«Hic sunt leones»: sulle carte antiche era così che si definiva la fine del mondo conosciutoe oltre il confine c’era l’Africa inesplorata e pericolosa con i suoi leoni.
Quel confine è lo stesso che immaginano i legislatori quando pensano alla rete: un luogo di cui avere paura. Dovrebbero dire invece: hic sunt homines, perché tutte le decisioni che si prendono su questa tecnologia riguardano l’uomo e le sue libertà.
E la pandemia in corso è un banco di prova incredibile.
Lo stesso fenomeno della disinformazione intorno al coronavirus è osservato attraverso una lente deformata.
Se parliamo di infodemia, cioè della circolazione fuori controllo di dati e notizie, l’enorme flusso di informazioni sull’emergenza coronavirus porta con sé inevitabilmente la diffusione della disinformazia.
Contro le fake news il sottosegretario all’Editoria Andrea Martella ha annunciato la formazione a Palazzo Chigi di una task force,con l’obiettivo di contrastarne la diffusione sulle piattaforme online in diretto contatto con chi le gestisce.
L’istituzione del gruppo di lavoro ha generato due tipi di contestazione. C’è chi contesta l’idea che la disinformazione riguardi unicamente la rete. E chi pensa che l’istituzione di un soggetto governativo e non indipendente per certificare ciò che è vero e ciò che falso, inneschi questioni politiche di non poco peso. Gli attacchi di Meloni e Salvini sono un plastico esempio.
Gli esperti del gruppo di lavoro hanno chiarito che «l’obiettivo non è in nessun modo quello di esercitare censure o limitare la libertà di espressione o il diritto dei cittadini di informarsi. E quindi non è nostra intenzione assegnare patenti di veridicità alle notizie».
Le conclusioni di una recente ricerca del Reuters Institute for the Study of Journalismall’Università di Oxford su tipi, fonti e slogan della disinformazione attorno al coronavirus vanno nella stessa direzione. I ricercatori hanno analizzato un campione di 225 informazioni in lingua inglese errate, giudicate false o fuorvianti dai fact-checker e pubblicate in inglese tra gennaio e la fine di marzo 2020, raccolte da First Draft News.
In questo studio la maggior parte (59%) delle fakenews considerate è una riconfigurazione di informazioni esistenti. Solo il 38% è stato completamente costruito.
La disinformazione comprende quasi sempre "falsi a basso costo”prodotti attraverso strumenti molto più semplici. In ogni caso le notizie rielaborate per ingannare rappresentano l'87%delle interazioni con i social media nel campione, mentre le la disinformazione completamente fabbricata il 12%.
Sarebbe quindi più corretto parlare di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica, piuttosto che di fake news.
Altri dati della ricerca confermerebbero questa idea. La disinformazione dall'alto verso il basso da parte di politici, celebrità e altre figure pubbliche di spicco sono solo il 20% sul totale del campione della ricerca, ma qualitativamente hanno un impatto enorme perché rappresentano il 69% dell'engagement totale dei social media.
Lo stesso contenuto delle fake news analizzate sembra avere a che fare soprattutto con la propaganda: nello studio, il 39% dei casi riguarda l’azione dei governi e delle autorità e il 24% la diffusione del virus nelle comunità.
Le conclusioni dello studio ci riportano alle dichiarazioni del gruppo di lavoro italiano nominato da Martella. La diversità della disinformazione del coronavirus dimostra che non c’è un'unica soluzione: «La diffusione di informazioni errate su Covid-19 richiederà uno sforzo sostenuto e coordinato da parte di fact-checkers, media indipendenti, le piattaforme digitali e le autorità pubbliche per aiutare il pubblico a capire e orientarsi nella pandemia».
Che fare, dunque?
La disinformazia va affrontata attraverso il coinvolgimento delle piattaforme e soprattutto la responsabilizzazione degli utenti.
“User first”, o ancora meglio “people” first, dovremmo dire.
L’empowerment del cittadino online, però, è perseguibile solo attraverso la garanzia di un accesso libero e sostenibile alle informazioni e alle infrastrutture della società digitale.
Viceversa, il rischio è favorire forme di controllo potenzialmente autoritarie, come sul suolo europeo sta già avvenendo. Ogni riferimento a quello che avviene in Russia e in Ungheria non è per nulla casuale.
Ma se vogliamo difendere i principi della democrazia liberale, bisogna percorrere un altro sentiero: quello della consapevolezza del cittadino utente e della fiducia nella capacità dell’uomo di distinguere da sé cosa è vero e cosa è falso.
Abbiamo bisogno di avere gli strumenti per comprendere le informazioni, non di uno Stato paternalista che certifica la “verità”.
La consapevolezza, allora, significa far crescere nei cittadini una nuova capacità critica e una nuova responsabilità digitale, al tempo della rete in cui ciascuno di noi è consumatore e produttore di informazioni.
L’ecosistema mediatico, poi, deve essere indipendente e garantire il pluralismo: in questo senso l’applicazione troppo rigida di normative, come ad esempio la direttiva europea sul diritto d’autore, rischia da un lato di limitare il libero accesso alle notizie di qualità, e dall’altro di favorire, paradossalmente, proprio la cattiva informazione.
Serve infine che la rete sia alla portata di tutti.
Vanno rimossi gli ostacoli che impediscono alla persona di partecipare appieno alla società digitale.
Quando parliamo di Internet stiamo parlando innanzitutto di nuovi diritti. L’uomo è teleologico non sussidiario ai processi politici, economici e sociali che l’innovazione genera.
Non possiamo correre il rischio di far diventare la rete un moltiplicatore della disuguaglianza sociale, invece che il primo fattore della sua rimozione.
*consulente di strategie digitale e autore del saggio “Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social media”, Marsilio, 2017