Nell’era del Covid la vita dei tossicomani è un inferno al quadrato

L’emergenza sanitaria e i controlli sugli spostamenti hanno cambiato il mercato. Rendendolo più pericoloso. Tra punti di assistenza chiusi, “roba” tagliata male, crisi di astinenza e overdose

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«Non sono un corpo maledetto, non certo martire senza difetto, ma scrivo per l’amore e per l’odio che porto dentro». Le pareti della “camera” sono ricoperte di poesie in rima, ricordano dei testi rap, leggendoli si immagina un ritmo che le accompagni. Nei 20 metri quadri di quella che è l’unica stanza del consumo in Italia si respira un’aria strana, altalena tra un senso di prigione e libertà. 

Siamo al drop in PuntoFermo di Collegno, a ovest di Torino. Qui dal 2007 i tossicomani trovano un rifugio per bucarsi in sicurezza, in uno spazio pulito, autogestito insieme agli operatori, pronti a intervenire in caso di overdose. Sia la polizia sia la cittadinanza hanno imparato a convivere con questa realtà. La struttura era la camera mortuaria dell’ex manicomio di Collegno, smantellato negli anni ’90. Anche con l’emergenza, è rimasta aperta 24 ore al giorno. 

«Una volta nella stanza ho salvato un ragazzo dall’overdose: per lavoro ho seguito un corso di pronto soccorso. Da dieci anni ho a che fare con l’eroina e da dieci anni vengo qui», racconta Toni 45 anni. L’ultimo lavoro che ha avuto risale a due anni fa, guardia giurata. Con forte accento pugliese, ma nato in Piemonte, si sente «meridionale al 100 per cento». Ha iniziato a 19 anni con Lsd, «è stata la mia rovina», ha smesso da solo dopo tre anni ed è passato al bere, «una bottiglia di scotch mi durava un giorno e mezzo, ora sono pulito dal 2003», poi l’ecstasy, ora l’eroina «riesco a controllarla, mi faccio al massimo quattro volte a settimana». 
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«Le risorse sono quelle che sono. Alla finestra distribuiamo materiale sterile», racconta Volfango Maria Coppola, di PuntoFermo. Da 15 persone al giorno però si è scesi a cinque. «A chi segue una terapia medica il SerD fornisce l’autocertificazione per venire qui, ma sappiamo che molti li abbiamo persi».  

Il caso di Torino ha permesso a chi è dipendente da stupefacenti di non impazzire durante la quarantena, ma nel resto d’Italia il mercato della droga ha dovuto cercare canali più nascosti, lontano dalle strade e dalle piazze. Sono spuntate pagine su Instagram per la vendita, ma è stato il dark web la fonte principale; i pusher poi, muniti di guanti e mascherine, hanno iniziato a fare delivery a casa o si sono trovati nelle stazioni della metro. «La consegna a domicilio la fanno solo dai 50 euro in su, sennò non vedi niente, e la mia spesa è triplicata», dice Sofia, 22 anni, della provincia di Roma, riferendosi alla cannabis: «Il mercato delle droghe pesanti ha risposto subito, meno quello del fumo: in giro sono rimasti pochi pusher, quelli meno affidabili». 

In Italia otto milioni di persone consumano droga, per una spesa di 15 miliardi di euro l’anno, metà dei quali finiscono in cocaina. E 800 mila hanno provato l’eroina almeno una volta. Ci sono voci contrastanti su quello che sta girando adesso, alcune dicono che le sostanze costano di più, soprattutto marijuana e hashish. Un aumento dovuto al maggiore rischio di spacciare con i controlli diffusi. Si dice che la qualità sia peggiorata. È possibile poi che la gente si improvvisi e usi tagli strani: la variazione del mercato è sempre pericolosa per chi consuma, i periodi più a rischio sono infatti le feste o l’estate, quando ci sono meno spacciatori. 

