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Recep Tayyip Erdogan
L’oggetto del contendere è lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas, la più pulita versione dell’oro nero (gradita anche da molti promotori del Green Deal come sostituto di carbone e petrolio) scoperti negli ultimi 10 anni nelle acque del Mediterraneo orientale e racchiusi in un lembo di piattaforma continentale greca che Ankara rivendica come propria. Non solo. Con il conflitto in Siria, la guerra civile in Libia e il parziale disimpegno americano nella regione, negli stessi anni è stato rimesso in discussione l’equilibrio politico dell’Oriente a noi vicino.
Ed ora la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, perenne alleato-nemico dell’Europa e dell’Occidente tutto, con cui l’Italia mantiene rapporti di buon vicinato, vuole tornare a giocarvi il ruolo di primadonna, almeno al pari di quello storico degli Usa, come ha fatto capire, assumendo negli ultimi anni un peso sempre più importante, fino a diventare chiave, nella politica libica, a discapito degli europei, tra loro divisi, e con la sua strategia in Siria, dove però la guerra ai combattenti curdi ha finito per aiutare il vecchio, mortifero regime.
«Stiamo stracciando e gettando via le mappe del Mediterraneo orientale che ci imprigionano sulla terraferma», ha detto chiaramente a giugno Fuat Oktay, vice di Erdogan, a proposito delle manovre navali al largo delle coste cipriote, dove operano sia Eni che Total. Poi a luglio Ankara ha inviato il vascello di ricerca sismica Oruç Reis, scortato da navi militari, a condurre esplorazioni in una zona situata tra Cipro e le isole cretesi, in un’escalation mirata ad obbligare gli europei a una trattativa di cui Atene farebbe volentieri a meno.
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Quest’ultima, temendo le mosse di uno dei membri più forti della Nato, ha reagito mettendo l’esercito in stato d’allarme, inviando navi e aerei nell’area e chiedendo a Bruxelles un incontro urgente. Poco dopo la Francia, il Paese europeo militarmente più preparato, la cui Marina a giugno aveva già subito un atto aggressivo da parte turca mentre una sua nave tentava di far rispettare l’embargo contro l’esportazione di armi alla Libia, ha chiesto alla Turchia di cessare le azioni ostili.
Per essere più chiara, visto che Erdogan capisce meglio la cosiddetta “diplomazia delle cannoniere”, ha inviato nell’area due navi, la porta elicotteri Tonnerre che stava soccorrendo una Beirut ferita dall’esplosione dei fertilizzanti al porto, e la fregata Lafayette, già in esercitazione congiunta con la Marina greca, e ha fatto stazionare sull’isola di Creta due Rafale, i celebri aerei da guerra francesi. «Ho deciso di rinforzare temporaneamente la presenza militare francese nel Mediterraneo orientale in cooperazione con i partner europei, tra cui la Grecia», ha twittato il 12 agosto il presidente Emmanuel Macron.
L’attuale assetto dell’ex Mare Nostrum, tornato quest’estate ad essere una delle zone calde del pianeta, è nato dal disgregamento dell’Impero Ottomano, passando per le due guerre e la sconfitta italiana. Le isole del Dodecaneso, benché adiacenti alle coste turche, finirono per far parte degli arcipelaghi greci, fornendo alla Grecia, a scapito della Turchia, un’impressionante piattaforma continentale. Quest’ultima era all’epoca un dettaglio poco importante: l’estensione dei confini si misurava soprattutto in miglie nautiche dalla costa e la vera risorsa erano le acque del mare non il sottostante.
Ma con il nuovo millennio la situazione è cambiata. Israele ha preso a individuare giacimenti di gas nella regione e Cipro, dove Ankara occupa dall’estate del 1974 il 40 per cento dell’isola e un accordo non si è mai trovato, ha affidato la ricerca a società internazionali. La prima scoperta risale al 2011 con l’americana Nobel Energy, la maggiore è invece del 2015, quando Eni, in acque egiziane, trovò l’enorme giacimento di Zohr. Dimostrato il potenziale della regione, le relazioni della Turchia con i vicini sono precipitate, dettaglio che ha accelerato la formazione di quella che Ankara definisce l’”alleanza del male”.
Cipro, Israele, Egitto e poi anche Italia, Giordania e le autorità palestinesi hanno messo in piedi il Forum per il gas nel Mediterraneo dell’Est, una specie di Opec del gas in fieri, con l’obiettivo, tra gli altri, di creare una gasdotto di quasi duemila chilometri che parta dalle riserve di gas naturale israeliane del bacino del mar di Levante, si diriga a Cipro, poi a Creta e termina in Grecia, per poi raggiungere infine l’Italia attraverso un ulteriore gasdotto. L’impianto, del valore di circa sei miliardi, oltre ad evitare il territorio turco, permetterebbe di ridurre la nostra dipendenza energetica dalla Russia, soddisfacendo nel giro di sette anni il dieci per cento dell’attuale fabbisogno di gas europeo.
Sentitasi isolata, Ankara nel 2018 ha preso a bloccare con navi da guerra una piattaforma Eni a nord di Cipro, poi ha cominciato a condurre esplorazioni per conto suo in acque che, secondo la convenzione Onu del 1982 sulla legge marittima ratificata da 167 Paesi ma non dalla Turchia, sono greche o cipriote. «La Turchia ritiene che i 40 mila chilometri quadrati di piattaforma continentale che la Grecia reclama in virtù delle sue isole siano eccessivi e che non sia giusto impedire alla Turchia l’accesso al Mediterraneo e alle sue risorse», dice da Istanbul Sinan Ülgen, presidente del Centro per gli studi di Economia e di politica estera.
