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giugno, 2020

Io ballo da sola, l'estate italiana senza discoteche

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Eventi live annullati, locali in larga parte chiusi o trasformati in ristoranti. Decine di migliaia di addetti senza lavoro. L’industria dell’intrattenimento si interroga. Tra esigenze di sicurezza e voglia di divertimento

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«Siamo stati i primi a chiudere, saremo gli ultimi a riaprire».  Lo ripetono come un mantra gli addetti del mondo della notte, un’industria che d’estate produce - produceva prima del coronavirus - eventi a pieno ritmo tra festival e deejay set sulle spiagge, ai piedi dei ghiacciai, tra le cascate, a picco sul mare. Si pensa a David Guetta e Calvin Harris, ai deejay celebri e strapagati, al Billionaire di Flavio Briatore, ma dietro di loro si muove un esercito di camerieri, tour manager, addetti alla sicurezza, barman, promoter, ballerini, tecnici del suono.

Un comparto di 2.500 aziende, un fatturato di quattro miliardi di euro pari a 800 milioni di gettito fiscale, circa 50 mila dipendenti da moltiplicare per otto se si contano i collaboratori. Senza considerare i circa 20 mila deejay, famosi e non, che ogni settimana fanno ballare centinaia di migliaia di persone da Torino a Palermo. Da quando le notti italiane sono diventate silenziose in migliaia hanno dovuto reinventarsi un lavoro, magari come rider per chi ci è riuscito, tra i professionisti della consolle in molti hanno venduto dischi e attrezzature.

Se con il decreto Rilancio, infatti, bar e ristoranti hanno riaperto - e dal 15 giugno anche cinema, teatri e sale da concerto - le discoteche restano chiuse. Del resto, pensare al distanziamento sulla pista da ballo è come mettere insieme il diavolo e l’acquasanta. Quindi, oltre ai grandi concerti, rinviati all’estate 2021, restano spente anche le luci sui dancefloor. «Prima o poi la vita riprenderà. E allora la gente si renderà conto che un terzo dei locali ha chiuso o forse di più, perché non stiamo ricevendo alcun aiuto», dice Maurizio Pasca, imprenditore salentino del settore e presidente di Silb Fipe, l’associazione italiana delle imprese di intrattenimento. Nelle scorse settimane, insieme ad altre organizzazioni, Pasca ha scritto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e ai ministri competenti, denunciando «il silenzio più totale sceso sulle nostre attività. Non ne ha mai parlato il suo governo, né il comitato di esperti da lei nominato, né le Regioni, ma nemmeno i giornali e le tv».

Finora non hanno avuto risposta. Nel paventare il rischio che i giovani d’estate possano ritrovarsi per ballare in posti improvvisati senza rispettare le norme anti-contagio, il Silb invita a ragionare sull’apertura di discoteche all’aperto, almeno per una parte della stagione. «Non sembra così illogico considerato anche che, come previsto, riapriranno pure gli stabilimenti balneari, che presentano molte caratteristiche simili», aggiunge Pasca. Mercoledì 10 giugno il Silb scenderà in piazza a Roma per protestare, nel frattempo ha preparato un dettagliato protocollo di sicurezza per dipendenti e clienti. Tra le misure, si impegnano a garantire la distanza tra le persone con addetti alla pista, sistemi di contingentamento degli ingressi, controllo della temperatura corporea, somministrazione di alimenti e bevande con materiale monouso, e così via.

Se non cambia nulla, a fine 2020 il danno potrebbe superare quota 600 milioni secondo le stime del settore. La pressione dei gestori di locali e degli operatori turistici sulle istituzioni è forte, tanto che il governatore della Regione Sicilia, Nello Musumeci, ha firmato un’ordinanza per riaprire le discoteche dall’8 giugno mentre quello del Veneto, Luca Zaia, ha annunciato che farà la stessa cosa a metà giugno. Lazio e Puglia stanno valutando. Mentre a Misano, sulla Riviera Romagnola, quattro discoteche hanno siglato un’intesa per riconvertirsi in ristoranti, in attesa che si possa tornare a ballare. Gli organizzatori non vogliono riaprire a ogni costo, ma chiedono aiuto per non affogare. Ma il punto è anche un altro: i lavoratori dell’intrattenimento non sono equiparati a quelli dello spettacolo, dunque restano esclusi dal fondo emergenza spettacolo, cinema e audiovisivo, che ammonta a 245 milioni di euro. Sono fuori anche dal Fus, il Fondo unico per lo spettacolo, e anche dall’indennità di 600 euro per i lavoratori dello spettacolo.

