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Attualità
novembre, 2020

Smart working, la rivoluzione impossibile

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Oltre otto milioni non torneranno più in ufficio dopo il virus. Un terzo degli occupati dovrebbero lavorare a distanza. Ma l'Italia, al solito, non ha niente da mettersi fra gap digitali, leggi da rifare e liti fra governo e sindacati

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Arriva la rivoluzione e l’Italia non ha niente da mettersi. Il lavoro a distanza, spinto dall’emergenza Coronavirus, ha cambiato faccia al mondo delle imprese pubbliche e private e ha portato a galla inadeguatezze di formazione, di organizzazione aziendale, di infrastrutture digitali. L’accelerazione esponenziale di una metamorfosi che era prevista in tempi molto più dilatati avrà il merito di spazzare via un po’ di ruggine dal sistema produttivo ma, come ogni rivoluzione, rischia di perdersi fra eccessi e distorsioni. Stavolta però non si prevedono restaurazioni, soltanto un ordine di arrivo di una gara globale.

Alle difficoltà di fondo bisogna aggiungere i problemi che si stanno verificando nel confronto fra aziende, governo e i lavoratori che sono stati spesso chiamati a tappare i buchi dell’emergenza con le loro risorse personali.
Sindacati e imprese faticano a trovare un accordo con i ministri del governo giallo-rosa, in particolare con la componente grillina. Il settore del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil si è confrontato a lungo senza esiti con la ministra Fabiana Dadone. Con l’altra ministra competente, Nunzia Catalfo (Lavoro), anche lei M5S, il dialogo finora è stato altrettanto problematico e lo stesso vale per Paola Pisano (Innovazione), mentre Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) scrive lettere di fuoco a Enel e Tim, entrambe impegnate nel progetto Rete Unica, l’autostrada digitale che, come quelle d’asfalto, tarda a finire i lavori.

Per l’Italia è una corsa a handicap. L’indice Desi (Digital economy and society index) a cura della Commissione europea conferma che i primi della classe (Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda) sono ancora molto lontani. L’ultima classifica, pubblicata a giugno di quest’anno, colloca l’Italia in quartultima posizione, prima soltanto di Romania, Grecia e Bulgaria e un posto più indietro rispetto al 2019 dopo il sorpasso della Polonia. Nel parametro dedicato al capitale umano nessuno fa peggio. Solo il 42 per cento delle persone tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base (58 per cento nella media Ue, 70 per cento in Germania); la percentuale di specialisti Ict (discipline informatiche) sugli occupati è solo del 2,8 per cento (3,9 per cento in Ue e in Germania); solo l’1 per cento dei laureati italiani è in possesso di una laurea in discipline Ict (3,6 per cento in Ue, 4,7 per cento in Germania).

TUTTI A CASA
Le previsioni dell’osservatorio del Politecnico di Milano parlano di 5,35 milioni di lavoratori in remoto a fine emergenza virus. Secondo i dati dell’Istat, la platea del lavoro a distanza potrà arrivare fino a 8,2 milioni. È più di un terzo della massa di occupati totali in Italia (23,4 milioni). Durante la prima chiusura da Covid-19 si stima che oltre 6 milioni di persone abbiano lavorato a distanza. Lo choc si misura facilmente se si pensa che alla vigilia del Covid-19 i lavoratori da remoto erano un po’ più di seicentomila, contro i duecentomila di quattro anni fa.
Il settore privato rappresenta la parte principale degli aspiranti nomadi digitali mentre il pubblico ha contribuito alla remotizzazione soprattutto con oltre un milione di lavoratori della scuola che, in una prospettiva “Covid free”, rientreranno.

Eppure il quadro normativo sul lavoro a distanza approvato soltanto tre anni fa sembra già in buona parte obsoleto. Nel 2017 Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo guidato da Matteo Renzi, aveva portato a termine il primo tentativo di regolare il lavoro distanza attraverso la legge 81, messa a punto da Maurizio Del Conte, ex presidente di Anpal, l’agenzia del lavoro.

«Non avrei mai immaginato che il banco di prova fosse così vicino», dice Del Conte, ordinario di diritto del lavoro alla Bocconi e partner dello studio Gattai Minoli Agostinelli. «La legge era stata fatta per una platea al tempo molto di nicchia e metteva l’accento sull’accordo volontario fra datore di lavoro e dipendente. La nostra missione era dare l’opportunità di cambiare gli assetti organizzativi interni alle aziende. Poi a marzo del 2020 molti milioni di lavoratori sono stati spediti a casa da un giorno all’altro in modo brutale, sia quelli che potevano sia quelli che non potevano permettersi il lavoro da remoto. Oggi ci siamo accorti che molte imprese hanno spostato sui lavoratori quote di costi prima a loro carico. La norma deve compensare queste spese magari attraverso detrazioni fiscali. Soprattutto da rivisitare è la struttura organizzativa del management nelle imprese piccole e medie, quelle con un capo che prima ti controllava standoti addosso e adesso ti chiama ogni cinque minuti perché non è capace di indirizzare i flussi di lavoro. La sfida è nello spostare la misurazione del lavoro dal tempo al risultato».

