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Politica
dicembre, 2020

Zingaretti, Di Maio e Renzi: il terzetto dello ZDR si lancia nella scalata alla piramide

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Mentre Conte immagina strutture proto-egizie per gestire il Recovery fund, i leader di Pd, M5S e IV lavorano per un nuovo equibrio. Per controllare il premier o per sostituirlo: sul piatto ci sono la cybersicurezza, i nuovi vertici Rai, le amministrative. E la partita più grande: la conquista del Quirinale

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La prima finestra utile potrebbe essere già a gennaio: in tempo per i primi passi del Recovery fund e appena dopo la sessione di bilancio, mese classico per il deflagrare delle crisi di governo, come sanno bene Romano Prodi, il cui ultimo esecutivo saltò a gambe all’aria giusto il 24 gennaio 2008 con un voto sul filo di lana al Senato (156 a 161, un astenuto) o più di recente Enrico Letta che fu mandato a casa a febbraio 2014 col voto di una Direzione del Pd (il 13 febbraio, lui si dimise il 22), in nome del «cambiamento radicale» perché «l’Italia non può vivere nell’incertezza, nei tentennamenti, nell’instabilità». Insomma con parole che anche oggi potrebbero suonarci familiari, peraltro dette da un personaggio politico tutt’ora in prima linea, e determinato a restarci: Matteo Renzi.

Anche se l’ultimo urlaccio lanciato dal Quirinale con le dovute formalità ha prodotto un nuovo abbassamento di toni, il tema è e resta sul tavolo da pranzo della politica: un rimpasto in qualche modo s’avrà da fare. Alla faccia della pandemia, e dell’insuperabile dato che a chi è fuori dai Palazzi (coloro che i politici definiscono, non per caso, «le persone normali») importa meno di zero di questo tipo di manovre - uno zero rotondo, in questa fase più che mai - vi è infatti da segnalare un attivismo che ha precisi protagonisti, e un punto di caduta, una scadenza tanto ineludibile quanto anch’essa piuttosto tecnica: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, che avverrà tra poco più di un anno, a fine gennaio 2022 (blindando il Parlamento per i sei mesi precedenti nel semestre bianco, quindi di fatto da agosto).

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Stante l’attuale fase di stagnazione nei Palazzi, è quello l’appuntamento più importante prima della fine naturale della legislatura, tale da determinare gli equilibri sia per il prima che per il dopo, per un incarico che durerà fino al 2029, come ha sottolineato Renzi in una intervista sottointendendo così di non puntare a un bis dell’attuale presidente. È così a maggior ragione adesso, lo è stato anche senza pandemia: basti pensare che è stata, nel 2015, l’elezione di Mattarella a fare da prologo alla fine del governo Renzi (si infranse il patto del Nazareno), e che nel 2013 la rielezione di Napolitano fu l’epilogo del Pd allora guidato da Pierluigi Bersani, un partito che da quel momento non è più tornato ciò che era.

È dunque quello il boccino che i leader della varie “case” del castello di Hogwarts della politica italiana devono agguantare, di qui a un anno. Una partita che domina già le mosse di tutti (basti vedere il diavolo a quattro che sta montando Silvio Berlusconi con Fi), ma che al livello avanzato e di governo è un palleggio a tre: Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio, Matteo Renzi. Tre soggetti - l’acronimo è Zdr - che assieme formano una specie di quartier generale al lavoro per il prossimo equilibrio, il prossimo governo. Con davanti tre round importanti: quello per la creazione dell’Istituto italiano di cybersicurezza che si svolge in questi giorni (questione incrostata dai tempi in cui Renzi stava a Palazzo Chigi) e che è naturaliter allargato ai posti rimasti da assegnare all’Aise e all’Aisi dopo la riconferma del capo del Dis Giuseppe Vecchione, amico di vecchia data del premier e della sua fidanzata Olivia Paladino; quello relativo ai nuovi vertici Rai, che scadono a metà 2021 (a viale Mazzini non si parla d’altro); quello che riguarda le elezioni amministrative di primavera – questione che aveva cominciato a muoversi a ridosso della seconda ondata, ma che adesso è ovviamente congelata.
Tutte partite che attirano un nuovo equilibrio, un nuovo governo. Per affiancare l’attuale premier in un Conte-ter, o per direttamente sostituirlo: questo è ancora da stabilire, ma la mano è già in corso. Lo si vede splendidamente dai nervosismi di cui sono inzeppate le cronache politiche. Si va dai soprannomi: “Bella addormentata” coniata per il premier da parte dem – per ironia viene dal partito di Zingaretti, detto anche “sor Tentenna”; “Cip e Ciop”, nome che Conte ha affibbiato a Renzi e Di Maio, una volta in cui gli smontavano taluni assalti alla cabina di regia. Fino alle architetture: i tavoli, le verifiche, le strutture parallele, le paludi. Un nervosismo che si alimenta dell’ambivalenza con la quale Zingaretti articola il suo «vorrei, non vorrei» rispetto all’entrare lui in prima persona al governo (è Goffredo Bettini che lo spinge più di tutti, anche questo contribuisce a rendere indecifrabile la posizione). Trionfa, infine, in quell’apoteosi di bizantinismo che è la trattativa attorno alla governance del Recovery Fund, alla struttura che dovrà gestire i fondi, alle norme che potrà adottare: in soldoni si tratta del solito braccio di ferro tra Conte, che si ammanta di tecnici per riservarsi la facoltà di decidere, e i partiti di governo, che invece vogliono avere il bandolo delle decisioni; un braccio di ferro che, nell’attesa del vincitore, si articola tra architetture protoegizie della cosiddetta «piramide», ipotesi di triumvirati modello Steering committee della commissione Von der Leyen, spericolati riferimenti al Ciae, Comitato per gli affari europei dal quale passerebbe la selezione dei progetti, effetto Colao-bis da task force di sei manager a comandare ciascuno cinquanta tecnici, per un agile totale di trecento persone. E ci fermiamo qui perché addentrarsi sull’interdipendenza tra esperti di Palazzo Chigi e ministri e ministeriali, richiede un surplus di xamamina.