Intervista
Addio Claudio Coccoluto: «Diamo dignità culturale al mestiere di deejay»
5/6/2020

«Oggi la figura del deejay è invisibile, dimenticata dalle istituzioni e dagli organismi che si occupano di diritto d’autore. E subisce una discriminazione inaccettabile: musica dal vivo e musica elettronica fanno parte dello stesso mondo, la cultura, ogni distinzione è ingiustificata e anacronistica», dice Deborah De Angelis, avvocato esperto di diritto d’autore e presidente di A-dj, una delle associazioni (insieme a AssoDeejay e Adi) che tutela i professionisti della consolle. Insieme a diversi organizzatori e promotori, De Angelis partecipa ad alcuni tavoli di lavoro tecnico-giuridici, metteranno nero su bianco una petizione e un manifesto. «Pensiamo che sia arrivato il momento di rivedere la normativa per far rientrare di pieno diritto queste figure professionali nel mondo della cultura», sottolinea l’avvocato.

Dietro agli aspetti legali, tuttavia, si nasconde un altro tema. Mai era successo che i luoghi della danza restassero sbarrati così a lungo: un problema che non riguarda solo i teenager, visto che la categoria dei clubber comprende anche gli over 40.«È un fatto epocale, che sancisce la morte del club come lo abbiamo conosciuto», sentenzia Pierfrancesco Pacoda, scrittore e giornalista esperto di musica elettronica e culture giovanili: «Il club è il posto in cui le persone si incontrano, hanno le stesse passioni musicali in cui si identificano, in questo senso è stato l’ultimo baluardo delle sottoculture giovanili. E poi è il luogo della fisicità, dove i corpi si abbracciano, si toccano, si sfregano, sudano. L’antitesi della vita durante la pandemia».

Nei club si è fatto strada Claudio Coccoluto, tra i deejay italiani più conosciuti nel mondo, socio della discoteca Goa, a Roma. Ha trascorso in casa gli ultimi mesi Coccoluto, insieme al figlio Gianmaria, anche lui professionista della consolle, alla figlia Gaia, appassionata della trap di Los Angeles, e alla moglie Paola, che preferisce le melodie di Burt Bacharach. «Da metà febbraio non metto un disco in pubblico, è il periodo di astinenza più lungo della mia vita», sospira, ma per lui non tutti i mali vengono per nuocere: «Per troppi anni siamo andati di corsa, con il lockdown io e tanti altri siamo stati costretti a una riflessione forzata: cosa significa fare il dj in un’epoca in cui la parola aggregazione di colpo è diventata nefasta? Adesso la sfida è dare dignità culturale al nostro mestiere, far breccia sulle istituzioni come a Berlino, dove i deejay in questo frangente sono stati aiutati alla stregua dei musicisti. O come negli Stati Uniti, dove la fondazione Frankie Knuckles svolge un importante ruolo culturale e Detroit è stata dichiarata dalla municipalità capitale mondiale della techno».

All’inizio della quarantena Coccoluto ha realizzato qualche dj set virtuale, poi si è messo a fare altro per non inflazionare la propria immagine, ha consumato dischi e libri («Ho riletto per l’ennesima volta “Come funziona la musica” di David Byrne, mio personale mentore»). «I dj set in streaming assomigliano più alla radio che alla discoteca, dove la serata perfetta è quella in cui “i dischi ti saltano in mano” e si crea un rapporto alchemico con il pubblico», aggiunge.

Da Berlino a Miami, in verità, molti disc jockey hanno reagito al lungo silenzio con performance digitali più o meno riuscite, come le Lockdown session di Louie Vega e Gilles Peterson su World Wide Fm, la celebre radio digitale londinese. Mentre su YouTube il video dello spettacolo domestico della giovanissima Nelly Cook, cioè Fat Girl Slim, con un piccolo aiuto di papà Fatboy Slim, ha registrato quasi 600 mila visualizzazioni. E per compensare l’astinenza da party la tecnologia si è data da fare: Spotify ha introdotto una nuova funzione, Group Session, che consente a due o più utenti di condividere lo stesso ambiente virtuale, ascoltare e ballare la stessa musica.

E ancora, uno dei locali più frequentati, il Red Zone di Perugia, si è inventato una web radio dentro il club ricostruito in 3D, dove Maurizio Clemente ha intervistato alcuni dj internazionali. Negli Stati Uniti, invece, sono nati club virtuali su Zoom dove si ritrovano i clubber: alcuni giovani promoter hanno creato Club Q, party popolare nella comunità Lgbtq, dieci dollari a testa per “entrare” oppure 80 per un privé digitale in compagnia di dj e ballerine di burlesque.«Fin dai tempi di Contintental Baths, negli anni Settanta a New York, chi frequenta i club vuole far parte di una comunità, rivendicare la propria identità di genere, superare i confini etnici. Hanno fatto più le discoteche di tanti discorsi politici», riflette Pacoda.

Il modello economico degli “Zoom club”, però, non è sostenibile. «In Italia non funzionerebbero, nessuno sarebbe disposto a pagare. E poi gli eventi in streaming dei dj sono stati un boomerang: mette tristezza vedere uno che mette quattro pezzi in una stanza sorseggiando una birra», taglia corto Riccardo Lai, nome importante della scena milanese, organizzatore di serate di musica elettronica al Fabrique, titolare della discoteca Amnesia e di Social Music City, dove d’estate ballano ogni notte fino a 12 mila persone.

Con la pandemia, Lai ha concesso gratis a Comune, Emergency e Protezione civile la tensostruttura del Lorenzini District in Porta Romana. «Per mantenere il contatto con il pubblico la strada è un’altra: continuare a far sognare», aggiunge l’organizzatore, che ha trasmesso in diretta streaming il video “Electronic Renaissance” del dj e produttore discografico Ilario Alicante, che ha riacceso l’Albero della Vita al Milano Innovation District con il linguaggio universale della musica elettronica, con le immagini dall’alto di otto droni. Un milione di visualizzazioni e 7mila euro raccolti a favore della Croce Rossa Italiana – Comitato di Milano.

Parla la stessa lingua Enrico Galli, imprenditore della notte da una vita, titolare dell’Altromondo Studios di Rimini, che a Pasqua avrebbe dovuto riaprire il Cocoricò di Riccione, la discoteca più famosa della Penisola, tornata a nuova vita con il nome Cocco dopo il fallimento e una ristrutturazione costata 800 mila euro. «Avevamo un palinsesto ricco e contratti firmati con i dj per un valore di 500 mila euro per tutta l’estate», sintetizza Galli: «Il lockdown è arrivato nel pieno dei lavori e ci ha colpito al cuore».

Tra gli addetti ai lavori c’è chi invita a ripensare schemi e proposte in vista della ripartenza. Lorenzo Rumi, dj resident del club Raspoutine di Roma e del Sottovento a Porto Cervo, nonché contitolare di Club Culture, agenzia romana di booking e management di artisti italiani e internazionali (Solomun, Skin, Martin Solveig), ragiona sull’eccessiva esterofilia che dilaga nel settore, con i suoi costi ormai insostenibili. «Questo arresto prolungato è un’occasione unica per riflettere sulle alternative al modello che ha dominato finora la scena», dice Rumi: «In futuro gli operatori italiani dovranno pensare a una nuova nightlife, non più legata ai diktat dei pochi colossi internazionali. Una sorta di intrattenimento a chilometro zero in grado di influenzare il gusto internazionale. Esattamente è accaduto nel nostro Paese fino a fine anni Novanta».

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