Nella sfida è incluso il diritto alla disconnessione che rischia di sostituire le dinamiche della mega azienda fantozziana e gli impiegati in fuga alle 17 in punto con una vigilanza digitale non meno opprimente.

BANDA AL LARGO
Finora il mondo ha risposto al nomadismo digitale in ordine sparso, spesso adeguando l’agenda ai tempi della pandemia. La città di New York ha registrato 290 mila richieste di trasferimento dal primo marzo al 31 ottobre. Il settimanale britannico The Economist ha scritto che le grandi catene alberghiere mondiali come Hilton, Sofitel e Wyndham si sono mosse per offrire ai lavoratori a distanza le loro camere lasciate vuote dalla crisi del turismo internazionale. A prezzi più popolari anche i pub britannici si sono uniti alla proposta.

Alcune nazioni hanno offerto agevolazioni fiscali. La Grecia di Kyriakos Mitsotakis riduce le tasse del 50 per cento per sette anni ai nomadi digitali che si trasferiscono sul territorio ellenico. L’Estonia sconta l’80 per cento sulla tassa delle persone fisiche a chi guadagna almeno 3350 dollari al mese. Provvedimenti analoghi ha preso la Georgia, aspirante membro dell’Ue. Nei paradisi offshore delle Bermude e delle Barbados la tassazione per i nuovi residenti digitali è zero.

L’Italia, generosa con i super ricchi che prendono la residenza in cambio di 100 mila euro di flat tax, ha messo a disposizione la stessa cifra per il progresso digitale e per il bonus bici-monopattino. Il 9 novembre è stata varata l’operazione voucher sotto il controllo dell’agenzia governativa Infratel. Sono 500 euro per chi ha un Isee inferiore a 20 mila euro l’anno da spendere in hardware, software o abbonamenti alla banda larga. Il bonus era stato sbloccato nella tarda primavera dalla commissione europea che ha dovuto escludere l’aiuto di Stato.

Dal punto di vista dell’infrastruttura digitale l’Italia continua essere una giungla. L’Adsl è ancora molto usata. Per la banda larga e ultra larga esistono tecnologie diverse: Fttc mista fibra-cavi, Ffth solo fibra, Fwa a onde radio e, in prospettiva, il chiacchieratissimo 5G. Le prestazioni di questi sistemi variano da 100-200 Mbps (megabit per secondo) a 1000 (un giga per secondo) e sono offerte da operatori privati di varie dimensioni come Telecom Italia, Vodafone, Fastweb, Linkem, Eolo, e Open Fiber, la società mista tra Enel e Cassa depositi e prestiti (Cdp) che in questi giorni è finita nella tempesta per la prossima cessione della partecipazione dell’ex monopolista elettrico al fondo australiano Macquarie.

Open Fiber è al centro del progetto Rete Unica, insieme a Telecom, e dovrebbe portare la banda nelle cosiddette zone bianche, o a fallimento di mercato, dove è impossibile fare profitti, a differenza delle zone grigie e di quelle nere, le più attraenti per gli operatori privati. Intorno alla sistemazione di Open Fiber sono in ballo i fondi Ue Next generation (750 miliardi di euro complessivi).

«La Rete Unica», dice Stefano Da Empoli, presidente del think tank I-Com con sedi a Roma e Bruxelles, «nasce con lo scopo di dare un’accelerazione ma se l’operazione si chiude male diventa un ulteriore elemento di confusione che si aggiunge a qualche ritardo dovuto ai bandi, ai soliti ricorsi del secondo classificato e a uno spostamento della chiusura del digital divide da parte dei Comuni dal 2020 al 2022-2023».

I colossi del settore cercano di tappare il buco. Tim, che mantiene una parte di azionariato pubblico con il 10 per cento in mano a Cdp, ha installato la tecnologia Fttc quest’anno nel 90 per cento delle famiglie con linea fissa e prevede una copertura Ftth del 56 per cento del paese e 76 per cento delle aree nere e grigie da qui al 2025. Dopo il decreto “Cura Italia” e l’accordo con Infratel la società guidata da Luigi Gubitosi ha attivato la copertura di fibra ottica in tremila Comuni da fine febbraio a fine ottobre e ha confermato l’obiettivo di chiudere il “digital divide” in Italia entro il 2021.