Solo in Piemonte è possibile fare il drug checking, il controllo della sostanza. Nella “casetta” avviene anche prima dell’utilizzo attraverso le reazioni colorimetriche: a maneggiare la droga è chi l’assume, indirizzato dall’operatore. Grazie a una tabella dettagliata con colori e sostanze, si stabilisce cosa c’è dentro e le combinazioni possibili. Si trova di tutto: vitamina C, paracetamolo, caffeina, ma anche agenti pericolosi come il Levamisolo, uno sverminatore veterinario che “tira su la coca stanca”: in pratica l’effetto della sostanza diventa più immediato e dà la percezione che sia di buona qualità, invece il Levamisolo è molto tossico e a chi se lo inietta compaiono enormi bubboni.

«Mi è capitato più volte di dover dire di non farsi tutta la dose in una volta o di dividerla in quattro per evitare il rischio overdose», spiega Coppola. Con la Fase 2 infatti si fa avanti anche questo rischio: dopo un periodo di astinenza o di basso dosaggio dovuto alla quarantena, non si può tornare ai livelli di prima come se nulla fosse: il corpo rischia di cedere. 

A Roma in dieci giorni si sono verificate sette casi di overdose. «Dal 1992 a oggi ho salvato quasi 600 persone, per questo facciamo molta campagna a riguardo», dice Giancarlo Rodoquino, 63 anni, che opera con l’unità mobile di Villa Maraini nella più grande piazza di spaccio a Roma: Tor Bella Monaca. «Qui si va avanti 24 ore su 24. Molti smontano dal lavoro e si vengano a farsi in pausa pranzo. Non sono tossicomani da strada, una casa ce l’hanno. Vediamo anche 70 persone al giorno, ma non sono mai le stesse». I primi giorni c’erano controlli a tappeto, sempre verso le tre del pomeriggio, ma i consumatori venivano prima. «Ci vuole una politica umanitaria sulle droghe», incalza Massimo Barra, direttore Villa Maraini. Le associazioni lamentano la mancanza di mascherine da distribuire e l’assenza di tamponi ai senza fissa dimora. 

Il camper distribuisce ogni giorno 300 siringhe solo a Tor Bella Monaca. La situazione non è facile da prima del coronavirus, c’è tutta una vita sommersa che comprende la droga, ma anche la mancanza di lavoro: «A Napoli hanno buttato giù le Vele per risolvere il problema, per loro è stata quella la soluzione», conclude Rodoquino. «Molti a Scampia prima della quarantena vivevano di espedienti, facevano i parcheggiatori, qualche lavoretto, ora c’è un peggioramento complessivo, che con la chiusura dei centri diurni può solo aggravarsi», spiega Stefano Vecchio responsabile degli 11 SerD di Napoli, con a carico 4.500 persone.

Alla città manca un piano per i senza fissa dimora, a fronte di un aumento di richieste per i servizi essenziali prima garantiti: «Abbiamo registrato un aumento dell’uso di alcool e sedativi legali come le benzodiazepine, che possono avere un effetto molto pericoloso se mischiate con l’eroina: neanche l’iniezione di Narcan basta in caso di overdose». Tra chi fa uso di droghe ci sono anche molti migranti, per strada a causa della soppressione delle strutture di accoglienza. Qui l’unità continua con il suo lavoro, conquistato non con poche difficoltà, in un quartiere dove la camorra è padrona e si sono dovuti fare accordi per farsi accettare.

Con la chiusura dei drop in (104 in Italia, concentrati al Nord), sono scomparsi alcuni servizi per i tossicomani, ma anche per i senza fissa dimora o immigrati: come la possibilità di farsi una doccia, ricevere un pasto a pranzo o avere un posto dove trascorrere la giornata. «Se prima si poteva vivere con lo “scollettamento” - piccole elemosine per raggiungere una somma per comprare la dose - o con piccoli lavoretti, tutto questo è scomparso», spiega Lorenzo Camoletto del drop in del gruppo Abele, il primo ad aprire a Torino nel 1997. «Noi raccogliamo i più problematici, perché chi non lo è non passa da qui. Sono i primi a non farcela, spesso vivono in strada e molti di loro, prima di essere tossicomani, hanno problemi con la legge o disturbi psichici», spiega Luigi Arcieri, del drop in di Torino, che a oggi mantiene i passaggi costanti a 70. 

