Senza una nuova legge elettorale la rappresentanza sarà stravolta. L’esponente Pd motiva la sua scelta

gianni cuperlo
La domanda è relativamente semplice: si può stravolgere l’equilibrio della rappresentanza per evitare alle destre di conquistare Palazzo Chigi? Se vogliamo andare al merito è giusto riconoscere che di questo stiamo parlando, di un taglio dei deputati e senatori operato con le cesoie senza un ridisegno del bicameralismo e motivato, come in anni passati è accaduto anche a sinistra, con la propaganda sui costi della politica. Intendiamoci, costi spesso scandalosi, ma figli di gestioni opache o peggio, vedasi da ultimo la parabola sui 49 milioni rateizzati alla Lega.

A questo metodo e modo di ragionare il Pd per tre volte si è opposto votando contro la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari avanzata a inizio legislatura dai 5 Stelle. Con ottime ragioni, spiegando che la democrazia non è mai solo un prezzo mentre se la logica si riduce allo spendere meno ci sarà sempre qualcuno che proporrà un risparmio più drastico. Poi è arrivato il Papeete, Salvini si è espulso da solo e noi del Pd siamo tornati al governo un anno dopo la peggiore sconfitta di sempre anticipata da un referendum malamente condotto e peggio ancora perduto.

Al tempo l’argomento decisivo è stato la tenuta dell’ordinamento democratico. Secondo molti andare alle urne avrebbe consegnato il paese a una destra reazionaria accreditata per la prima volta di numeri in grado di cucirsi addosso una Costituzione a misura. Un incubo. Si è scelta così la via della difesa della democrazia e il 5 settembre un altro esecutivo giurava nelle mani del Capo dello Stato. L’accordo muoveva da una premessa giudicata dai 5 Stelle pregiudiziale al resto, il varo della riforma costituzionale. In altre parole, senza quel presupposto ogni ipotesi di alleanza si spegneva prima di nascere. Da lì, con una scelta di responsabilità, il nostro disco verde a un cambio di posizione espresso nel quarto passaggio parlamentare della riforma. Se avessimo tenuto il punto avremmo precipitato davvero il Paese al voto? Forse anche no e può darsi che i toni alti di quei giorni fossero figli delle tensioni interne al movimento grillino. Resta che le cose hanno preso la piega che sappiamo, e aggiungo meno male alla luce di quanto è avvenuto dopo, nei mesi angoscianti della pandemia. Non voglio immaginare quale consuntivo avremmo commentato se al posto del governo di adesso vi fossero stati gli epigoni di Johnson, Trump e Bolsonaro.

La scelta, dunque, fu di cambiare posizione sul taglio di 345 parlamentari. Confesso che all’epoca nutrivo dei dubbi, non tanto e solo per la linea seguita in precedenza, ma perché ritenevo che l’esperienza ci avesse ammonito sul bisogno di affrontare le riforme costituzionali con un di più di sensibilità alle ricadute che soluzioni parziali o sbrigative possono determinare. Scagli la prima pietra chi in questo errore non è incorso, ma tanto più pensavo doveroso accompagnare al dialogo coi 5 Stelle una chiarezza sulle misure tese a garantire quell’equilibrio a tutela della rappresentanza che sino lì avevamo denunciato come assente.

In tal senso consideravo rilevanti aspetti che anticipavano persino la questione poi divenuta centrale della legge elettorale. Veniva da lì l’annuncio di altre due riforme costituzionali con l’abbassamento a 25 anni dell’elettorato passivo e a 18 di quello attivo per il Senato; il superamento della base regionale per l’elezione dello stesso; la riduzione da 3 a 2 dei delegati regionali tra i grandi elettori per il Quirinale. Aggiungo che si indicava come necessaria la modifica dei regolamenti parlamentari poiché diversi articoli fanno riferimento ai quorum previsti, a composizione di organi specifici e funzionamento dei lavori, alla verifica del numero legale sino alla richiesta di voto segreto e deposito delle mozioni. A questi elementi si sommava l’impegno per una nuova legge elettorale a tutela di interi territori altrimenti orfani di una propria rappresentanza e a garanzia che un parlamento ridotto nelle dimensioni non finisse con l’essere “nominato” da un gruppo di capi corrente e partito.

