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Ad unire questa nuova ondata di luddisti più o meno metaforici è un unico sentimento: la paura. Paura di perdere la salute e paura di perdere la libertà, le due grandi questioni legate alla transizione dal mondo analogico a quello digitale.
A differenza delle precedenti, la nuova tecnologia non sarà incrementale. Tra le 100 e le 1.000 volte più veloce del 4G, consentirà l’avvento della cosiddetta Internet delle cose, ovvero della connessione digitale degli oggetti quotidiani, dal frigorifero all’aspirapolvere, e permetterà lo sviluppo dei veicoli senza conducente e della telemedicina, per non parlare del teleinsegnamento. La nuova infrastruttura potrebbe spalancare un’epoca in cui, per avvicinarsi, gli uomini non dovranno più muoversi. Saranno i dati a farlo.
Ma per avere questo grado di performance, il 5G userà frequenze più alte di quelle attualmente usate dai telefonini e un numero maggiore di antenne, e in molti vorrebbero avere rassicurazioni sulla non pericolosità di onde elettromagnetiche che, dalla prima rete mobile degli anni Ottanta, oggi sono diventate sempre più pervasive, come denuncia Hans Vanscharen nel suo recente rapporto sulla potenziale collusione con il grande business di Icnirp, la ong tedesca a cui si affida la Commissione europea per le linee guida sulla sicurezza delle reti mobili.
Non solo. L’interconnessione completa tra uomini e oggetti impone una riflessione. Lì dove Bruxelles, Pechino e Washington vedono la chiave di volta dell’indispensabile trasformazione digitale del mondo, tanti cittadini, non interpellati su quale futuro vogliono, vedono un vicolo cieco in cui saranno infilati senza potersi opporre. Dove gli operatori economici scorgono nuove fonti di reddito e di innovazione, indispensabili per il rilancio dell’economia, in molti temono incursioni non desiderate nella propria vita personale e potenziali manipolazioni dei sistemi democratici.
Il Covid, ancora una volta, ha esasperato i contrasti. «In tre mesi abbiamo fatto un salto nella digitalizzazione per il quale altrimenti ci avremmo messo 20 anni», dicono fonti della Commissione che vogliono rimanere dietro le quinte: «Adesso sappiamo che un call center può essere gestito da casa. È l’intero sistema economico che si è svegliato diverso e non tornerà come prima».
La presidente Ursula von der Leyen ha fatto dell’infrastruttura 5G una delle pietre miliari della ripresa post virus e della costruzione della nuova Europa verde e digitale. Con lei concordano i capi degli Stati membri che nel Consiglio del 9 giugno sull’avvenire digitale hanno invitato la Commissione a presentare un piano di azione aggiornato rispetto a quello del 2018 sia sull’installazione del 5G in tutta Europa sia sul futuro 6G, sottolineando come vi dovranno essere destinate una parte consistente delle risorse del recovery fund, il fondo europeo in aiuto degli Stati più colpiti dal Covid.
Eppure proprio durante i giorni di lockdown si sono moltiplicati gli attacchi contro le nuove antenne in Gran Bretagna, Olanda e Belgio, dove il principale operatore, Proximus, è stato costretto a sospendere la loro installazione in una città chiave come Louvain-la-Neuve. La convinzione di alcuni cittadini era che le onde di ultima generazione aiutassero a diffondere il virus: una tesi che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito «biologicamente impossibile». Il passo da sospetto a complotto è però breve. Grazie all’aiuto degli ormai noti gruppi anti-vaccini, anti 5G, antiEuropa e degli istigatori russi e cinesi, veloci a aizzare l’opinione pubblica europea contro i propri governi, è nata la teoria che Bill Gates abbia diffuso il coronavirus per impiantare microchip nelle persone. L’incubo è quello che le nuove élite mondiali, di cui Gates è simbolo, arrivino a utilizzare la tecnologia come strumento di controllo della popolazione. Complotti a parte, il controllo resta la questione chiave: se il 5G ci rende tutti connessi, chi è che controlla il 5G?
Fino a un anno fa il tema non era in cima all’agenda dei politici europei. In ogni singola nazione gli operatori telefonici facevano le offerte per le aste delle frequenze e poi sceglievano in autonomia il fornitore delle reti secondo criteri puramente finanziari. Nell’ultimo anno, e ancora di più negli ultimi sei mesi, molto è cambiato. Non soltanto è cresciuta in Europa la consapevolezza che la rivoluzione verde è strettamente connessa a quella digitale, che l’una non può avvenire senza l’altra, ma, dopo anni di grande ingenuità, per sua stessa ammissione la Commissione ha iniziato a vedere la Cina non solo come partner strategico ma anche come rivale sistemico. D’altronde Pechino non nasconde più le sue ambizioni geopolitiche e non si fa alcuno scrupolo nel destabilizzare, con disinformazione e ricatti, la politica e l’economia degli avversari.
In un mondo in cui le telecomunicazioni sono diventate arma geopolitica, i fornitori di infrastrutture telecom sono attori strategici. Non è un caso che Huawei, leader mondiale, sia cinese. «Il 5G non è solo questione di informazioni ma di controllo politico e economico», ribadisce Hosuk Lee-Makiyama, direttore dello European Centre for International Political Economy: «In futuro si potrebbe mettere in ginocchio un’organizzazione con due clic».
