Terreni in comune, niente carne, inquinamento zero. Negli anni Ottanta erano in 50 ad abitare novantacinque ettari sulle colline di Orvieto, oggi sono rimasti in 19. Ma sono convinti di poter aumentare di nuovo

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Quando scrivi a Gina su WhatsApp, di solito risponde il giorno dopo. «Cerco di non utilizzare troppo il cellulare», spiega. Preferisce parlare di persona. Prendere un caffè, rigorosamente macchiato, e chiacchierare. Gina ha 19 anni. Sta per finire il liceo artistico, ha la media del sette e mezzo. Non sa ancora che cosa farà dopo la maturità. «Forse viaggerò per un po’. Ci sono così tante cose da vedere nel mondo». Ha una sola certezza: prima o poi tornerà a Utopiaggia, la sua casa.

Gina è uno dei 19 abitanti dell’ecovillaggio nato nel 1982 nelle colline tra Orvieto e Perugia: una comunità “alternativa” che ricorda le comuni degli anni Settanta. Chi vive qui ha deciso di condividere beni, terreni e abitudini. Per Robert Gilman, autore del libro “Eco-villages and Sustainable Communities”, gli ecovillaggi sono insediamenti umani che non producono danni all’ambiente e che si basano sullo sviluppo spirituale del singolo. Uno dei primi nacque nel 1971: “The Farm”, in Tennessee. Lo stesso anno nacque Christiana, a Copenaghen. Esistono ancora oggi, Gina non li conosce. Però vorrebbe.

Gina, la figlia del fondatore di Utopiaggia

Tra i fondatori di Utopiaggia c’è anche suo padre, Eugen. Nato a Francoforte, è arrivato in Italia quarant’anni fa per creare una realtà “anarchica e umanistica”. Racconta Eugen: «Quando abbiamo cominciato eravamo in cinquanta: 30 adulti e 20 bambini. Abbiamo messo insieme i nostri risparmi e abbiamo comprato 95 ettari di terreni, qui in Umbria. Oggi chi sarebbe disposto a mettere sul tavolo tutto quello che ha per costruire qualcosa da zero?». Mentre parla, Eugen sorseggia un bicchiere di vino bianco, seduto al tavolo in legno della sua cucina. «Prima questa era una stalla per mucche». A Utopiaggia, dopo aver vissuto 10 anni con un’altra compagna, ha conosciuto Susanne, originaria di Dortmund. Hanno avuto due figlie: Gina e sua sorella, Lola. Sono nate in casa, la stessa in cui abitano oggi. «C’è un ostetrica che ha fatto nascere tutto il villaggio», sorride Gina.

In tutto il terreno ci sono tre raggruppamenti di case: Piaggia, che dà il nome al villaggio, Poggio e Costarella. Sono distanti una manciata di chilometri l’uno dall’altro, in mezzo ci sono boschi, colli e distese sconfinate. Si vive insieme. La maggior parte della comunità parla tedesco, ormai gli italiani sono soltanto due. Gina scrive e legge perfettamente in entrambe le lingue. Per andare a scuola si è sempre dovuta spostare in macchina, dagli sterrati ai guardrail delle autostrade. Prima erano i genitori ad accompagnarla avanti e indietro. Ora ha la patente ed è diventata autonoma. Ogni mattina prende la sua Micra verde, guida per 20 chilometri, arriva a Tavernelle, parcheggia e sale su un autobus diretto a Perugia. Quando torna a casa, dopo le lezioni, pranza con i genitori.

«Cerchiamo di non mangiare quasi mai carne, preferiamo il formaggio e le verdure», dice Eugen dopo aver servito riso e pollo al curry, un’eccezione dovuta alla “serata indiana” organizzata il giorno prima. L’importante è andare a fare la spesa il meno possibile. Quel che si può si fa in casa, come il pane. Poi lo si distribuisce a chiunque lo desideri. A volte si cena tutti insieme. «Quando ero più piccola capitava molto spesso. Per me queste persone sono la mia famiglia. Praticamente sono cresciuta con 10 nonne», racconta Gina. Saluta amorevolmente ogni persona che incontra, entra in ogni abitazione quasi senza bussare, accenna solo un «hallo».

A Utopiaggia il terreno è della comunità, non del singolo. Tutto viene considerato di tutti. I legami si fanno più fitti, la proprietà diventa un concetto labile. «Questa casa è nostra soltanto perché ci stiamo da un po’. Ma nulla vieta a qualcun altro di poterci venire», spiega Eugen. Ogni membro dell’ecovillaggio versa una quota mensile per le spese: ristrutturazioni, manutenzione dell’orto, delle stalle. Ciò che viene dato torna sotto forma di stipendio: ognuno ha un compito. Eugen è un boscaiolo: «Guadagno sette euro l’ora». Susanne cura la coltivazione delle verdure. Gina e sua sorella non hanno nessun impiego stabile. A volte, come la maggior parte dei ragazzi, racimolano qualche spicciolo aiutando gli altri abitanti.

Ma lavorare per il villaggio non basta. Eugen e Susanne svolgono anche altri lavoretti per riuscire a mantenere le loro figlie. La vita che conducono è rustica, ma ci sono comunque obblighi e spese a cui adempiere: comprare zaini, libri, vestiti. A Utopiaggia non si vive più come quarant’anni fa e nemmeno come nelle comuni degli anni Settanta. La società si è evoluta, è diventata più pervasiva. E anche le esperienze comunitarie che tentano di allontanarsi dal modello di vita imposto dal capitalismo sono meno estreme. Forse proprio per questo sopravvivono ancora.

