In principio c’erano nove tazzine: «bianche e celesti, di ceramica inglese; e avevamo due teiere. Parallelo ad un’esile libreria, e incastrato tra il mio solido scrittoio e la porta della camera da letto, c’era un tavolino a rotelle a due ripiani: sopra, le nove tazzine, la zuccheriera e le teiere; sotto, le torte».
Gli Amici entravano in casa e, giusto il tempo di orientarsi, «si ritrovavano in mano la tazzina fumante e il vassoio con la torta», rigorosamente una al cioccolato e una alla crema.
È davvero stravagante che il più pugnace e il più prestigioso, il più rissoso e il più famoso dei premi letterari italiani, sia nato tra le atmosfere affettuose di una merenda domenicale: tra torte, appunto, «impastate all’alba perché dopo le sette il gas non riscaldava abbastanza il forno» e tazzine sottratte agli ospiti da mani invisibili, rilavate in tutta fretta, per essere di nuovo pronte all’uso.
Certo Maria Bellonci, ideatrice dello Strega insieme al beneventano Guido Alberti, proprietario dell’omonimo liquore giallo, rievoca il clima degli incontri organizzati nella sua casa di viale Liegi, a Roma, sin dall’11 luglio del 1944, in un libro di cinquant’anni fa: “Come un racconto gli anni del premio Strega”, primo titolo di una collana che il Club degli editori volle dedicare ai romanzi vincitori. Ma la verità è che, oltre la facciata, oltre le dichiarazioni cavalleresche («il vincitore non avrebbe sconfitto gli altri, ma dagli altri sarebbe stato accompagnato alla vittoria»), al di là dello schermirsi dalla frivolezza («ma quale mondanità? Coloro che non vengono a casa mia non sanno che qui si incontrano soltanto scrittori, artisti, gente di cultura. Quanto alla festa nella conca architettonica di Villa Giulia, sì, non lo nego: è una vera e propria festa dedicata agli scrittori e ai libri, e per i giovani c’è anche una pista da ballo e un’orchestra. Ma è una festa senza apparato, senza notai e funzionari, senza autorità in veste ufficiale»), non c’è mai stata un’edizione del Premio senza colpi di scena, priva di polemiche, immune da scelte dai lunghi strascichi.
Prima sorpresa di quest’anno: il ripescaggio del trentacinquenne Jonathan Bazzi da Rozzano, anzi da Rozzangeles, dal settimo posto alla rosa dei finalisti (con 137 voti alla prima votazione del 9 giugno), in virtù dell’applicazione dell’articolo 7 del Regolamento del Premio: in cinquina deve rientrare anche una casa editrice medio-piccola, e pazienza che la sesta classificata, Marta Barone (Bompiani) di voti ne avesse ottenuti 142. Presto un film, il libro di Bazzi, “Febbre” (Fandango), supportato dalla scrittrice Teresa Ciabatti («il protagonista, creatura in divenire, non cerca un’identità, o almeno non nelle categorie esistenti, ma ne inventa una sua personale in cui si ama su Internet», dice lei), è la ventata d’aria nuova dell’outsider: «Usatemi per studiare il cuore del nuovo millennio, quello che prima s’innamora e poi ti vede in faccia», scandisce lui.
Ma come, protesta qualcuno: l’anno scorso La nave di Teseo, casa editrice di Sandro Veronesi, era considerata piccola e quest’anno no? Esattamente, chiarisce il direttore della fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi: «Pesa il rilievo assunto dalla casa editrice nella narrativa italiana e straniera, e il percorso che i suoi libri hanno compiuto nel premio: tre cinquine in tre partecipazioni».
Einaudi, con due autori finalisti, ripropone la lotta fratricida dell’edizione scorsa, quando i suoi supporter si divisero tra Marco Missiroli e Nadia Terranova, lasciando che il vincitore – Antonio Scurati con il suo “M. Il figlio del secolo” (Bompiani) - procedesse indisturbato verso la vittoria. Lo scontro, oggi, è tra Gianrico Carofiglio e Valeria Parrella: uno, forte del gradimento dei lettori - 260 mila le copie già vendute del romanzo “La misura del tempo” con il popolarissimo avvocato Guido Guerrieri per protagonista, dentro un tempo che addensa compassione e nostalgia - è sostenuto da Einaudi Stile libero; l’altra, con “Almarina”, storia di un potente incontro tra donne di generazioni diverse all’interno del carcere di Nisida, pubblicata nell’elegante collana dei Supercoralli, è scrittrice dalla voce di inconfondibile intensità. Una guerra tra editor, uffici stampa, scrittori, Amici della Domenica e persino testimonial: Carofiglio, ex magistrato, è sostenuto dal costituzionalista Sabino Cassese («Dietro l’apparenza del giallo si celano insegnamenti profondi: la pluralità dei punti di vista, l’invito a dubitare della verità stessa»), Parrella ha dalla sua il direttore del Salone del libro di Torino, Nicola Lagioia. Che non ha dubbi: «Almarina segna una tappa importante nella letteratura italiana di questi anni».