Più divertente osservare come si trovino a interagire i tre dello Zdr, visto che si tratta di un terzetto che si è teneramente odiato sino a poco tempo fa. L’accoppiata Luigi Di Maio-Matteo Renzi, anzitutto: due che nella scorsa legislatura fecero fino a un certo punto i nemici giurati, quando il Rottamatore era premier e il ministro degli Esteri era il leader dell’opposizione a Cinque stelle. Accoppiata adesso perfetta, visto che ora Di Maio può in qualche modo rendere il favore: fu appunto Renzi a legittimare l’allora vicepresidente della Camera, tra tanti grillini, aprendo proprio con lui il dialogo sulla legge elettorale; e adesso, per converso, lo sguardo benevolo di Di Maio rinforza Renzi, lo rende più pesante rispetto al quell’1,3 per cento che di suo come Italia Viva avrebbe. Tanto è vero, sussurrano a Palazzo, che tra i posti di governo cui potrebbe aspirare il leader di Iv c’è anche quello del Mise, essendo Stefano Patuanelli in questa fase non tra i favoriti del ministro degli Esteri.
Notevole anche l’accoppiata Zingaretti-Renzi: l’anno scorso l’ex premier ha fatto una scissione giusto dal Pd zingarettiano, scommettendo su una breve durata del Conte-due, ipotesi realistica ma poi bloccata dalla pandemia; e il segretario del Pd ha fatto un governo controvoglia, anche per scongiurare quella scissione, e forse contando sulla stessa breve durata. Già dieci anni fa i due non si amavano: il fiorentino sparava contro la mancata candidatura di Zingaretti al Campidoglio, accusandolo di viltà, e l’allora presidente della Provincia di Roma lo definiva così: «Crede di essere il nuovo, ma riesce a produrre solo il rumore metallico del nulla». Bene: con quel nulla tutt’ora è costretto ad avere a che fare. Quanto all’accoppiata Zingaretti-Di Maio, basti dire che nemmeno l’aver svolto insieme la trattativa per far nascere il Conte due è bastata ad aprire la strada a una sintonia.

Ma tali sono le strade della politica. Del resto lo si capisce se si guarda ai singoli percorsi. Di Maio continua il proprio cammino lungo la strada anti-Conte, ormai consolidata, con il paradosso che adesso, proprio lui così grillino, si presenta come il leader di uno sfarinato partito del Palazzo: al punto non solo da scrivere al Foglio la sua letterina coi dieci punti, ma da farsi persino fare i complimenti da uno che tutto sa e ha conosciuto come l’azzurro Renato Brunetta. E del resto Di Maio studia da sempre per questo. Per fare un esempi: sia le lettere ai giornali, sia il numero dei punti sono una costante del pensiero dimaiano: dieci erano quelli per la legge elettorale con Renzi, dieci quelli per fare il governo giallo-rosa, una decina sono le lettere che scrive all’anno ai giornali – mai finora al Foglio, però, pare di ricordare. Un anno fa, il giovane Giggino voleva pure agguantarla, la poltrona da vicepremier, ma Grillo gli si mise in mezzo: adesso invece che il comico è lontano, anche per i guai familiari, e che pure Casaleggio è messo fuori combattimento dal combinato disposto delle liti con Rousseau e dei conflitti di interesse sulla Philip Morris, la strada di Di Maio verso scranni ancora più importanti di quelli odierni appare, se non spianata, facilitata. Stesso dicasi per Renzi: dopo che in primavera il Covid-19 gli scombinò i piani, sta faticosamente ricostruendo la tela in modo da far dimenticare i pur disastrosi risultati elettorali e, di buona lena, abbaia su ogni dossier. E Zingaretti, che proprio nell’immobilismo da pandemia aveva un suo equilibrio, si trova adesso risospinto avanti dalla necessità di non restare indietro: non c’è solo il pressing di Bettini, c’è anche la voglia di Andrea Orlando di entrare a sua volta nell’esecutivo, e di conseguenza una maggior spinta verso Zingaretti da parte del ministro Dario Franceschini, che come si sa punta da un pezzo dritto al Quirinale.

Nel mezzo di tante mosse del ZdR, di cui non poche anche a vuoto, c’è da notare che Conte non se la passa poi tanto bene. Non tanto sul piano politico, dove peraltro ormai si muove secondo uno stile consolidato. Due notizie non strettamente politiche sono arrivate in questi giorni ad agitare la sua pacatezza. La prima riguarda la fidanzata, Olivia Paladino, e quel video girato dalle Iene il 26 ottobre, ma poi non andato in onda su Mediaset (e per fortuna: sarebbe stato sconveniente, visto che Berlusconi provava ad avvicinarsi alla maggioranza di governo) bensì su Dagospia: un video in cui si vede l’intervento della scorta del premier (confermato dalla ministra Luciana Lamorgese nel question time alla Camera), con grave scandalo generale come ai tempi del grillismo rampante, ma senza ormai i Cinque stelle a fare da sponda. Seconda notizia (audio su Dagospia), quella poi smentita da Palazzo Chigi che riguardava una cena del premier il 31 ottobre al ristorante Achilli, sempre con la fidanzata, alla faccia delle norme anti-pandemia: non è tanto la notizia in sé, piuttosto striminzita, quanto il fatto che sia circolata, a risultare un singolare indizio di vulnerabilità.

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