
Maggio 2021. Il festival di Cannes è alle porte. La pandemia ormai è un brutto ricordo, o forse un’emergenza cronica con cui abbiamo imparato a convivere. Nel mondo del cinema l’attesa è alle stelle perché il Festival, investito in pieno dall’emergenza virus, nel 2020 è stato sospeso, cosa mai successa se non nel 1939, per la guerra, e nel maggio ’68. Il Palais des Festivals, usato come rifugio per i senzatetto nei mesi più drammatici dell’epidemia, è stato rimesso a nuovo. I media di tutto il mondo si preparano a invadere la Croisette.
C’è solo un problema. Non ci sono i film. Quelli girati prima dell’epidemia sono vecchi, parlano di un mondo scomparso, o nel frattempo si sono visti altrove. Gli altri non sono mai stati fatti. Il virus ha bloccato i set per mesi e adesso quasi nessuno è pronto per Cannes. Dunque pazienza. Tutti a casa davanti alle piattaforme streaming, che intanto si sono moltiplicate offrendo anche nuovi spazi al cinema d’autore. Oppure tutti al drive in, imbozzolati nell’auto, massimo due alla volta, per vedere un film dietro il parabrezza, pulito da lavavetri efficientissimi che con la crisi sono spuntati come funghi.
Scherziamo, ma non troppo. Basta guardarsi intorno per capire che questo scenario semi-apocalittico non è del tutto inverosimile. Le produzioni sono davvero ferme, per esigenze sanitarie e perché le assicurazioni non coprono più i rischi da contagio durante le riprese di un film. Gli autori sono in crisi, soprattutto quelli degni di questo nome, perché una catastrofe come quella che stiamo vivendo obbliga a ridefinire tutto, forme, estetica, rapporto con il pubblico.
Al rilancio dei drive in invece lavorano in molti, da festival come Pesaro e Bologna, a società private. Mentre Cannes, se non scivolerà verso fine anno sconvolgendo il calendario internazionale dei festival, probabilmente dovrà davvero saltare il turno. Anche se il delegato generale Thierry Frémaux, dopo aver già spostato più volte le date, punta a un’acrobatica intesa con la Mostra di Venezia di cui al momento non si conosce la forma.
Va un po’ meglio per il festival italiano, diretto per l’ultimo anno da Alberto Barbera sotto la nuova presidenza di Roberto Cicutto. Il tempo dovrebbe giocare in suo favore, ma chissà. Secondo le previsioni i cinema potrebbero riaprire in autunno, dunque Venezia (2-12 settembre) sarebbe il luogo ideale per ripartire. Questa almeno l’ipotesi su cui scommette la Mostra, che pur prevedibilmente travolta da una massa di film senza precedenti, dovrà fare salti mortali per contenere i flussi degli spettatori e garantire la distanza di sicurezza durante le proiezioni. Il che significherà rinunciare a una bella fetta di pubblico e forse anche di titoli. Magari mandando in streaming alcune sezioni parallele per dare visibilità ai titoli selezionati e limitare i danni.
Ma anche qui: che senso ha fare un grande festival, luogo di condivisione fisica e di passioni, se poi parte del programma diventa virtuale? Magari lo streaming si rivelerà decisivo per interviste e conferenze stampa, perché pochi autori e attori vorranno affrontare il viaggio, e dunque via con incontri e conversazioni “in remoto”. Ma i film, il brusio della sala, gli applausi, come si fa?
Mettere i film su una piattaforma aperta solo a pochi eletti può essere, anzi sarà la soluzione per festival come L’immagine ritrovata (fine giugno): il direttore della Cineteca di Bologna, Gianluca Farinelli, che ogni anno propone circa 500 titoli riscoperti dagli archivi di mezzo mondo a migliaia di appassionati, già pensa a un regime misto. Nostalgici drive in per gli spettatori locali; codici segreti per gli accreditati internazionali che vorranno seguire il festival in patria, magari con proiezioni ospitate da istituzioni gemelle come potrebbero essere - solo un esempio - la Cinémathèque di Parigi o il Lincoln Center a New York. Ma rispettando date e orari del programma, perché un rito è un rito, un festival non è Netflix né Amazon Prime.
Di cordate al lavoro su progetti di questo tipo ce ne sono diverse. Una guidata in tandem da Circuito Cinema e dalla Lucky Red, una dalle sale lombarde del circuito Anteo (un milione e 600mila spettatori nel 2019 grazie a un lavoro capillare di accompagnamento dei film fatto da eventi, incontri, masterclass), più un’altra italo-francese. Una sana concorrenza che però si concentra su due o tre punti condivisi. Allargamento dell’offerta, tempi più lunghi (niente film-meteora che spariscono in pochi giorni), lavoro in parallelo sulle novità e sul catalogo da riportare a nuova vita. Il tutto per far sì che lo streaming non escluda la visione in sala ma la integri.
Oltre ai mesi di chiusura forzata, economicamente micidiali specie per indipendenti e sale di qualità, i cinema rischiano infatti di essere cancellati dal lungo confinamento. Quanti torneranno alla sala buia dopo mesi di divano e telecomando? Qualunque appassionato sa che i film nascono per essere visti al cinema, come l’opera per essere cantata a teatro. Il resto è solo un surrogato, pallido e traditore. Ma proprio qui sta il pericolo: che la disponibilità virtualmente illimitata dei titoli finisca per rendere il gusto della sala, centrale non solo nella fruizione ma nella concezione stessa di ogni vero film, appannaggio di una ristretta cerchia. E che i bei cinema di una volta diventino prima o poi come i monumenti in rovina che emergono maestosi nella giungla di uno dei titoli fin d’ora più promettenti della prossima stagione, ovunque essa avrà luogo: “The Walking Liberty”, il nuovo cartoon di Alessandro Rak, il regista-rivelazione di “L’arte della felicità” e “La gatta Cenerentola”, prodotto ancora una volta dalla Mad di Luciano Stella e Carolina Terzi.
Una distopia ambientata in un imprecisato futuro che vede un gigante buono e una ragazzina aggirarsi in un mondo ostile e imbarbarito, un po’ “Mad Max”, un po’ “Pianeta delle scimmie”, scontrandosi con i rappresentanti di una misteriosa Istituzione che cercano di imporre l’ordine con la forza guidati da tre ossessioni. Costruire fortini, disinfettare sempre tutto. E indossare la mascherina. Sembra incredibile che il film sia in lavorazione già da più di un anno. Eppure è così.