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Il freno a mano: l’incubo di tornare a quando c’era il peggio, la sirena delle ambulanze era la colonna sonora perpetua e si era messa la sordina alle campane delle chiese perché non suonassero a morto una due, dieci volte al giorno, aumentando l’angoscia. Era a marzo, quando i decessi toccarono un incremento dell’861 per cento rispetto all’anno precedente. La comunità perdeva a ritmo vertiginoso anziani e meno, fette di sapienza, personaggi tipici. Abbiamo raccontato la Spoon River del paese sull’Espresso del 22 marzo. Siamo tornati nei luoghi dove vivevano i sommersi, incontrando i salvati che ne hanno raccolto l’eredità, per ricostruire un tessuto umano strappato.
Alla scrivania che fu di Cristina Marcassoli, nell’anagrafe del Comune, è seduta Laura Ravasio: arrivò come volontaria nelle ore più buie, si è fermata. Dice con tono basso: «Uso tutte le sue cose». Cristina è ovunque, negli oggetti che prendono vita: nei suoi occhiali abbandonati accanto al computer, nelle fotografie lasciate nei cassetti che documentano i 42 anni passati in quell’edificio, negli anturium e le orchidee amorevolmente innaffiati. C’è, soprattutto, nei cuori dei colleghi ossessionati dai momenti ultimi. Salutò un giovedì, la ricoverarono l’indomani con lei che protestava: «Dovete dimettermi, sabato devo essere reperibile». La domenica se n’è andata. Roberta, la responsabile dell’ufficio: «Era la memoria storica di Nembro, collocava in pochi attimi persone e cose in modo infallibile». Ivan, l’impiegato che le stava dirimpetto: «La settimana successiva sarei dovuto andare a Valencia per la partita di Champions dell’Atalanta, scherzammo su quello». Niente Atalanta, trasferta vietata ai tifosi, e niente più Cristina. Stanza chiusa per la sanificazione, lavoro da casa tra mille difficoltà per gli altri pure infettati in modo lieve. Eppure continuare si doveva, certificati di decesso da inserire a cottimo nei file con le lacrime che bagnavano le tastiere, nella testimonianza di Barbara.
La biblioteca neoclassica alleggerita da influenze liberty, dista pochi passi dal Municipio. Loretta Bonfanti, 53 anni, la direttrice, tiene a mostrare la sala dei libri in quarantena, i volumi restituiti dagli utenti e che non possono passare di mano prima di dieci giorni, casomai il Covid-19 si fosse depositato tra le pagine. Segno di un’attività che non si ferma, i nembresi devono trovare conforto nella lettura. Incombe la figura di Tullio Carrara, il primo bibliotecario, il fondatore. Loretta lo definisce “maestro”. Se ne sarebbe forse tornata nella sua Valle Imagna, dopo un periodo di tirocinio nel 1989, se non fosse esploso «un amore professionale a prima vista». Le discussioni accese, i diversi pareri, anche le gite in montagna insieme, il peregrinare tra il milanese e il pesarese per succhiare il meglio delle altre esperienze e restituire a Nembro il meglio che possa offrire «una piazza del sapere». Perché Tullio era «un visionario pervaso da una grande umiltà, da una rara attenzione ad ogni singola persona». Fino all’ultimo dei suoi 72 anni si è prestato per tenere corsi di lettura, classici, Vangeli. Loretta, un vulcano di idee per il futuro, un’innovatrice nella continuità, è la dimostrazione che il suo seminato continuerà a germogliare.
Al teatro-cinema Modernissimo Antonio Noris, il presidente della cooperativa “Gherim” (in aramaico significa “Straniero”), non sa ancora chi dopo «l’insostituibile Sandrino», il mago di luci, suoni e colori. Nella postazione che si era ricavato in cima alla platea è un tripudio di computer, tastiere lunghe metri, cavi che si intrecciano, telecamere, chissà come diavolo interconnesse. Il Sandrino Barcella faceva di testa sua, spesso acquistava pezzi non concordati per migliorare acustica e immagini. Se ne stava ore e ore a trafficare per costruire il suo regno elettronico «divorando un ghiacciolo dietro l’altro». Ruvido fino al limite dell’offesa, irascibile, «un sacramento di uno», detto alla bergamasca. Però instancabile perfezionista. E fedele fino all’ultimo alla sua immagine burbera: «L’ho chiamato dopo che lo avevano ricoverato. Era arrabbiato col mondo perché nella sua stanza nessuno poteva entrare e nessuno poteva uscire». Sembrava il segno di una vitalità integra, ma di lì a poco ha smesso di rispondere e di collegarsi con WhatsApp. Quando hanno cercato di capire qualcosa del coacervo tecnologico che ha creato si sono dovuti arrendere. E ora chi lo fa funzionare? Ci sarebbe Francesco Brissoni, ex assessore, che ha dato una disponibilità per tappare un buco. Non ancora una soluzione duratura e stabile.
