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Giulia e Sveva sono chiuse nello stesso limbo dove si trovano milioni di ragazzi in tutto il mondo. Un limbo che rischia di durare a lungo, e che proietta domande dall’oggi al futuro. Nell’incertezza del fra-poco, una sola presenza sembra inscalfibile: lo schermo. Che sia del computer, del tablet o del telefonino, è l’unico affaccio personale per bambini e adolescenti fuori dai confini domestici. Capire come utilizzare in modo intelligente gli strumenti tecnologici diventa allora fondamentale per i ragazzi, ma soprattutto per i piccoli. Perché non tutte le interfacce sono uguali. E soprattutto, non a tutte le età. Nelle ore vuote della noia da quarantena la tentazione di anticipare l’accesso al telefono può essere infatti forte. Ma è una buona idea? E la scuola, può aiutare a cambiare il rapporto con gli schermi?
Per la prima volta in Italia, uno studio risponde con dati statistici a una delle principali domande delle famiglie a riguardo: a che età è giusto dare un cellulare? Regalarlo presto rischia di avere un impatto sullo sviluppo dei ragazzi? A dare risposte è un rapporto dell’università di Milano-Bicocca che l’Espresso può anticipare in esclusiva. Intitolato “L’età dello smartphone”, è stato realizzato da Marco Gui, Tiziano Gerosa, Alessandra Vitullo e Lucilla Losi per il centro di ricerca “Benessere Digitale” dell’università. Lo studio è fondato su un campione di 3.300 studenti delle superiori che hanno partecipato a un’indagine che si è svolta nelle provincie di Milano e Monza-Brianza durante il 2018. Il 98,8 per cento dei ragazzi possedeva uno smartphone, e ha risposto così a un questionario che gli studiosi hanno potuto mettere in relazione con i risultati ai test Invalsi, la provenienza sociale e altri indicatori, come la soddisfazione rispetto alla propria vita. La sintesi è che sì: scegliere di dare un telefono ai figli prima degli 11 anni può avere un impatto (negativo) sulle persone che saranno a 16, e in potenza sugli adulti che si preparano a diventare domani.
La prima risposta presentata dallo studio è una conferma, solo apparentemente paradossale: nelle famiglie con meno risorse socio-culturali lo smartphone entra prima. Viene dato anche ai bambini. È il digital divide al contrario. La maggior parte degli studenti intervistati nella ricerca aveva ricevuto il cellulare fra gli 11 e i 12 anni. Molti (il 20,6 per cento), avevano dovuto aspettare il tredicesimo compleanno per ricevere un iPhone o simili in regalo. Ma ben il 21 per cento degli adolescenti aveva in tasca il proprio cellulare prima degli 11 anni. E tanti (l’8,9 per cento) già dalla terza elementare. «Si nota che al crescere del livello di istruzione dei genitori, l’arrivo dello smartphone viene ritardato», scrivono gli autori. La percentuale di bambini che hanno il telefonino da prima dei 9 anni è più alta nelle famiglie dove i genitori si sono dovuti fermare alle scuole medie, mentre si abbassa fra i figli di laureati. È una tendenza che riguarda più le figlie femmine rispetto ai maschi, ma è costante. Diverse ricerche avevano già mostrato come alcune tecnologie costose - le consolle per i videogiochi ad esempio, o gli abbonamenti per le tv a pagamento - siano più presenti nelle famiglie con meno risorse socio-culturali. I dati della Bicocca dimostrano che avviene anche per l’età del primo smartphone. Lo spettro del monopolio precoce da parte di un cellulare, nell’attenzione, torna guardando al tipo di scuola frequentata dai ragazzi: gli studenti che sono iscritti a indirizzi professionali hanno ricevuto il telefonino prima rispetto agli alunni dei licei. Anche qui: la maggior parte degli studenti, a prescindere dal background o dal percorso scelto, ha il telefono fra gli 11 e i 12 anni. Ma l’11 per cento dei diplomandi al professionale lo usa da quando ha meno di nove anni, contro il 7 di chi fa lo scientifico.
