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luglio, 2020

Guerra finta, danni veri

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Un processo di omologazione sembra colpire i politici. Dicono tutti le stesse cose, anche se mettono in scena un litigio senza fine. Con conseguenze nefaste

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È la guerra civile uno dei canoni prediletti della nostra contesa politica. Naturalmente, si tratta di una finta guerra, metaforica, a bassa intensità, combattuta con le parole e non con le armi. Una guerra che oppone tanto più (melo)drammaticamente quanti hanno qualcosa in comune quasi a compensare le dispute tra i vicini e la cronica mancanza di disciplina di qualsiasi coalizione. È la somiglianza infatti che genera il litigio. Una coltre di improbabili affinità che avvolge il nostro ceto politico da un po’ di anni a questa parte. E più lo accomuna, più lo divide, fino a impedirgli ogni possibilità di scavalcare i confini che separano gli uni dagli altri. Vecchi e nuovi, maggioranze e opposizioni, partiti storici e forze populiste. C’è come un mescolarsi dei linguaggi, dei gesti, delle posture, degli stilemi, perfino dei sottintesi che ha finito per dar luogo a una inattesa convergenza. Che a sua volta - e non suoni come un paradosso - spiega come mai tra genti e progetti così sovrapponibili diventi quasi impossibile trovare punti di contatto e possibilità di collaborazione. Il fatto è che da qualche anno a questa parte è in atto una sorta di involontaria omologazione del ceto politico di casa nostra. Cominciò Berlusconi annunciando che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. Una parola d’ordine che fu riecheggiata un certo numero di volte dalla parte opposta, salvo qualche impercettibile variazione lessicale. Proseguì Renzi con il suo culto della rottamazione, assunto anch’esso dai suoi avversari come un paradigma inesorabile e carico di valore positivo. Completarono l’opera i populisti, di una parte e dell’altra, dando addosso al fantasma del professionismo politico trattato alla stregua di una sentina dove si potevano rintracciare tutti i vizi dell’Italia peggiore. Salvo scoprire che molti degli eredi di quelle antiche professioni non vedevano l’ora di associarsi a loro volta allo stesso coro.

Si è finito così per dar luogo a una musica di sottofondo nella quale ognuno recita più o meno la stessa filastrocca con un effetto tutt’altro che armonioso.
Questo gioco di imitazioni incrociate non è affatto casuale. Si sceglie di affrontare l’avversario sottraendogli l’argomento, e non già facendo la fatica di opporre un argomento all’altro. Il paradigma imitativo adottato dalla generazione al comando non conosce ormai né il limite della realtà, né quello della fantasia. Tant’è che a questo punto Salvini può perfino raccontarsi come il continuatore di Berlinguer e Conte può proporsi come il discendente di Moro. Una fitta trama di rimandi storici piuttosto improbabili, a volte perfino offensivi, che i nostri eroi utilizzano però per nobilitare la finta guerra che mostrano di combattere.

Il fatto è che nessuno dei protagonisti sembra trarre la sua forza e la sua ragione da un’identità. E così, non avendola, se la vanno a cercare dove possono. O trafugandola da libri di storia letti un po’ maldestramente. O sottraendola ai loro stessi avversari. Il risultato, alla fine, non cambia granché. Non c’è più un reticolato di filo spinato che divide le opposte scuole politiche. In compenso si diffonde un pensiero unico del tutto minimale i cui diversi interpreti si combattono con un furore degno di miglior causa.

Ci si potrebbe illudere che tutte queste somiglianze e imitazioni, giocate sul filo del pensiero unico (e debole) della politica alla moda debbano portare prima o poi a ingentilire lo scontro tra le parti. E invece avviene quasi sempre il contrario. La scoperta di non essere poi in fondo così diversi, e magari l’illusione di attingere agli stessi fonti battesimali inducono infatti a coltivare demonizzazione incrociate, come a rassicurarsi sulle proprie ragioni una volta che le si sia intraviste dall’altra parte della barricata.

Il gioco delle reciproche affinità consente di sottrarsi alla fatica di pensare con troppa originalità e finisce per posizionare ogni leader e partiti nei paraggi di quello che sembra essere il nuovo senso comune. E infatti, mettendo insieme parenti del diavolo e cultori dell’acqua santa balzano all’occhio più le verità similari che non i tratti distintivi. In tutti, all’incirca, c’è una manifesta, eccessiva sfiducia nelle virtù dell’azione politica. E di contro una altrettanto eccessiva fiducia nel valore taumaturgico dell’azione dei leader. Tutti celebrano il valore dell’assertività - la propria. E specularmente tutti denunciano l’altrui vaghezza. Ancora.

Ci sono idee diverse sull’Europa, e gradi diversi di adesione alle sue regole, è ovvio. Ma in compenso c’è in comune l’idea che con quel mondo si debba trattare sulla base della forza e/o dell’astuzia e non già ingaggiando una più faticosa e fantasiosa battaglia di idee. E poi, c’è il mito della fretta, della corsa, della velocità, quella suggestione quasi futurista che celebra quotidianamente le magnifiche sorti e progressive del cambiamento insistendo ad immaginarlo sempre come un salto e mai come un cammino. Infine, c’è tutto quell’asserito decisionismo, giocato dagli uni contro gli altri e viceversa, senza che mai si insinui tra le pieghe di tutti quei proclami un dubbio, un’ansia, un pensiero più critico su quanto si sta facendo - o mostrando di fare.
E poiché prima o poi ci si accorge, a fasi alterne, che non tutti questi conti possono tornare, ecco che allora ci si dedica a inventare - un po’ tutti, ancora - le fasi due, i cambi di passo, le ripartenze, i nuovi inizi, i punti a capo e tutte le altre infinite metafore con le quali un ceto politico a corto di grandi idee si rifugia nelle formule di rito che somigliano tanto al vorrei ma non posso tipico di chi governa come se fosse all’opposizione e chi recita la poesia dell’opposizione come se non dovesse mai fare i conti con la prosa del governo.

Non tragga in inganno lo stridore di qualche litigio, né la rivendicazione di molte differenze. E neppure quel clima da felliniana “prova d’orchestra” che segnala la poca armonia che vige nei due (?) campi. Il fatto è che nel frattempo s’è formata e ispessita una patina di conformismo che avvolge l’intero spettro della politica italiana, inducendo un po’ tutti, a giorni alterni, a dire quasi - quasi- le stesse cose.

Già, ma è proprio qui che si forma l’ingorgo delle parole. E di conseguenza l’ingorgo degli equivoci. Perché tutti, più o meno, promettono meno tasse. Tutti, più o meno, insolentiscono la burocrazia. Tutti, più o meno, posano a rinnovatori dei costumi. Tutti, più o meno, si ergono a custodi dell’inedito. Salvo dare ad intendere che gli altri, che pure accennano allo stesso motivetto, stanno cantando fuori dal coro. E come nella pubblicità la concorrenza più aspra è quella tra i prodotti più somiglianti, così in politica la contesa in nome delle medesime parole d’ordine finisce per essere la più divisiva. E la più inconcludente, peraltro.

Una volta era l’ideologia a identificare e separare le forze politiche. Dando loro caratteri ben definiti (anche troppo), eppure spingendole a cercare qualche passaggio segreto che mettesse in comunicazione tribù lontane e ostili. Ora invece le identità si sono fatte sbiadite, e spesso e volentieri intercambiabili. E così domina su tutti una corsa all’imitazione che spinge a radicalizzare il conflitto. Non perché ci sia una così grande differenza. Al contrario, perché si temono le insidie e le lusinghe di certe affinità.
Così, una guerra finta alla fine produce danni veri.

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