Pubblicità
Politica
maggio, 2020

Non c'è (Conte) due senza tre: Giuseppi, la serie continua

conte1-jpg
conte1-jpg

Lo sconosciuto che piombò a Palazzo Chigi il primo giugno 2018 dichiarando «non siamo marziani, ve ne accorgerete» è diventato più familiare di E.T.  Soprattutto con la pandemia, quando si è trasformato nell'oracolo tv delle 20 e 20. Immobilista sul fronte interno, irrilevante sul fronte internazionale, ora si prepara a resistere ancora

conte1-jpg
La tragica consapevolezza, arrivati a questo punto, è che probabilmente non c’è due senza tre: sappiamo che, passato esattamente un biennio, di Conte ce ne sarà presto un terzo. Almeno.Come in Boris, serie cult dove vi è una traccia anticipata di tutto, vi è il ruolo di un conte ante litteram, eterno pure lui e affidato a Corrado Guzzanti («quando mi hanno affidato questo ruolo, tre anni fa, mi dicevano è un personaggio che cambia, è cattivo ma diventa buono, si trasforma, è una sinfonia», si lamenta lui in una famosa scena), così nella realtà «Giuseppi». Al plurale, non a caso. La serie continua.

Dopo il governo «del cambiamento» (giugno 2018) e quello del «nuovo umanesimo» (settembre 2019), si veleggerà magari verso il «rinascimento ulteriore». E chissà con quali colori, dopo i verde-gialli e i giallo-rosa, chissà con quale perimetro, dopo quelli della zampata sovranista (con il leghista Salvini) e del trionfo dell’establishment (con il dem Franceschini). E chissà con quali sterminati orizzonti di moltiplicabilità, immobilismo e irrilevanza. Tratti fondanti del biennio appena trascorso. Siamo già sulla strada, del resto: i «Conte» sono più di uno; la stasi interna domina a botte di «si dovrebbe», e nel Conte due si è sin qui disattesa la promessa di cambiare i decreti sicurezza voluti dal leader leghista tanto quanto nel Conte uno si disattese la promessa di fermare la Tav voluta dai grillini. Fuori, nel mondo - scivolati in fondo alla classifica della rilevanza - ci guardano intanto come un essere mitologico: metà testa di ponte della Cina, metà alleati scemi di Trump, completamente scomparsi sul fronte della governance del Mediterraneo (Libia in testa).
[[ge:rep-locali:espresso:285345252]]
A tenere insieme tutto c’è Conte, come ormai da un tempo che sembra eterno. Uguale e diverso, le due cose intrecciate tra loro, inestricabilmente. Perché se - come fossimo nel racconto di Borges Tigri azzurre - è possibile che due maggioranze diverse diano sulla processabilità di Matteo Salvini l’identico risultato (cioè un no) come è accaduto nei giorni scorsi sul caso della Open arms e un anno fa su quello della nave Diciotti, è altrettanto possibile, anzi dimostrato, che due o più stagioni diano come risultato finale lo stesso premier: lui.

Titolare di una continuità che in prospettiva internazionale si può raccontare come perdita progressiva di autorevolezza internazionale - cui nessun Paolo Gentiloni commissario europeo e nessun Roberto Gualtieri ministro dell’Economia possono mettere freno, specie con un Luigi Di Maio ministro degli Esteri - e che dalla sua prospettiva soggettiva di bis-premier si può rappresentare come la foto con cui si aprono queste pagine: due governi in uno, ministri diversi che si alternano nelle stesse deleghe: prima Danilo Toninelli poi Paola De Micheli, prima Giulia Grillo e poi Roberto Speranza, e così via. Punto di legame: l’asserito marziano, ormai più familiare di E.T.

Profetica in questo senso si rivela la prima dichiarazione che fece Conte la sera prima di entrare nella sua nuova vita da premier. Era il 31 maggio 2018, il quasi «avvocato del popolo» uscendo da un ristorante al centro di Roma dichiarò: «Non siamo marziani, ve ne accorgerete». Ce ne siamo accorti, in effetti: Conte è ormai uno di casa, soprattutto in queste ultime dodici settimane in cui, a forza di dirette da Palazzo Chigi, non solo ha finalmente staccato il leader leghista Matteo Salvini nei sondaggi sulla fiducia degli italiani (il 3 marzo il premier era sotto di un un punto, ora è sopra di 13 , secondo le rilevazioni di Euromedia research), ma è anche diventato parte dell’arredamento del salotto o della cucina. Un soprammobile. Un ninnolo solo apparentemente innocuo e che, preferibilmente nei weekend, parla di «protocolli», «Dpcm», «stabilimenti balneari», «dispositivi di protezione individuale», «norme di rango primario» e «norme di rango secondario» (resta pur sempre un avvocato), «tamponi», «task force», «sussidi» (spesso i questo caso significativamente confondendo i milioni coi miliardi, o le migliaia coi milioni), monopattini, bici elettriche, «autodisciplina dei singoli».