In Italia esistono trenta ecovillaggi. Ognuno diverso dall’altro. In Piemonte c’è Damanhur; i suoi 600 abitanti credono nella meditazione, nell’energia rinnovabile e in una spiritualità fondata sul rispetto della natura. Nelle Marche c’è la Città della Luce, dove vengono professate diverse tecniche di guarigione omeopatiche: la più famosa è il Reiki, una filosofia ispirata al buddismo giapponese. Sul portale in cui vengono raggruppate le diverse esperienze comunitarie, la Rete dei villaggi ecologici (Rive), è spiegato che nonostante le differenze, queste realtà sono tutte ispirate a una sostenibilità economica, socioculturale ed ecologica. L’obiettivo a cui ambire è l’autosufficienza.

A Utopiaggia l’acqua viene presa dal pozzo, l’elettricità arriva grazie ai pannelli solari. «Se ecovillaggio significa essere autosufficienti o ecosostenibili al 100 per cento, allora noi non siamo un ecovillaggio. Ma le categorie non ci interessano, siamo solo persone che hanno deciso di condividere una visione del mondo che rispetti l’ambiente e l’altro», chiarisce Susanne. Mentre lei parla, Eugen prende dallo scaffale il formaggio prodotto a Utopioggia. Lo posa sul tavolo, lo taglia con un coltello affilato e ne mangia un pezzo. Sorride. «Le definizioni non servono, contano i principi», continua Susanne.
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Gina annuisce. Quando le chiedi quali siano questi valori, risponde genericamente: «L’amore per la natura, la considerazione dei diritti altrui». Se si trascorre del tempo con lei, però, si capisce quanto questa vaghezza si trasformi in gesti quotidiani che rivelano un’attenzione particolare verso la realtà che la circonda. Fuma, ma sa benissimo che le fa male e che prima o poi dovrà smettere. Usa Instagram e lo smartphone, ma non troppo perché ha paura di diventarne dipendente. Più volte ripete: «Meno male che mamma e papà mi hanno vietato Facebook».

Ha molti amici e un fidanzato che considera l’amore della sua vita. Esce spesso, ma non per locali. Si tiene lontana dai suoi compagni di classe perché «hanno troppi pregiudizi». Non le interessa sembrare diversa. Sa, soprattutto, di essere stata fortunata a nascere a Utopiaggia. «Non avrei potuto crescere in un posto migliore. Ringrazio i miei genitori per avermi permesso di vivere qui, un luogo in cui si respira, in cui si ha la possibilità di riflettere». Qualche anno fa è stata a Londra: «Correvo, ma non sapevo il perché. Non avevo impegni, ma ero costantemente in affanno. Mi mancava l’aria».

Sono questa consapevolezza e questa apertura mentale ciò che la comunità le ha trasmesso. Sono questa consapevolezza e questa apertura mentale ciò che porterà con sé quando, tra poco, se ne andrà. «Ho idee diverse dai miei genitori. Non scappo, mi allontano per un periodo», ammette Gina guardando i terreni dove da piccola, insieme a sua sorella, raccoglieva le olive. Il suo obiettivo è tornare per rifondare una comunità che secondo lei sta scomparendo. «Siamo sempre di meno e chiudendoci in noi stessi non stiamo migliorando la situazione».

Gina e Lola si stanno battendo affinché Utopiaggia si apra a possibili nuovi abitanti. «Dobbiamo raccontare cosa facciamo, come viviamo. Io avevo proposto di fare una pagina social come altri ecovillaggi, ma molti non sono d’accordo». Gina vorrebbe far vedere a chi vive in città, a chi è stressato per i ritmi imposti, che esiste una visione del mondo diversa a cui affidarsi: una visione che non comporta per forza un isolamento dai doveri e dalle possibilità offerte dalla società di oggi.

«Non siamo eremiti e non dobbiamo esserlo». A differenza di molti altri membri, Gina non è così restia ad ammettere che è fondamentale interessarsi della realtà, del paese di cui si fa parte. Anche se si vive «un po’ più appartati», come dice lei. «Ho deciso di richiedere la cittadinanza italiana. Voglio votare alle prossime politiche», racconta.

Quando il 25 settembre Matteo Salvini è andato a Tavernelle per la sua campagna elettorale in Umbria, Gina ha organizzato un presidio. «Doveva farlo un mio amico. Però, alla fine si è tirato indietro. Nessun altro sembrava voler prendere in mano la situazione. A questo punto mi sono proposta io». Si è impuntata e ha convinto alcuni abitanti del villaggio a partecipare. C’era persino il padre, cittadino tedesco, che negli anni Ottanta aveva fondato Utopiaggia per trovare la pace. A distanza di alcuni mesi, Eugen lo ricorda col sorriso mentre sparecchia la tavola: «Urlavamo “Tavernelle non si lega”. Ed eravamo in 15».

Nel suo essere testarda e intraprendente, Gina assomiglia a suo padre. Tuttavia, nonostante queste somiglianze caratteriali, è diversa dai suoi familiari. Proprio perché è nata in un’epoca in cui è sempre più difficile ignorare la realtà che sta al di là dei 95 ettari di terreni sparsi tra Orvieto e Perugia. C’è internet, ci sono i social network e lei ha dovuto imparare a farci i conti.
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Secondo Susanne basta fare del bene nel proprio microcosmo per mettere a tacere la coscienza. Secondo Gina bisogna guardare oltre. Sul braccio a 16 anni si è tatuata una pianta con delle radici: «L’ho fatto per ricordare a me stessa la natura, i boschi e le colline dove sono nata. Ho scelto un posto ben visibile perché mi piace guardare questo disegno, voglio vederlo tutti i giorni. Se potessi, questi luoghi me li porterei dietro». Una promessa: tornare e riportare a Utopiaggia i figli che in questi quarant’anni, talvolta anche a malincuore, sono andati via.