Al centro del contendere è finita soprattutto la piccola Kastellorizo, 128 chilometri a Est di Rodi, 170 chilometri a nord di Cipro e a un paio di chilometri dalle coste dell’Anatolia, protagonista del film di Gabriele Salvatores “Mediterraneo”. È sulla base di questa isoletta di nove chilometri quadrati che la Grecia può rivendicare una piattaforma continentale attigua a Cipro. Ed è in virtù di questa piattaforma che il 6 agosto ha firmato un trattato con l’Egitto per delimitare le zone economiche esclusive (Zee) dei due Paesi, ovvero le aree di mare in cui uno stato esercita la propria autorità e concede a privati lo sfruttamento delle risorse marine e sottomarine.
Visto che non esistono in questo caso ragioni economiche immediate, la firma in tutta fretta del trattato è stata chiaramente dettata da ragioni politiche: la riposta alla ratifica di un altro trattato che Ankara, in cambio di aiuti militari, aveva provocatoriamente fatto sottoscrivere nel novembre scorso al governo libico di Fayez al-Sarraj, riconosciuto anche dall’Italia, in cui si sancivano le rispettive zone economiche esclusive, identificandole in un tratto di mare di pertinenza greca. «Serraj, pur essendo riconosciuto internazionalmente è stato lasciato solo», dice Armando Sanguini, consigliere scientifico dell’Ispi di Roma e nostro ex ambasciatore: «Quando ha chiesto aiuto militare ha avuto un diniego ed è allora che è spuntata la Turchia. Erdogan, maestro nell’abbinare l’assoluta aggressività a una buona dose di mediazione e temperanza, ha colto l’occasione al volo e ha fatto firmare a Serraj l’accordo, che, ricordiamolo, non è ancora operativo perché necessita dell’avallo del parlamento di Tobruk in Cirenaica».
Intanto però il trattato rafforza la posizione negoziale di Erdogan, conferendole un’aura di legittimità. «La novità dell’intensificazione attuale dello scontro non è il fatto che la Turchia non riconosca la porzione di piattaforma continentale rivendicata dalla Grecia, quanto invece i due recenti accordi, tra loro incompatibili, siglati tra Turchia e Libia e tra Grecia e Egitto, che hanno creato giurisdizioni che si sovrappongono», dice Ülgen, sottolineando come l’accordo greco-egiziano abbia immediatamente arrestato le negoziazioni avviate a luglio da Angela Merkel per trovare una mediazione.
Bruxelles, attraverso il Consiglio europeo dei 27 capi di Stato, pur sostenendo verbalmente Atene e le sue ragioni, nella sua riunione di emergenza in pieno agosto ha finito per rimandare la discussione a fine settembre, sperando di non essere obbligata a prendere decisioni drastiche che da una parte evidenzierebbero i contrasti interni tra i suoi membri, e dall’altra metterebbero ancora più a repentaglio il fragile accordo tra Ue e Turchia sulla gestione dei migranti siriani. «La relazione tra la Turchia, membro Nato, e la Ue è disfunzionale», dice Ülgen: «E lo è pure quella con gli Usa, anche se Erdogan e Trump hanno un buon rapporto personale, situazione che potrebbe cambiare con l’eventuale elezione di Biden».
Intanto però Erdogan sta facendo di tutto per poter arrivare a un eventuale tavolo negoziale da una posizione di forza e costringere Atene nel Mediterraneo e Parigi in Libia a tenere conto delle sue esigenze politiche in un momento di grande crisi economica interna. «È un errore vedere le cose isolatamente, staccate da un ampio raggio di questioni», dice Julien Barnes-Dacey, direttore per il Medio Oriente e il nord Africa del Consiglio europeo per le relazioni esterne, un think tank di riferimento per la politica estera europea: «Non si può capire quello che sta succedendo nel Mediterraneo tra Grecia, Francia e Turchia se non si tiene conto degli altri conflitti nell’area, in primis della questione libica. Ogni tentativo di risolvere un conflitto senza prendere in considerazione l’altro è destinato a fallire».
Di qui dunque l’iperattività francese in Libia, insieme all’Egitto, dalla parte del generale cirenaico Khalifa Haftar che, se non fosse stato per l’aiuto militare turco a Serraj, a quest’ora sarebbe arrivato a Tripoli. Ma Macron si muove anche in Libano, dove il presidente francese è stato il primo leader estero in visita, e poi in aiuto alla Grecia: la Turchia di Erdogan è considerata dalla Francia come una potenza in divenire, debordante nelle ambizioni e pericolosa nelle azioni. Perfino Berlino, la grande mediatrice tra Ankara e il resto d’Europa in virtù dei suoi interessi economici, comincia a nutrire delle perplessità, soprattutto sul ruolo turco all’interno della Nato.
«Forse bisognerebbe prendere atto che la Turchia dentro la Nato non ha più senso», sottolinea Sanguini: «La stessa Nato è ormai obsoleta». Ma una guerra navale nel Mediterraneo non conviene a nessuno degli attori protagonisti, e nemmeno a chi osserva da lontano e non vuole scompigli: gli Usa mirano a contenere l’espansione russa e cinese nel Mediterraneo mentre la Cina vuole continuare a tessere la sua Via della Seta. Dunque un accordo greco-turco sul Mediterraneo è inevitabile. Ma sui tempi, e sulla tenuta, nessuno è disposto a scommettere.