Anche il CanGo, l’unità mobile, è bloccato perché non dispone di lavandino. Sostava tutti i giorni in una delle piazze principali della città, quella di porta Palazzo, che ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa. Distribuiva materiale sterile e un kit di sopravvivenza (siringhe, tamponi, disinfettanti, fiale d’acqua, lamine di alluminio per fumare) che comprende anche il Narcan (o naloxone), il medicinale da prendere in caso di overdose. Negli anni unità come questa hanno determinato il progressivo ridursi delle scene di consumo. 

Con l’emergenza i SerT sono stati dichiarati servizi essenziali e hanno continuato a lavorare garantendo la terapia a base di metadone e aumentando la copertura fino a un settimana, con il rischio però che il farmaco sia consumato tutto insieme o si venda al mercato grigio. Ma non in tutta Italia è così, molti centri sono chiusi e i servizi di riduzione del danno limitati, come denuncia ItaNPUD, un’associazione di consumatori di droghe. Al momento sono fermi i colloqui psicologici, le attività in gruppo delle comunità e molti SerD non accettano più nuove persone. 

Per questo chi non riesce a soddisfare la propria dipendenza ripiega su altre sostanze, soprattutto alcool e farmaci. «Ci sono tante persone scoperte, soprattutto al Sud che sono ricadute», spiega Anna, ex alcolisti e narcotici anonimi, che ora organizza gruppi di sostegno online: «Prima ci sentivamo una volta a settimana, ora anche tre al giorno». 

La ItaNPUD ha prodotto, tradotto e distribuito un vademecum per il consumo sicuro durante il coronavirus, con consigli su cosa fare in caso di astinenza e le norme igieniche da seguire, come disinfettare con l’alcol le “palline” trasportate in bocca dai pusher. «Ci sono consumatori che hanno uno stipendio e fanno una vita “normale”, una condizione protetta che gli permette di fare grandi scorte. Altri sono senza fissa dimora e rischiano una maggiore repressione da parte della polizia», racconta Alessio Guidotti, presidente della ItaNPUD.

La polizia ha ormai praticamente annullato i controlli sui senzatetto. Ma non sempre c’è stata comprensione. Al dormitorio di Rivoli, un paese vicino Torino, aperto dalle otto di sera fino alle otto del mattino, le forze dell’ordine ordinavano ai tossici di andare a casa: «Ma io non ce l’ho una casa», racconta un ragazzo, «devo spostarmi, prendere la terapia, pensare a come fare per il pranzo. Pretendevano che non mi allontanassi più di 200 metri». E si sono registrate anche alcune denunce per chi era in giro alla ricerca di droghe: «Anche problema di non trovare sostanze non è stato considerato, i servizi non hanno risposto in tempo, anzi hanno contratto i loro orari», spiega Maria Teresa Ninni, operatrice al drop di Torino. La polizia infatti non si è data un codice a livello nazionale: «I primi giorni temevamo ci fosse una strage, è stato traumatico per loro, come per noi operatori, evitare il contatto fisico o non poter più fermarsi a fare due chiacchiere, poi hanno recepito le norme da rispettare», aggiunge Arcieri. Almeno metà dei consumatori del drop in di Torino sono infatti sieropositivi e quindi immunodepressi.

In zona Milano Rogoredo i prezzi restano invariati: 20 euro la dose di eroina, 30 quelle di cocaina. Fino a settembre qui il via vai giornaliero era alto, sopra le 150 persone. Ma dopo lo smantellamento della rete dello spaccio c’è stato un drastico calo. Il giro però non si ferma: «Dopo il famoso boschetto è esploso in pochi mesi il parco delle Groane: prima della quarantena siamo arrivati ad avere 90 contatti al giorno», racconta Rita Gallizzi dell’associazione Lotta contro l’emarginazione. Ora i treni che li portavano lì sono stati sospesi e così cresce di nuovo Rogoredo, ma senza più un drop in di riferimento, chiuso anche per mancanza di fondi. «Notiamo un forte aumento dell’incuria, anche persone denutrite». E tra loro ci sono molte donne, le più esposte: «Sono in numero sempre maggiore, molto più massacrate nel fisico rispetto agli uomini, ma sono quelle che si fidano di meno e alcune si prostituiscono».

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