All'alba del 21 luglio è stato trovato l'accordo sul Fondo di ripresa dalle conseguenze economiche del Covid e anche sul prossimo bilancio settennale dell'Unione europea. Dopo quattro giorni e quattro notti. Non è stato facile. Adesso manca l'approvazione (o le modifiche) del parlamento europeo che si riunirà in plenaria giovedì.
Veniamo ai numeri. Per il Fondo che dovrà aiutare gli stati più colpiti dalla pandemia, la proposta della Commissione europea posta sul tavolo del Consiglio dei 27 valeva 750 miliardi di euro, di cui 500 di finanziamento a fondo perduto e 250 di prestiti.
Risultato finale: i 750 miliardi di euro rimangono ma saranno 390 miliardi a fondo perduto (meno dell'1 per cento del bilancio annuale della Ue) e 360 di prestiti a tassi vicino allo zero. In aumento è stato aggiustato anche l'ammontare del bilancio settennale da 1.074 miliardi di euro a 1.082 miliardi.
Diciamolo subito: l'Italia è il Paese che guadagnerà di più da questa storica pioggia di soldi europei, che saranno ottenuti, a partire dall'anno prossimo, grazie all'emissione per la prima volta di forme di debito europeo (comune). Dopo avere presentato i progetti in cui investire il denaro, l'Italia avrà a disposizione 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 di prestiti.
La grande perdente sarà invece la visione verde e digitale dell'Europa e l'ambizione di voler legare i fondi al rispetti dello stato di diritto da parte di Polonia e Ungheria.
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COME SARA' SUDDIVISO
360 miliardi prestiti
312,5 miliardi sussidi ai singoli Paesi
47,5 miliardi ReactEu (fondi di risposta all'emergenza covid)
5 miliardi (dovevano essere 13,5) Horizon Europe (il maggiore programma Ue per la ricerca scientifica)
5,6 miliardi (dovevano essere 30,3) InvestEu (per gli investimenti strategici comunitari)
7,5 miliardi Sviluppo rurale
10 miliardi (dovevano essere 10) Just Transition Fund, chiave di volta della transizione ambientale
1,9 miliardi RescEu (programma di protezione civile europea)
Cancellati: i 7,7 miliardi di fondi europei per il programma per la salute, il primo tentativo di dare una riposta europea alle emergenze sanitarie (la salute è competenza esclusiva degli Stati membri).
CHI VINCE E CHI PERDE
Vincono soprattutto i piccoli Paesi che sono riusciti ad imporre le loro pesanti condizioni sul resto d'Europa: meno sussidi, taglio delle risorse complessive e aumento dei “rebates”, cioè degli sconti sui soldi che dovranno versare al bilancio comunitario nei prossimi sette anni, a scapito di tutti gli altri che vedranno aumentare il conto. Sono riusciti nella loro feroce opposizione grazie al sistema di voto unanime e non calibrato in base a Pil e popolazione che vige su queste materie nel Consiglio europeo.
Vince l'Italia che ha ottenuto quello che voleva in cambio di una supervisione del Consiglio e della Commissione sulle modalità di investimento delle risorse sia al momento della decisione dell'esborso sia successivamente in corso d'opera. In quest'ultimo caso gli stati che temono un uso scorretto dei fondi possono azionare il “freno”, sospendo l'erogazione e portare le loro riserve al Consiglio europeo. In questa sede verranno esaminate le criticità e prese le decisioni a maggioranza qualificata e non all'unanimità (come avrebbe voluto il premier olandese Mark Rutte). La ragione dietro queste condizionalità è in parte il frutto di una generica sfiducia verso nella capacità dell'Italia di utilizzare le risorse a disposizione senza disperderle, e in parte della paura che con nuove elezioni possa nascere a Roma un governo euroscettico con idee proprie e non europee sull'utilizzo di quei soldi.
Vince la possibilità di condividere il debito e di emettere debito comune europeo, un'idea impensabile prima del Covid e possibile solo grazie all'accordo franco-tedesco (dimostratosi indispensabile) e alle capacità di statista di Angela Merkel.
Vince l'idea di Europa come collezione di Stati, dove alzare la voce porta vantaggi, più che progetto comune gestito centralmente a Bruxelles.
Perdono non solo i programmi congiunti europei, cuore della proposta della Commissione Von der Leyen, sacrificate sull'altare degli interessi e egoismi nazionali, in primis la transizione ecosostenibile, deprivata di risorse cruciali, ma anche la possibilità di un'azione comune parametrata sulla condivisione di obiettivi comuni, aldilà dei vantaggi contabili dei singoli Stati.
I piccoli stati della Lega anseatica, solo in parte sotto lo scacco dei loro sovranisti (Olanda sì, Austria no ad esempio), si sono concentrati sul conto economico anziché sui benefici enormi che ogni anno ricevono dalla partecipazione del progetto europeo, sia in termini politici che economici (senza mercato comune perderebbero la maggioranza dei loro clienti). In ogni caso però rimangono contributori netti al bilancio dell'Unione, insieme a Francia e Germania.
Perde il principio che l'Europa non è solo un mercato ma una comunità politica e sociale organizzata intorno ai principi dello stato di diritto. Per ottenere il voto di Ungheria e Polonia il Consiglio ha rinunciato a vincolare saldamento il disborso dei soldi al rispetto dei principi base della democrazia.
COSA È SUCCESSO
La grande battaglia è stata tra i cinque Paesi che la stampa italiana definisce “frugali” e quella francofona “tirchi” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia), i paesi di Visegrad, ovvero dell'Est Europa, allergici a qualsiasi condizionalità sullo stato di diritto, e i Grandi Paesi – Germania e Francia che per prime avevano avanzato la proposta da 500 miliardi di sussidi per il recovery fund, e poi Italia e Spagna, Paesi maggiormente colpiti dal virus.
I cinque del Nord, da tempo contributori netti al bilancio Ue ma anche tra i paesi che dalla Ue hanno maggiormente beneficiato, soprattutto Olanda e Austria, in termini di esportazioni, hanno dichiarato subito di non voler “regalare” soldi ai Paesi “spendaccioni” come l'Italia. E questo nonostante la Germania sostenesse per la prima volta che l'aiuto economico ai Paesi più colpiti dal virus era nell'interesse del mercato unico e quindi di tutti, in primis di coloro per cui quel mercato è insostituibile.
Il grande problema dell'Unione europea resta il suo peccato originale: il voto all'unanimità sulle scelte cruciali. Nato per non indebolire la sovranità nazionale finisce per non consentire l'evoluzione del progetto europeo.
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