Nella testa dei cittadini rimarrà impressa la fotografia dei soldati russi che sbarcano alla casa di riposo per bonificare un luogo dove si sono contate 34 vittime su 87 ospiti. Sulla facciata sta disteso uno striscione: «Nel vostro piccolo, state facendo qualcosa di grande», riferito agli operatori. Tra i primi ad andarsene, il presidente, Giuseppe “Bepi” Pezzotta, 80 anni. Il 25 febbraio, quando già si sapeva del pericolo, voleva circolare come sempre nelle stanze, una parola dolce, una battuta. La direttrice generale Nicoletta Carnovali aveva dovuto usare tutto il suo buonsenso per rispedirlo indietro: «Hai un forte raffreddore e una tosse che non mi piace per niente». Finché si era convinto: «Hai ragione, non salgo, torno a casa». Non avrebbe più rivisto i suoi vecchietti. Bepi era stato sindacalista e gli era servito, nel profilo che ne traccia Nicoletta, «per la grande capacità di mediazione, per la facilità che aveva nell’instaurare rapporti». Era «curioso di tutto» e aveva ideato, ecco la sua eredità, «un centro servizi, una struttura non chiusa in se stessa ma aperta al dialogo con la comunità». Investendo cifre non indifferenti. Il suo successore alla presidenza, Valerio Poloni, nominato in fretta e furia, si trova a dover risolvere un rebus finanziario piuttosto complicato: «La ristrutturazione è costata 5 milioni. Tre e mezzo dei quali coperti da un mutuo. Abbiamo adesso 30 posti vuoti e una perdita secca di 50 mila euro al mese». Bisognerà lavorare di finanza creativa e contemporaneamente lavorare sull’«assestamento psicologico» di chi è rimasto. Oltre alle bare, ci sono ancora 18 ospiti positivi, naturalmente isolati.
Dal ricovero al camposanto è passato anche Giulio Bonomi, 92 anni, falegname autodidatta, intellettuale, rivoluzionario fino a quando le forze lo hanno sorretto. Ogni giorno spingeva la sua carrozzella fino alla zona dell’atrio dove filtrava più luce per leggere Il Manifesto. In camera divorava libri. Aveva preso la parola, nell’ assemblea prima del coronavirus, per incitare l’amministrazione ad avere sempre attenzione alla terza o quarta età. Non avendo parenti stretti, nel testamento è stato generoso con chi si è preso cura di lui nell’ultima fase del suo passaggio terreno.
Se un paese è un organismo vitale, le sue botteghe sono come i denti. Sulla via Bilabini, nel budello longitudinale di Nembro, c’è un dente mancante. È la saracinesca abbassata del negozio di giocattoli di cui era regina la Pierina Beretta. Quasi a fianco, un dente rivitalizzato, la ferramenta di suo fratello Elio, pure scomparso. I figli Giovanni e Sergio, 53 e 51 anni, hanno riaperto. Giovanni dice che non saprebbe fare altro: «Sono qui dentro da quando avevo 13 anni e venni a dare una mano a papà perché tracimò il torrente Lonzo, avevamo l’acqua fino alle ginocchia, un disastro». Allora fu la furia della natura, ora il microscopico nemico invisibile: «Tocca lavorare, ricostruire e basta». Anche per una sfida a Elio, per una frase che gli rimbomba nelle orecchie: «Voi non riuscireste a mandare avanti l’attività senza di me».
Nel nome del padre Ilario, presidente degli artiglieri, si sono riaccese le luci del negozio di abbigliamento “Attimo”. La figlia Laura, 51 anni, ha dovuto velocemente asciugarsi le lacrime per tre perdite in pochi giorni, il padre, lo zio Mauro, presidente del Motoclub, la zia Mirella attiva nella San Vincenzo. Tre fratelli. Ha tolto il cartello che si era scolorito con la scritta “chiuso per lutto” ed è ripartita pur con clienti che ancora scarseggiano ma anche quei pochi sono un segno di speranza. «Ilario era anche il mio miglior amico. Avevamo un rapporto speciale, ci capivamo con uno sguardo. Mi ha insegnato la cordialità, la disponibilità, la precisione nei pagamenti tutte doti necessarie nel commercio. Ogni tanto mi volto perché sento la sua presenza, ma lui non c’è. Io non accuso nessuno, medici infermieri sono stati tutti disponibili. Ma sono arrabbiata col virus. Perché accanirsi così contro di me?».
Domanda da girare a don Matteo Cella. Il quale sospira prima di rispondere. «Sì, c’è un interrogativo mai espresso ma sempre sottinteso quando parlo con la gente. Dov’è, dov’era Dio? E io rispondo che è il Dio della croce, da ricercare nel barelliere, nel volontario, in tutti coloro che non hanno permesso ci si sentisse soli». Certo, ammette, «c’è stato qualcosa di innaturale che ha mutato il corso dell’esistenza, genitori sepolti con figli, persone colpite perché si sono prese cura dei loro cari». Come è il caso di Ivana Valoti, l’ostetrica. All’ospedale di Alzano, dove lavorava, c’è un’altra al suo posto, «ma manca la sua rumorosa presenza per la strada, la sua esuberanza. Per le mamme era punto di riferimento prima e dopo il parto, e lei era sempre prodiga di consigli, di informazioni preziose, di aiuto. Manca all’oratorio dove veniva di martedì a servire come barista, manca ai ragazzi a cui insegnava il catechismo e a quelli con cui operava al corso di teatro».
Eppure don Matteo si sforza di immaginare, assieme alla luce in fondo al tunnel, una palingenesi. Arriverà un’altra Ivana. Ci sarà un altro Sandrino Barcella, non gli piace il termine “insostibuibile”: «Anzi io spero ce ne siamo cinque come lui. Le telecamere che aveva appena comprato le stanno usando i ragazzi che si sono improvvisati videomaker ma con tanta voglia di imparare. Piccoli Sandrini crescono. Sento nascere una nuova rete di relazioni, rapporti che si ricuciscono, in una comunità che può usare questa tragedia per rafforzarsi. Capisco la stanchezza. Ripartiamo appesantiti ma ripartiamo. Alla ricerca di una normalità, seppur diversa». E con la benedizione di papa Francesco che al telefono, forse per incoraggiarlo e per non dilatare i confini di un’impresa che altrimenti apparirebbe titanica, gli ha detto: «Don Matteo, ognuno deve fare quello che può».