Come vogliamo definirle? Questioni marginali se rapportate al risparmio di 57 milioni l’anno, meno della famosa tazzina di caffè per italiano? Direi tutt’altro. Lo si capisce meglio ascoltando quel video rimbalzato sui social dove Mino Martinazzoli descrive l’omaggio di un biglietto per l’Incompiuta di Schubert offerto da un manager al suo capo del personale che la mattina dopo redige una nota dove spiega come i quattro oboe si potrebbero dimezzare, e così i violini, gli ottoni, gli archi. La conclusione era che se si fossero tali indicazioni i costi di gestione sarebbero risultati contenuti e l’opera non sarebbe stata terminata. C’entra con noi perché nessuno degli impegni sottoscritti un anno fa è stato sinora mantenuto, il che rende assai rischioso quel taglio con le cesoie: un po’ come dimezzare orchestra e spartiti della sinfonia.

Salvo contro indicazioni della Consulta voteremo il 20 settembre, un secolo e mezzo dopo Porta Pia, data simbolo dell’avvenuta unificazione. Se volete, legge del contrappasso, nel senso che cancellare un terzo della rappresentanza parlamentare senza i contrappesi dovuti suona come successo della divisione o disunità. Con l’aggravante di percentuali destinate a mutare il rapporto, almeno numerico: oggi per eleggere un deputato servono 96 mila cittadini, dopo la riforma ce ne vorrebbero 151 mila, il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea. Il punto è che ogni seria riforma dovrebbe arricchire il prestigio delle istituzioni, purtroppo a oggi l’impianto di questa riforma rischia di muovere in direzione opposta. Ecco perché le ragioni che un anno fa rendevano giustificato l’atto di responsabilità del Pd oggi paiono seriamente indebolite, e non per inadempienze nostre. Senza aver completato gli altri passaggi costituzionali, senza aver ragionato sui futuri regolamenti, senza una nuova legge elettorale, i pericoli per l’equilibrio di poteri e rappresentanza sono superiori ai benefici promessi a parole. Volendo essere più espliciti, temo che una pulsione antipolitica rischia una volta in più di prevalere mentre l’arte del rammendo è l’opposto delle forbici, vale per il territorio e vale per la democrazia. Oggi, dunque, si tratta di impedire che la rappresentanza possa finire soppiantata dalla rappresentazione, tanto più dopo la tragedia della pandemia e il messaggio giunto con chiarezza sul bisogno di una revisione del Titolo V nel rapporto tra Stato centrale, Regioni e Comuni, almeno se vogliamo evitare in futuro i limiti emersi in questi mesi drammatici. Forse, nelle condizioni date, la vera emergenza da affrontare.

Dicono esponenti di punta dei 5 Stelle che la scelta del No romperebbe gli accordi, sancirebbe la fine dell’esperienza di governo e forse della legislatura. Sugli accordi penso di aver detto. Quanto all’ipotesi che cada il governo, vorrei rassicurare nei limiti del possibile: sono dell’idea che non accadrebbe. Se una riforma gestita con scarsa lungimiranza venisse bloccata credo che quanti oggi sono al governo o siedono in Parlamento sentirebbero ancor di più la responsabilità di proseguire quell’azione che in questi mesi ha garantito la tenuta dell’Italia sui versanti più drammatici, quello sanitario e sociale. E allora, senza drammi, il 20 settembre ognuno sceglierà in piena coscienza e libertà. Per quanto mi riguarda è ciò che farò esprimendo un voto a difesa della Costituzione, di una corretta rappresentanza, di una buona politica.