Fondata 33 anni fa da un ex militare, Ren Zhengfei, Huawei è diventata velocemente la più importante multinazionale cinese con quasi 200 mila dipendenti, ed è riuscita a convincere gli operatori telecom di mezza Europa a comprare la sua infrastruttura 4G, lo standard attuale, da cui è facile fare il passaggio al 5G. La strategia di penetrazione è stata l’adozione di prezzi molto bassi e una grande attenzione alle esigenze anche non economiche dell’acquirente. «Forse se qualcuno avesse pensato non solo al beneficio degli azionisti ma anche a quello dei consumatori si sarebbe potuto chiedere com’era possibile che Huawei facesse prezzi più alti in Cina che in Europa», dice Lee-Makiyama: «E poi in Europa l’alternativa c’è sempre stata». Huawei a parte, i due principali fornitori di infrastrutture di telecomunicazioni nel mondo sono europei: Ericsson e Nokia. «L’Europa nel settore è leader ma gli europei, disuniti, non se ne rendono conto e non sfruttano la propria forza», dice Lee-Makiyama.
I due colossi nordeuropei stanno invece costruendo il 90 per cento dell’infrastruttura 5G degli Stati Uniti, che sono privi di fornitori propri ma che per primi si sono resi conto del pericolo derivante dall’affidare a “venditori rischiosi” la propria rete di telecomunicazione. Già nel 2012, con il presidente Barack Obama, per «ragioni di sicurezza nazionale», impedirono alle loro aziende di utilizzare l’attrezzatura per le reti mobili di Huawei. L’anno scorso, all’alba della guerra fredda con Pechino, il presidente Donald Trump ha di fatto vietato a Huawei l’accesso a qualsiasi network di telecomunicazione statunitense e ha preso a convincere gli alleati a fare altrettanto. Australia e Giappone, per ragioni geografiche ben consapevoli del pericolo, hanno subito escluso Huawei. Il Canada lo ha fatto qualche settimana fa, al culmine di una saga che è diventata anche giudiziaria.
A fine 2018 infatti gli Usa chiesero a Ottawa l’arresto e l’estradizione per truffa della responsabile finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, figlia del fondatore, che da allora è agli arresti domiciliari nella sua villa di Vancouver. Per ritorsione, e a dimostrazione dell’importanza strategica di un’azienda come Huawei, Pechino ha rinchiuso nelle sue prigioni segrete un diplomatico e un uomo di affari canadesi, Michael Kovrig and Michael Spavor, e ha espulso dalla Cina i giornalisti del New York Times e della Washington Post. Lo scorso 27 maggio un tribunale canadese ha stabilito che Meng soddisfa i requisiti per essere estradata e subito dopo i tribunali di Pechino hanno giudicato i due canadesi colpevoli di spionaggio per conto di potenze straniere mentre un terzo canadese è stato condannato a morte per traffico di droga.
In Europa fino a pochi mesi queste vicende sembravano solo scene tratte da un film di spionaggio: la competenza in tema di sicurezza nazionale infatti dipende dai singoli Stati che hanno sempre proceduto in ordine sparso, con la stessa scarsa attenzione che riservavano allo sviluppo tecnologico. Poi la Gran Bretagna a gennaio ha limitato al 35 per cento la quota di mercato di Huawei e pochi giorni fa, su pressione di Washington, ha annunciato un’ulteriore revisione della presenza di Huawei sul suo territorio.
Il Vecchio Continente si è finalmente reso conto che Huawei già controlla tra il 18 e il 40 per cento della quota del mercato delle antenne 5G e tra il 2 e il 30 per cento del cuore della rete 5G, dopo essersi imposta con il 4G nella scorsa decade. «In Europa la quota di mercato che Huawei detiene grazie all’operatore Vodafone è addirittura maggiore di quella che Huawei detiene in qualsiasi operatore telefonico cinese», sottolinea l’ad John Strand della società di consulenza danese Strand. Se in Italia, uno dei mercati più avanzati al mondo per la diffusione del 5G (dopo Corea del Sud e Cina), la dipendenza di Vodafone da Huawei è al 50 per cento, i sistemi di telecomunicazioni di Grecia, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania dipendono completamente dall’operatore cinese.
Ma, tra pressioni statunitensi, atteggiamenti sempre più aggressivi da parte di Pechino e una maggiore reattività della Commissione, l’atteggiamento dei leader europei sta cambiando. Il primo segnale si era avuto il 29 gennaio scorso con la loro sottoscrizione della “cassetta degli attrezzi” che identifica tutti i rischi del 5G, inclusi quelli relativi all’interferenza di Stati non Ue o di fornitori appoggiati da terzi, e indica come gli Stati europei, singolarmente responsabili della propria sicurezza, possono reagire. «È stato lo spartiacque della strategia sul 5G dell’Europa», dicono dalla Commissione: «Da allora un numero sempre maggiore di Stati ha sottratto la tecnologia “centrale”, quella strategica, a Huawei e la sta affidando agli operatori europei». Il rapporto sui risultati di tali interventi uscirà ai primi di luglio. Vodafone intanto ha annunciato che nel giro di cinque anni e al costo di 200 milioni di euro rimuoverà Huawei dal “core”, dal cuore dell’infrastruttura e British Telecom è stata costretta a fare lo stesso. In Germania, fortemente dipendente dalla Cina anche nel settore delle telecomunicazioni, il dibattito è in corso, nonostante la riluttanza di Deutsche Telekom. E anche nel resto d’Europa, sotto la pressione di Commissione e Consiglio europeo.
Sul campo si stanno delineando due scuole di pensiero: chi vuole una certificazione dei fornitori affidabili e chi un sistema aperto grazie al quale le aziende telecom potranno assemblare forniture diverse. Il tempo stringe: Bruxelles vuole la rete 5G in piedi e funzionante almeno in tutti i centri urbani entro il 2025 per non restare indietro rispetto a Cina e Usa. Ma perché la nuova tecnologia diventi davvero la sua spina dorsale, la nuova Europa non potrà fare a meno di elaborare un solido piano comune in materia di sicurezza, informatica e non, e di salute. Solo così le antenne smetteranno di fare paura.