Inevitabile, e decisamente fondata, la polemica su una sola presenza femminile in sestina: nonostante la vittoria nel 2018 di Helena Janeczeck con “La ragazza con la Leica” (Guanda), lo Strega non è un Premio per donne: in 73 edizioni lo hanno vinto solo undici scrittrici.
«L’essere l’unica donna in cinquina non dice la verità sulla letteratura italiana, ricchissima di voci di signore, ma anche sulla libreria: a leggere di più, dicono le statistiche, sono proprio le donne», nota la stessa Valeria Parrella nel corso di un video incontro con i sei finalisti dello Strega negli studi della nostra redazione. «E però racconta qualcosa di questo nostro tempo, nel quale la legge sull’aborto è ancora subdolamente sotto attacco, in cui piangiamo Sarah Hegazi, un’attivista egiziana che si è appena suicidata, e le donne si ritrovano a fare i conti con un lockdown che, anche a causa delle scuole chiuse, ha penalizzato principalmente loro: siamo una società maschilista e patriarcale».
Un tratto inconfondibile del Premio, del resto, è quello di raccontare il nostro presente: la società italiana con le sue contraddizioni, le sue debolezze, la sua psicologia persino, e tutte quelle fragilità che oggi la crisi sanitaria ha contribuito a far deflagrare. Un racconto mascherato dal romanzo storico, come è accaduto negli anni scorsi; o che privilegia il taglio autobiografico, intimista e riflessivo come nei sei libri approdati in finale quest’anno.
«Il futuro è donna, e il cambio di paradigma è necessario, auspico un matriarcato controllato», interviene Sandro Veronesi alludendo a Miraijin, il giovane personaggio femminile che compare alla fine del suo romanzo, “Il colibrì”, a marcare l’ingresso in un’era nuova, di libertà, di fratellanza, di accoglienza, e di navi benedette: al contrario di quell’uccellino, refrattario al cambiamento, che agita insistentemente le ali, tutto sommato solo per riuscire a rimanere immobile. Emblema di un conservatorismo fuori tempo massimo. Chiunque, tra Carofiglio e Parrella, catalizzerà i voti degli einaudiani dovrà vedersela con lui, capolista della sestina con 210 voti. E deciso, con dodici edizioni per 120 mila copie già vendute del romanzo, a ripetere - col sostegno dell’Accademia degli Scrausi - la vittoria finale, dopo quella del 2006 con “Caos calmo”. Un bis che appartiene sinora solo a Paolo Volponi, vincitore del primo Strega nel 1965 con “La macchina mondiale” e del secondo nel 1991 con “La strada per Roma”.
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Gioca un match tutto suo Gian Arturo Ferrari, ex numero uno del gruppo Mondadori, e per anni vero stratega, dietro le quinte, dei destini del Premio. Il suo “Ragazzo italiano”, storia individuale che diventa cronaca dell’Italia del dopoguerra, e che Ernesto Ferrero ha definito “autobiografia di una nazione”, è pubblicato da Feltrinelli (per l’occasione rientrata nella competizione), è stato presentato da Margaret Mazzantini e può contare sui voti degli Amici personali dell’autore, tra i 660 votanti della giuria (400 sono gli Amici della domenica, 200 i voti espressi da studiosi, traduttori e intellettuali selezionati da 20 Istituti italiani di cultura all’estero, 40 i lettori forti scelti da 20 librerie indipendenti, e 20 i voti collettivi espressi da scuole, università e gruppi di lettura).
«Subito dopo l’uscita, il mio libro è diventato d’attualità», sottolinea Ferrari: «Come allora siamo in un dopoguerra, dovremo affrontare oggi una vera e propria ricostruzione».
I più giovani, i ragazzi tra i sedici e i diciotto anni da cinquantotto scuole secondarie superiori di undici regioni italiane e tre città estere (Berlino, Bruxelles, Parigi), hanno già decretato il loro vincitore: è il poeta Daniele Mencarelli con il romanzo “Tutto chiede salvezza” (Mondadori), che ha vinto il Premio Strega Giovani 2020, riconoscimento che l’autore ha dedicato «a chi vive in questo momento sulla propria pelle un trattamento sanitario obbligatorio». La cura esistenziale, secondo un libro che scandaglia con verità il buio della malattia mentale? «La parola. E la scommessa che siano gli altri la nostra salvezza: dalle paure, dalle ansie, dalla follia».
In un premio paradossalmente più denso di partecipanti che mai, a dispetto di misure sanitarie che impongono, al contrario, assoluta rarefazione, solo ottanta saranno gli ammessi alla serata di proclamazione del vincitore, il prossimo 2 luglio, contro i 1200 che tradizionalmente affollano il Ninfeo del Museo nazionale etrusco di Villa Giulia. Con prevedibili tensioni, nervosismi da countdown, conteggi parziali, trame, retroscena. E, c’è da scommettere, caffè a non finire. Tra tazzine come quelle descritte da Maria Bellonci. Ed evocate - per quelle sottili, invisibili ma tenaci simmetrie di cui solo la letteratura è capace - anche dalla scrittrice polacca Olga Tokarczuk. Che, richiamando una fiaba del danese Hans Christian Andersen, ha costruito il suo discorso per il Nobel alla Letteratura, nell’ottobre del 2019, proprio intorno a tazzine e teiere.