Questa disuguaglianza rovesciata ha un peso. Le conseguenze di una convivenza anticipata col cellulare si sentono. Sia in termini di dipendenza - il conto delle troppe ore trascorse allo schermo, appena svegli o di notte, durante la cena o nei momenti di svago. Ma soprattutto in termini di crescita culturale. Dalla ricerca emerge infatti «in maniera ripetuta un’associazione negativa tra l’età precoce di arrivo del primo smartphone personale» e lo sviluppo di competenze in italiano, oltre che di capacità creative nell’utilizzo stesso degli strumenti digitali. Per quanto possa sorprendere, avere in mano un cellulare troppo presto riduce le abilità digitali, anziché potenziarle; blocca la possibilità di imparare a usare in modo utile e creativo, le tecnologie. Come sintetizza Marco Gui, le evidenze suggeriscono «un uso di internet maggiormente passivo da parte di coloro che vi accedono esclusivamente tramite lo smartphone», mostrando quindi «una tendenza da parte di coloro che ricevono precocemente il cellulare a fossilizzarsi su questo tipo di usi meno attivi».
«A prima vista si potrebbe pensare che l’arrivo precoce dello smartphone renda più familiari gli studenti con il mondo digitale», spiegano i ricercatori. Ma avviene l’esatto contrario. «In più, considerando che questi risultati emergono al netto del retroterra familiare, non è possibile interpretarli come mera conseguenza del minore capitale culturale delle famiglie che concedono prima lo strumento», continuano: «È probabile che dietro questo risultato ci sia una commistione fra l’influenza di una serie di variabili come la minore competenza digitale dei genitori e l’effettiva precocità dell’accesso». «Possiamo ipotizzare», aggiungono, «che l’arrivo precoce dello smartphone concentri l’attenzione degli studenti su poche funzioni facilmente praticabili con il device, distogliendoli da attività più complesse che si svolgono più facilmente con i computer. In effetti dalle nostre analisi risulta che al diminuire dell’età di arrivo dello smartphone diminuisce anche la probabilità che in casa dello studente ci sia anche un pc in quinta elementare. Alla luce di queste evidenze, i risultati potrebbero essere letti, almeno in parte, come effetto di una maggiore attenzione allo smartphone da parte di chi lo riceve precocemente e delle loro famiglie, a discapito dell’uso di dispositivi - come il pc - su cui è possibile sviluppare maggiori competenze».
Gli schermi non sono infatti tutti uguali. E su questo, la scuola può e deve essere una forza positiva. Soprattutto adesso. Perché se l’isolamento da coronavirus è un rischio - all’esposizione eccessiva e annoiata sul telefonino - l’impegno scolastico online può diventare, ben gestito, una possibilità. «In questo periodo di emergenza, si registra una familiarizzazione anticipata e intensificata, da parte di bambini e adolescenti, con gli strumenti della didattica a distanza, in particolare con i computer e i tablet», riflettono Marco Gui e gli autori: «Questo inciderà sicuramente, forse rendendo meno centrale e assolutizzante la presenza dello smartphone e favorendo lo sviluppo di maggiori abilità digitali. Potremmo sfruttare questo drammatico periodo per cercare di rendere più vario e complesso il rapporto dei minori con le tecnologie, superando il monopolio che il cellulare ha talvolta stabilito nelle vite dei più giovani negli ultimi anni. Ci auguriamo che i risultati presentati portino un contributo a questo tipo di evoluzione». Perché questo avvenga, i 75 milioni di euro investiti ora dal ministero dell’Istruzione per dare più tablet agli studenti, «dovrebbero essere accompagnati da un vademecum obbligatorio sull’uso dei dispositivi», conclude Gui: «Per non ripetere gli errori del passato, e pensare che la tecnologia da sola possa bastare».
Molti docenti stanno provando a muoversi per costruire un’alleanza efficace con i ragazzi. «Abbiamo offerto un corso d’approfondimento gratuito per la formazione a distanza», racconta Gianni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola: «Si sono iscritti oltre 30 mila insegnanti». Una ricerca di Cisl scuola, ricorda Vinciguerra, ha mostrato come dagli istituti ci sia stata una risposta ampia allo spostamento online dei corsi, ma affidata soprattutto ai singoli presidi o agli insegnanti più attivi. «Con l’ultimo decreto, che chiarisce l’obbligo a fornire didattica a distanza, è stato tolto ogni dubbio», continua. Adesso è un dovere di tutti. Ma molto dipende ancora dal come verranno continuate le lezioni online. «Spesso mancano gli strumenti di base. Insieme a Save The Children abbiamo organizzato “La scuola aiuta la scuola”, un’iniziativa per creare gemellaggi e mettere esempi e strumenti a disposizione degli istituti più svantaggiati», conclude Vinciguerra.
Che le lezioni via schermo rischino di essere solo un parcheggio, e non uno strumento per diventare più capaci, come dicevano Giulia e Sveva, lo confermano d’altronde le risposte dell’osservatorio “Scuola a Distanza” di Skuola.net, aggiornate ogni settimana su un bacino di 25 mila studenti fra medie e superiori. Per il 36 per cento degli alunni le interrogazioni a distanza sono poco utili, dice il sondaggio; per il 21 del tutto inefficaci, perché «è troppo facile copiare». Fra i problemi principali segnalati dagli studenti ci sono soprattutto la connessione, il disordine sugli orari e sui modi con cui i professori entrano in contatto con loro, un carico eccessivo di compiti, e la paura emergente che le valutazioni non siano più realistiche. E deludano così, o rendano frustrante l’impegno, per chi studia. Ma il giudizio è «tutto sommato buono», nel complesso, o ottimo, per la maggioranza degli alunni, per quanto «le lezioni in classe rimangano un’altra cosa».
Questa nostalgia concreta per la presenza, e l’attenzione nelle valutazioni, va ora ascoltata nella preparazione necessaria del rientro. Come ricordava Paolo Vineis sull’Espresso settimana scorsa, le pandemie rendono necessarie politiche concrete di previsione. Non può più bastare la risposta impulsiva o emergenziale. Bisogna guardare subito a settembre. E bisogna farlo pensando alla classe che manca ai ragazzi, al ruolo delle tecnologie, alle strutture, e ai genitori, perché «se le scuole sono chiuse l’infermiera che lavora in ospedale che fa? Lascia il bambino di 6 anni a casa da solo a fare il corso di storia?», come ha scritto in un bel intervento su Facebook il graphic designer Riccardo Falcinelli. Che continuava ricordando come la scuola non sia solo liceo: «Ci sono gli istituti tecnici, le scuole d’arte, l’alberghiero, gli ex Isef. Per molti studenti didattica digitale significa non fare niente, rimanere indietro. Insomma prepararsi al peggio significa farsi venire idee, e inventarsi regole acconce. A detta degli scienziati il virus non scompare in due mesi, ed è impensabile chiudere le scuole per 12 mesi. È quindi un preciso dovere politico inventarsi un futuro il più sicuro possibile, equo, giusto, onesto. E soprattutto pratico e praticabile». Tra gli scenari possibili, concludeva, la scuola solo digitale «è il peggiore e, tra l’altro, facilmente evitabile».
Veronica vive in provincia di Pordenone. Ha appena terminato due ore di videolezione di italiano. I compagni di classe le mancano, per una doppia ragione: quest’anno farà la maturità, e non potrà rivederli sui banchi. «È triste sì. È difficile da vivere. Anche se con il mio ragazzo e gli amici ci sentiamo e scriviamo più spesso di quanto facessimo prima, mi manca il contatto. Essere lì, in classe, insieme agli altri. Però dobbiamo accettarlo, e affrontare la situazione, non è che ci sia scelta». Fra la mattina su Zoom ad ascoltare i prof, e la preparazione del colloquio di maturità, si sta prendendo il tempo per leggersi tutto Murakami, il suo autore preferito. «Mi sono tolta da alcuni gruppi WhatsApp dove giravano solo notizie infondate sugli esami, mi mettevano ansia», dice. Meglio ascoltare Ed Sheeran e pensare al domani. «L’ho già detto a tutti gli amici: appena posso vi invito a casa».