Un bambino venuto al mondo senza che niente lo abbia preceduto. Un incendio che costringe a ricominciare da zero. O una scena di sesso violento che mette a nudo una crisi di coppia. Una scrittrice divisa tra presente e Shoah parla di quello che racconta nel nuovo libro, di quello che sogna e di quello che vorrebbe dimenticare

Illustrazione di Ivan Canu
Grazie a Zoom, siamo approdati nella casa di Nicole Krauss a Brooklyn. Lei ha quarantasei anni, di cui gli ultimi quindici da scrittrice di grande successo, elogiata dalla critica, molto apprezzata dal pubblico. E basti pensare ai suoi romanzi: “La storia dell’amore”, “La grande casa”, “Selva oscura”, in Italia pubblicati da Guanda e dove dispiega l’arte di raccontare la memoria, una memoria che attinge alle fonti del Vecchio Continente e alle sue lingue vive (il tedesco di Kafka, l’ebraico di Israele, molto presente nel suo immaginario, e reinventato in Europa dell’Ottocento) e estinte (lo yiddish dei protagonisti di “La storia dell’amore”, appunto).

Lo fa senza sentimentalismo, ma con emozioni estreme, filtrate tuttavia dalla razionale consapevolezza della caducità delle vite umane. Ma in questa conversazione dice che «talvolta perdere la memoria è un sollievo». Si riferisce alla storia (inventata) di uno studioso che decide di perdere la memoria dei duemila anni di sofferenze ebraiche, quando vede nascere il suo nipotino. «Sarebbe bello immaginarsi un bambino venuto al mondo, senza che niente l’abbia preceduto», dice lei. O se vogliamo, Krauss, seduta sulle spalle dei giganti della letteratura statunitense, da Grace Paley (autrice mai sufficientemente apprezzata in Italia) a Paul Auster (che dalla causalità degli eventi, dal gioco degli specchi, ha fatto la sua cifra), ha rinnovato il modo di narrare americano, reintroducendo la memoria europea, non come un libro chiuso ma come un elemento con cui costruire una specie di nostalgia del futuro.

La troviamo dunque sullo schermo del computer, in una minuscola stanza (in genere, ai suoi libri lavora nelle biblioteche, spazi neutri, lontani dall’intimità domestica), elegante, bella, vitale. Colpiscono gli occhi scuri che esprimono una riflessiva allegria. Il pretesto per il colloquio è il suo volume “To Be A Man”, una raccolta di storie brevi, pubblicato negli States (in Italia l’anno prossimo), ma il tema vero sono le questioni che tocca sempre nei suoi testi: i fili rossi nascosti e latenti che collegano le persone, e l’amore ai tempi della catastrofe, anzi delle fini del mondo, al plurale.
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Lei comincia con raccontare dei suoi due figli maschi e allora è inevitabile chiederle la ragione del titolo “Essere uomo” che può significare porsi domande sulla mascolinità, ma anche mettere in gioco un termine yiddish spesso usato nel gergo di New York, “mentsch” (uomo), che vuol dire persona decente. Krauss ride. Poi dice: «Intendevo ambedue le cose, ma anche molto di più. Ho cercato di indagare su cosa significhi essere umano». Poi, incalzata dalle domande e ipotesi per cui i maschi soffrono dell’ancestrale paura della morte, perché non sono loro a dare vita e quindi hanno difficoltà a dare l’amore, reagisce: «Gli uomini che hanno partecipato alla mia vita erano invece capacissimi di dare amore. E quando scrivo sono interessata non alle pur eleganti teorie generali ma al fatto che in questo momento sto facendo crescere due ragazzi che devono decidere che cosa è per loro la mascolinità».

Spiega poi come a scuola si parli ai ragazzini e ragazzine della questione del consenso, all’età in cui loro non hanno ancora nemmeno baciato un’altra persona, per non parlare della vicinanza dei corpi, e quindi come si pone la domanda «cosa è il desiderio, come diventi uomo, senza rinunciare a certi ideali di forza e di potere». E anche, come affrontare il fatto «che le donne chiedono ai maschi di essere desiderate». Aggiunge: «Spero che lei lo sappia», e ride. Poi riprende il filo del discorso per tornare al rapporto fra la vita e la letteratura. «La letteratura non risolve le antinomie, le mette in luce. È quello il compito dello scrittore, che non è né filosofo né psicologo». Cita un suo racconto in cui parla di un pugile tedesco e un soldato israeliano, e il modo in cui ciascuno dei due deve far fronte a quello che la società si aspetta in termini di violenza da un boxeur e un militare, maschi.

E allora, visto che per parlare della vita e dei legami fra le persone e le cose, Krauss ha bisogno di discorrere di ciò che scrive, citiamo un testo in cui lei racconta la storia di una donna che arriva a Tel Aviv in casa del padre, morto da poco. In quella casa trova un amico del genitore che la abita e stabilisce con lui un rapporto all’inizio di insofferenza, ma poi scopre di avere bisogno di quella relazione. Lei interrompe la domanda e dice: «Mi affascina, fin da quando ero bambina, la fantasia dell’intimità che attraversa le frontiere, la storia, le generazioni». Certo, lo si vede in ogni suo libro, però, oggi all’epoca della pandemia abbiamo problemi enormi con i legami fra gli umani. Non possiamo avere rapporti con gli sconosciuti. E allora, inevitabile la domanda: cosa saremo dopo questa esperienza estrema? «Io ho la mentalità da sopravvissuta», dice. Spiegazione: nei libri di Krauss, c’è sottotraccia la testimonianza di una discendente di persone segnate dalla Shoah.
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Lei precisa: «Vuol dire che hai due possibilità, o ti lasci sopraffare dal trauma, oppure» - e di nuovo una risata liberatoria - «sei pieno di gioia, forza vitale e riconoscenza, perché tu sei fuori dalla situazione di trauma. Io sono sostenitrice e tifosa della seconda opzione. Penso quindi che dopo il Covid-19, e spero presto, avremo un nuovo periodo di ruggenti anni Venti, con un rinnovato senso del bisogno del contatto fisico e dell’avventura». Quando sente citato un libro, appena pubblicato in Polonia, in cui si racconta che la prima cosa che chiedevano le prigioniere ai soldati inglesi e americani, appena liberate nel campo di Bergen Belsen era non solo il cibo ma il rossetto, reagisce: «Essere belle significa attrarre, per stabilire un contatto, fisico e emozionale. Siamo animali, sappiamo istintivamente cosa vogliamo».

Sorride sorniona: «C’è nel mio libro un racconto dove cito Armaggedon, un incendio gigantesco e disastri vari ma in conclusione, la protagonista, riflettendo sulle fini del mondo, va a letto con un giovane rabbino. Lei sente che nel passaggio fra una catastrofe e l’altra resta il desiderio, il sesso, l’attesa». Si parla del fatto che la cultura americana comunque ha sempre avuto la paura del contatto fisico, ed esiste «un muro invisibile fra le persone e per questo quando vado in Israele mi sento libera, perché là, come in Italia, quelle barriere non esistono».

E così si arriva dritto a una scena, in cui lei donna e americana, cita in un racconto con parole crude la scena di un film pornografico che la protagonista guarda assieme al suo amante, e in cui tre uomini penetrano una ragazza. «L’ha scioccato quella scena? Guardi, basta sapere che la pornografia è teatro e guai a scambiare i desideri delle donne per quel teatro».

E poi? «Nell’economia del racconto, questo era un momento rivelatore della psicologia del maschio e quel momento è importante per la sua amante. Lei gli dà il consenso di guardare il film. Non c’è niente di scandaloso in tutto questo e del resto la cosa capita anche nella vita reale. Ma poi, nel mio racconto, arriva il momento di tenerezza, in cui la donna capisce che lui non le basta».

