamento alla mafia che non sarebbe stato più possibile estirpare. Dello stesso parere don Totino Licata, il parroco, e pochi altri “arditi” che cominciarono a riunirsi, al calar della sera, come carbonari. Il luogo di raccolta era la sala parrocchiale. Tano Grasso ricorda la prima riunione: settembre 1990, presenti otto persone.

La strategia era quella di strappare le vittime del pizzo al confronto diretto e personale coi mafiosi perché sarebbe stato un confronto perdente. Bisognava “spersonalizzare” la battaglia, anche per limitare al minimo il rischio di ritorsioni individuali che avrebbero inesorabilmente ricacciato indietro ogni velleità di opposizione al pizzo. L’idea, poi rivelatasi vincente, fu la creazione di una associazione di commercianti orlandini che avrebbe dovuto intestarsi la paternità del diritto di tutelare gli interessi dell’intera categoria e difendere, anche in tribunale, le vittime dei taglieggiamenti. Ovviamente tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della questura di Messina, che non lo fece mancare, spingendosi anche alla partecipazione attiva alle “riunioni carbonare”. I messaggeri mafiosi che offrivano “protezione” vennero messi alla porta e cominciò la guerra.

Ma bisognava passare al concreto per evitare che i racconti delle vittime «rimanessero confinati nel mondo delle fiabe» (parole di don Totino Licata) e fossero trasportati nel mondo reale, cioè le aule di giustizia. Il 7 dicembre successivo, davanti ad Adele Penna, notaio in Naso, nasceva l’Associazione antiracket, sede ufficiale in via Trieste, e contemporaneamente partivano le denunce contro i boss e le relative indagini. Era la prima volta che vittime del pizzo mettevano nero su bianco e firmavano un verbale.

Una mutazione radicale, testimoniata anche visivamente dalla trasformazione del territorio, improvvisamente affollato di camionette e divise. Arrivarono 120 poliziotti a chiarire anche il mutato atteggiamento delle istituzioni. La “Tartaruga” di Sarino, una volta famosa per la sua zuppa di fave e cernia e per la spiaggetta antistante, dove Gino Paoli aveva scritto “Sapore di sale” ispirato da una giovane meravigliosa Stefania Sandrelli, divenne l’icona della resistenza allo strapotere mafioso. Cominciò a popolarsi di cronisti, accorsi per raccontare la rivoluzione di Capo d’Orlando e 21 boss finalmente in catene. Era il secondo segnale di riscatto dei siciliani, dopo il Maxiprocesso.

L’udienza preliminare fu celebrata il 31 luglio del 1991. E fu un successo epocale perché all’Associazione antiracket venne riconosciuto il diritto di costituirsi parte civile contro i boss. Anche questa una rivoluzione che agevolava tantissimo la resistenza alla mafia, diminuendo notevolmente il margine di rischio per i singoli denuncianti e rendendo inappetibili eventuali velleità intimidatorie dei boss in carcere.

Nello stesso tempo il “fenomeno ACIO” conquistava le prime pagine di giornali e tv. Fino alla condanna definitiva di 19 boss per associazione mafiosa, particolare non trascurabile perché per la prima volta viene applicato il 416 bis, introdotto nel codice da Giovanni Falcone. In questo senso si può dire che l’attacco ai commercianti di Capo d’Orlando sia stato uno dei “peggiori affari” della mafia.

Ma lontano da Capo d’Orlando maturava una tragedia che avrebbe finito per devastare molte coscienze istituzionali e dare forza alla scelta collettiva dei commercianti del Messinese. Il 29 agosto del 1991, alle 7,30 del mattino, la mafia di Palermo uccideva l’imprenditore Libero Grassi, lasciato scandalosamente solo nell’azione di denuncia ai suoi estortori. Non solo, Grassi, si era rifiutato di pagare il pizzo, ma era andato oltre scrivendo una lettera, “all’ignoto estorsore” pubblicata dal Giornale di Sicilia del 10 gennaio del 1991, con cui dichiarava apertamente: «Non vi pago». Concetto poi confermato con la forza mediatica di una trasmissione televisiva come Samarcanda di Santoro.

Libero Grassi morì in solitudine, così com’era stato durante la sua battaglia antimafia. La sua morte ebbe evidenti contraccolpi sul fronte della resistenza a Cosa nostra, ma, nello stesso tempo, l’eco rimbalzava dando forza e credibilità alla strategia dell’ACIO. La teoria di Tano Grasso, che anche mediaticamente raccoglieva il testimone di Libero, cioè la strategia di “diluire il rischio” strappando la battaglia al terreno della personalizzazione per farne “questione politica e istituzionale” diveniva il “modello Capo d’Orlando” che resiste da 30 anni ed è ormai radicato nella Fai, Federazione antiracket, una solida realtà nazionale, esportata nelle zone più calde del paese: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Lazio e in ogni posto dove è necessario combattere non più solamente il racket, ma anche l’usura che della mafia fa parte a pieno titolo.

In questo cammino si sono subite perdite, anche per clamorosi rallentamenti e autogol della politica (uno per tutti, la cacciata di Tano Grasso da Commissario nazionale antiracket da parte del governo Berlusconi, nel 2001). Abbiamo avuto vittime, Giovanni Panunzio a Foggia, Gaetano Giordano a Gela, Domenico Noviello a Castel Volturno e tanti altri che è difficile ricordare tanto lungo è l’elenco. Vittime che sono state il seme per tante vittorie che hanno dell’incredibile se si pensa che sono frutto di un movimento spontaneo mai arretrato in trent’anni. Un movimento in piena espansione, come dimostra il radicamento in Campania di quello che fu il “modello Capo d’Orlando”.

Oggi si chiama “modello Ercolano” ed ha cambiato il volto di un intero territorio. Ercolano è stato teatro di una strage continua: dal 2001 al 2009 58 omicidi di camorra e 34 tentati, in un paese di 56 mila abitanti. Dal 2007 opera l’associazione antiracket che, in meno di tre anni, è riuscita - come avvenne a Capo d’Orlando - a capovolgere costumi e statistiche: operazioni antimafia (Fuochi di San Martino, Regalo di Natale, Centovetrine, Freeshop) e 411 arresti in seguito a denunce e indagini serrate. La scoperta del “libro mastro” delle estorsioni e i conseguenti arresti danno fiducia alle vittime che si mettono in fila per denunciare. Proprio come a Capo d’Orlando.