Un altro dei nodi è che ogni ministero, agenzia, ente regionale utilizza banche dati e piattaforme diverse che non dialogano fra loro con un aggravio aggiuntivo in termini di diseconomie e l’impossibilità di raggiungere l’unificazione tra fascicolo sanitario, anagrafico, tributario e contributivo sotto un unico codice, che sia fiscale o spid.

Le conseguenze sono particolarmente destabilizzanti in alcuni settori come l’amministrazione della giustizia. L’Associazione nazionale magistrati (Anm) emette comunicati a scadenza settimanale per denunciare le difficoltà di celebrare processi telematici con una rete digitale insufficiente. L’incontro con il ministro grillino Alfonso Bonafede del 19 novembre si è chiuso in maniera tipicamente italiana. Dopo anni a parlare di fascicolo digitale, mentre i tribunali rimangono ingombri di scartoffie, il ministro si è detto disponibile ad “ampliare al massimo gli strumenti e a intervenire sui temi segnalati”, cioè la trattazione dei processi in sicurezza, inclusi i casi di udienza da remoto. Per finire Bonafede ha accettato di creare un tavolo di confronto, non si sa se virtuale o reale, con il sindacato dei magistrati.

GLI STATALI CANAGLIA
In piena seconda ondata ogni rivendicazione sindacale rischia di essere bollata come un insulto agli oltre 600 mila operatori della sanità impegnati in prima linea contro il virus e, in seconda battuta, al mondo delle partite Iva. Avere uno stipendio fisso è una colpa, chiedere l’aumento o l’erogazione dei buoni pasto un oltraggio.

Serena Sorrentino, segretaria nazionale della Cgil funzione pubblica, non è d’accordo con le critiche arrivate anche dal premier Giuseppe Conte. «Le nostre vertenze», dice Sorrentino, che si ispira alla lezione di Massimo D’Antona, giuslavorista assassinato dalle Br a Roma ventuno anni fa, «non sono soltanto rivendicazioni salariali ma un invito a mettere al centro del lavoro agile i temi della gestione flessibile e della produttività, al posto della presenza in ufficio o del numero di ore di connessione da remoto. Con la spesso vituperata Inps abbiamo fatto accordi durante l’emergenza sui turni di notte, in modo da sfruttare la fase in cui banda era più libera, ma tante famiglie si sono trovate dall’oggi al domani con quattro o cinque apparecchi attivi contemporaneamente da casa, fra lavoro dei genitori e didattica a distanza dei figli».

Nella passione per gli acronimi che si accompagna da sempre ai processi burocratici, dopo i Dpcm sono arrivati i Pola (piani di organizzazione del lavoro agile). «Ma il lavoro agile», continua Sorrentino, «non può essere definito con una direttiva, come ha fatto il governo, e per definizione non può essere standardizzato altrimenti lo si rende ancora più burocratico invece che più flessibile. Ci sono voluti mesi perché il ministero dell’Innovazione capisse che proprio i ministeri avevano bisogno di piattaforme. Lo smart working, che durante tutta l’emergenza è stato piuttosto uno home working, deve essere la leva del cambiamento per migliorare la qualità dei servizi e in questo senso le regole devono essere oggetto di una valutazione congiunta che coinvolga il sindacato, fermo restando che sarà il dirigente a organizzare il lavoro».

A prima vista, il governo in carica sembrerebbe il più adatto a venire incontro a queste richieste. Non è così. Gran parte della retorica sui furbetti del cartellino è servita a distogliere l’attenzione dall’alta burocrazia al piccolo impiegato non troppo onesto. Ma è proprio la fascia dirigenziale del pubblico impiego che spesso rema contro la riforma smart, abituata com’è ad applicare direttive dall’alto senza porsi più di tanto il problema dell’organizzazione del lavoro, della valutazione degli obiettivi e, alla fine, della stessa produttività.
«Ma devo anche osservare», dice Del Conte, «che non ho visto tutte queste differenze fra settore pubblico e privato. I meccanismi sono gli stessi».

Semmai la differenza sta nelle dimensioni. «In effetti», conclude Da Empoli, «le grandi aziende hanno reagito bene nel complesso. Molto meno le piccole e medie che sono l’ossatura dell’imprenditoria italiana e a volte non avevano neanche il cloud. Si continua a parlare in modo improprio di smart working, che implica un’organizzazione del lavoro del tutto differente da quella tradizionale, invece della semplice remotizzazione imposta dalle circostanze. Fermo restando che l’ufficio continuerà ad avere un ruolo, mi auguro che non ci sia un ritorno al passato a fine emergenza».

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