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Campagna
Le telecamere riprendono ogni movimento: le mucche procedono una dietro l’altra verso il luogo nel quale saranno munte. Quelle immagini serviranno agli allevatori per capire comportamenti strani da parte degli animali. Il sistema è basato su un algoritmo che impara a conoscere le movenze e i volti di ogni mucca. Risultato: meno animali morti e questo per alcuni allevatori può significare riuscire a sopravvivere. Ma questa unione dei due volti della Cina, quello storico rurale e quello contemporaneo tecnologico avviene anche in altri campi: molti coltivatori cinesi utilizzano già trattori a guida autonoma, così come esistono allevamenti ittici che usano sensori per monitorare il livello di ossigeno e regolare le forniture di cibo.
Si tratta del tentativo della Cina rurale di difendersi da abbandono delle campagne, invecchiamento della popolazione e redditi che diminuiscono. Il censimento nazionale del 2011 ha sancito che la Cina è ormai un paese a maggioranza urbana. Nel 1949, anno di fondazione della repubblica popolare, l’89% delle persone viveva in campagna, nel 2018, secondo l’agenzia di stato Xinhua, la percentuale era del 40,42% (circa 564 milioni di persone sul totale di un miliardo e 400 milioni).
Negli anni il partito comunista ha lanciato una vasta campagna di “urbanizzazione”: prima le metropoli, poi le città di seconda e terza fascia e infine alcune zone di campagna che via via sono state “inurbate”. Questo processo in atto dalla fine degli anni ’70 ha avuto costi sociali altissimi: i primi ad abbandonare le campagne sono stati i cosiddetti “lavoratori fluttuanti”, quelli che dalle zone remote sono andati a spaccarsi la schiena nei polmoni economici della zona sud orientale del paese. Nei villaggi hanno lasciato famiglie e diritti, perché l’hukou, una sorta di permesso di residenza, lega i diritti sociali al luogo di provenienza.
Negli ultimi anni, però, la vita schizofrenica delle metropoli cinesi ha portato molti lavoratori e anche parecchi giovani a tornare nelle zone rurali per dare vita a progetti di coltivazione biologica o per modernizzare i processi agricoli. In Cina non esistono processi che non siano “battezzati” dal Pcc: non a caso Xi Jinping si è fatto fotografare con sfondi paesaggistici, risaie, allevamenti, proprio in occasione del lancio di un piano dal nome altisonante, “la rivitalizzazione rurale”. Al momento però questo progetto pare andare nelle consuete direzioni: tante promesse e la solita realtà degli espropri forzati.
Sui media cinesi ha trovato ampio spazio la storia di Wali, un villaggio dello Shandong (regione che diede i natali a Confucio) a inizio di settembre, quando gli abitanti hanno denunciato la demolizione delle loro case, dopo che i funzionari locali avevano ricevuto il via libera per radere al suolo il villaggio e trasferire gli abitanti in città nuove di zecca, o magari in una delle tante smart city che stanno nascendo in Cina.
Smart City
Le telecamere riprendono ogni movimento: macchine, pedoni, incroci. Gli algoritmi masticano i dati e rilasciano un piano per gestire al meglio il traffico. Accade ad Hangzhou, città che Marco Polo definì come la più bella al mondo e che oggi raccoglie 10 milioni di abitanti.
Da qualche anno nella metropoli meridionale cinese è in uso un sistema di smart city: si chiama City Brain ed è stato creato da Alibaba. Secondo l’amministrazione locale l’algoritmo dell’azienda di Jack Ma avrebbe già contribuito a ridurre gli ingorghi del 15%. I suoi creatori hanno specificato che City Brain «può prevedere dove si verificheranno gli ingorghi e prevenire gli incidenti stradali istituendo il controllo preventivo del traffico».
In pieno Covid è stata annunciata la nascita di un’altra smart city creata da Tencent, la rivale di Alibaba. Si chiamerà Net City, 2 milioni di metri quadrati all’interno di Shenzhen con uffici e residenze per i dipendenti dell’azienda, parchi e un’area sul lungomare. Meno auto, energia pulita e intelligenza artificiale a controllare il traffico, i consumi energetici e naturalmente la popolazione. Dietro la patina di città ecologiche e sicure, infatti, in ogni smart city si nasconde un progetto di controllo dei suoi abitanti, garantito dai Big Data, ovvero l’unione di tutti i dati che possono essere estratti da una persona e da un ambiente. Telecamere con riconoscimento facciale, smartphone e app, impronte vocali: tutto concorre a sviluppare una forma di sicurezza “preventiva” fiore all’occhiello di un’ondata di progetti con l’imprimatur del partito comunista cinese.
Il cuore del funzionamento di queste città è una sorta di segreto che governo e aziende impegnate nei progetti custodiscono gelosamente. Ma gli imprevisti sono dietro l’angolo: nel maggio del 2019 a causa di un errore nel meccanismo di sicurezza è stato reso pubblico un database dei sistemi di monitoraggio di due quartieri di Pechino.
Si è così scoperto che attraverso le telecamere a riconoscimento facciale il sistema era in grado di tracciare tutti gli spostamenti (e i tempi di percorrenza da un luogo all’altro) nonché l’etnia e l’età delle persone. Analizzando il database si è poi scoperta l’esistenza di “alert” ad hoc per la polizia, ovvero segnalazioni del volto di una persona che in qualche modo ha avuto a che fare con la polizia nel corso della sua vita e come tale diventa “sospetta” (o etichettata come “tossicodipendente” o “appena uscita dal carcere”).
Il database - pur occupandosi soltanto di due quartieri - ha mostrato tutta la potenzialità di raccolta dei dati che sarà possibile effettuare all’interno delle “città intelligenti”. Il risultato sarà quello di avere città iper tecnologiche e (si spera) ecologiche, dove la vita delle persone sarà controllata 24 ore su 24, proprio come accade alle mucche degli allevatori hi-tech.