Sospira, tace, cerca le parole: «Le donne vogliono sempre di più e non si sentono mai abbastanza amate e desiderate. Nella nostra follia torniamo sempre a qualcosa di arcaico, primordiale». Riflette e aggiunge in termini psicoanalitici: «Ho cercato di raccontare una messa in scena delle nostre paure, delle nostre patologie». Ride, quando sente che ciò che ha appena detto contraddice la sua affermazione per cui lo scrittore non è uno psicologo.

E l’amore? Cosa allora è amore? È passione da giovani, cura reciproca da vecchi? Krauss parla sempre dell’amore, lo mette nei titoli. E anche, descrive la decadenza dei corpi e il mutare dei sentimenti, con un’abilità che pochi hanno. Ora che di anni ne ha appunto quarantasei (età che fuori dall’Italia non è considerata da giovani) come la pensa? «Con l’età capisci che l’amore non è solo passione ma una casa in cui puoi essere sicuro che l’altro si prenderà cura di te. Sembra ovvio ma non è il modo in cui ci hanno insegnato di amare», risponde. Riflette su quanto sia difficile educare a non sbagliare quando si cerca di dar vita al desiderio: «Sottolineo, il movimento Metoo era necessario, indispensabile. Un no è un no. E una molestia è una molestia. Punto. Ma ci sono cose, nei messaggi digitali, nei comportamenti, che esprimono semplicemente il desiderio. E molti giovani, senza esperienza al riguardo, sono confusi».

Resta, nel libro, un discorso inusuale per i tempi dell’esaltazione della non violenza, e cioè il racconto il cui il protagonista, uno storico del Medioevo, insiste sul fatto che la violenza non può essere espugnata, cancellata dalla storia, dalla vita e, chissà, dai rapporti intimi. Sullo schermo del computer si vede Krauss alzare lo sguardo, serrare la bocca per un bel po’ e poi si sente la voce, forte: «C’è un frammento del mio ultimo romanzo (“Selva oscura”) in cui la protagonista è in Israele, nel deserto con le valigie. Si ricorda la storia d’amore con il suo ragazzo in Grecia e rammenta la violenza fra di loro. C’era follia ma anche molto amore, nella loro relazione. E dice che nell’amore c’è sempre violenza e che lei mai avrebbe avuto fiducia in un amore senza la violenza. Io per quelle righe sono stata attaccata da alcuni critici, che credo non le abbiano comprese. Ora, io non sono favorevole alla violenza. Ma quando hai a che fare con un’altra persona con cui entri in un rapporto d’amore devi resettare te stessa, devi trovare dentro un posto per l’altro. Le conseguenze di quel processo, che non è mai pacifico, ce le portiamo per tutta la vita». Perché? «Ma perché mai possiamo accettare al cento per cento l’altro dentro di noi, il processo in cui cambiamo per fargli spazio non è mai sereno», è la risposta.

Segue un sorriso quando sente che secondo Amos Oz un rapporto d’amore comporta una serie di compromessi, altrimenti non è altro che lotta fra due egoismi. Poi riprende: «Il discorso vale per ogni rapporto con uno sconosciuto, un estraneo, uno straniero. E per questo, cerchiamo spesso di evitare i rapporti con l’Altro. E vale anche per i rapporti fra gli israeliani e i palestinesi. Ma se ami davvero qualcuno devi affrontare questo problema, lo devi fare con coraggio e senza diventare vittima. La questione riguarda sia i maschi che le donne».

La conversazione potrebbe terminare qui. Ma è obbligatoria la domanda su Joe Biden, il presidente eletto. Possiamo sperare in una rinascita dell’America e dell’Occidente? «Certo che ho speranza e provo sollievo per la sconfitta di quel mostro le cui menzogne e malvagità hanno dominato per quattro anni le nostre coscienze. Ma Trump non è venuto fuori dal nulla. È il sintomo di qualcosa che non funziona nel nostro sistema. E ora cosa faremo per riparare il mondo, dal momento che sappiamo che un simile incubo è stato realtà?».

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