Già, i singoli, gli individui: quella che si è rivelata la vera dimensione del Conte due, una istanza peraltro anche grillina e profondamente antipolitica, l’unico senso possibile che si possa dare alla altrimenti inspiegata filosofia del «nuovo umanesimo» strombazzato nei programmi di settembre. Umanesimo nel senso di uomo: uno, l’individuo. A tutti i livelli la gestione dell’emergenza - perché poi è questo il tratto fondante di un governo che ha passato metà del suo tempo sotto Covid - è stata infatti basata sui singoli: elogio, condanne o ammonimenti per il comportamento del cittadino (dai runner in poi), misure di sostegno economico immaginate per il singolo (i sussidi). Si sono pure ipotizzati controllori (singoli) per i singoli individui, ossia la guardia civica come da proposta del ministro Boccia, uno dei più vicini all’attuale mood. Nel complesso una specie di effetto da Ddr, dalle vacanze alle spie. Sessanta milioni di individui. Senso della collettività scarso (riaperte le palestre, non le scuole). Capacità di visione: nessuna. «Dobbiamo, occorrono introdurremo», sono le parole ricorrenti dell’ultimo intervento di Conte, pubblicato sul Corriere della Sera.

«Non bastano i like, serve visione». L’appello alla visione, lo stesso di oggi, è quello del Conte già un anno fa, nel momento più difficile del suo primo governo. Quando Salvini aveva appena sfondato alle Europee (34,3 per cento), e i grillini erano invece crollati al 17,1 per cento, ribaltando i rapporti di forze interni. In quei giorni il premier celebrò a Palazzo Chigi, nella Sala dei Galeoni (la stessa che aveva usato Matteo Renzi la notte della sconfitta al referendum, la stessa dell’ultima conferenza stampa di Enrico Letta ) la conferenza stampa del «non galleggio». «Non sono disposto a vivacchiare», aveva detto quel giorno, inaugurando di fatto il suo sé inaffondabile - quello che sarebbe sopravvissuto sin qui - e i due mesi estivi di effettivo vivacchiamento fino a quando, l’8 agosto, l’ancora inspiegato harakiri di Matteo Salvini aveva posto fine all’intero spettacolo.
È dunque con lo stesso spirito con cui a giugno 2019, a capo della maggioranza gialloverde, vivacchiava dicendo di non poter vivacchiare, che adesso, a capo della maggioranza giallorosa, Conte va dicendo «a ottobre cado», per esorcizzare l’ipotesi e non cadere, sostituirsi ancora a se stesso semmai.

Lui del resto è fuori sincrono, vive in anticipo forse anche su se stesso: lavorava a liberarsi dei vicepremier già mentre eseguiva il loro programma, e la sua «Fase due» per dirne un’altra si era aperta già un anno fa. Appena all’indomani del primo anno di governo coi leghisti quando, ai giardini del Quirinale, il ricevimento per la festa della Repubblica (si tiene lo stesso giorno in cui giurò il Conte uno, motivo per il quale il premier tende a confondere i due eventi) aveva restituito l’immagine di un leader leghista fortissimo - talmente forte che l’unica novità stava nella presenza della sua fidanzata Francesca Verdini e il confronto con quella di Di Maio , Virginia Saba , e al contrario di un premier-precario che girava con sottobraccio un libro del quale si notava soprattutto il cognome dell’autore: Tregua (Carlo Alberto).

Ecco la tregua poi in effetti c’è stata: ma con il Pd, piuttosto che con Salvini. A settembre, risolta la crisi di governo, Conte ha così finalmente potuto portare in Parlamento, per il voto di fiducia , la versione soporifera di sé: ottimista, ecologista, vagamente socialista, appassionata del Green new deal. Del resto anche tutti gli incendiari di prima erano diventati pompieri, sotto il nome comune dell’antisalvinismo. E Conte, di conseguenza, aveva virato verso la celebrazione della «lingua mite», di un «lessico rispettoso delle persone», della «tradizionale influenza italiana nei balcani», ma anche della «soppressione di enti inutili», dell’«etichettatura e tracciabilità degli alimenti», celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri.

Al giuramento, a significare l’inversione dei rapporti di forza rispetto al passato, l’«esecutore del contratto» che per quindici mesi aveva subito i diktat dei suoi due vicepremier, fece l’occhiolino a Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri: un segno da vincitore, simbolo del suo acquisito potere personale e di un rapporto di tutela che, da allora, non è più tornato come era in origine.

Finalmente a briglia sciolta, Conte si è presentato solo al comando in questi mesi mesi del virus, imperante il quasi immobilismo che è la cifra portante dell’attuale governo. Per il quale è stato necessario il Covid-19 per risolversi a una regolarizzazione temporanea e limitata dei braccianti agricoli, e al quale però non è bastato il virus a cancellare i decreti Salvini. Quelli ai quali all’inizio Leu aveva vincolato il suo appoggio al governo. E che persino il premier, durante il dibattito sulla fiducia in Parlamento, disse che vanno rivisti e modificati «anche alla luce delle osservazioni critiche formulate dal presidente della repubblica» . Bene è rimasto tutto lì, come firmato dal governo precedente, mentre per la Tav è tutto beatamente ripreso come deciso dal governo precedente. Complice una non invisibile indulgenza da parte del Pd di Nicola Zingaretti. Lo stesso Conte, del resto, accusato ai tempi del governo gialloverde dal dem Graziano Delrio di essere un «pupazzo dei partiti», ha finito per essere il punto di intersezine tra partiti ridotti a pupazzi: sempre più deboli, sfilacciati, estenuati. Un «pupazzo dei partiti» in mano a partiti pupazzi. In attesa del prossimo tempo di gioco.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità