Scuola, siamo gli ultimi in Europa: il confronto con gli altri Paesi è impietoso
Linee guida oscure e diffuse all’ultimo momento. nessun collegamento con i servizi territoriali. E il record di chiusura. I risultati del progetto di ricerca “Scuolacovid19” che monitora dall'inizio della crisi i documenti e le iniziative dei ministeri dell'istruzione di Italia, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna
Sono i numeri a rendere obbligatoria la concretezza. Appena si parla di istruzione pubblica, i piani passano dalle parole ai milioni: ogni mascherina sono tonnellate di mascherine, ogni disinfettante quintali di alcool, ogni test, milioni di tamponi. Qualsiasi promessa assume la presa di un kolossal. E vista la necessità, il valore, e il significato sociale della riapertura delle scuole, non c’è governo o amministrazione al mondo che non stia lottando in questi giorni con la logistica di massa dell’istruzione, per difendere i più giovani dalla segregazione e dalla disuguaglianza, per proiettare al futuro una generazione, per permettere ai genitori di poter organizzare il tempo della cura e quello del lavoro.
Il primo settembre un milione e 400mila bambini sono rientrati sui banchi a Wuhan. Nella città cinese epicentro della pandemia migliaia di bambini in divisa si sono seduti davanti ai quaderni senza l’obbligo, per la prima volta, di indossare maschere o visiere di plastica. La notizia è stata ripresa ovunque: una speranza mentre ancora pesa il cordoglio per gli 852mila morti di Covid nel mondo e i 25 milioni di casi tracciati. Soprattutto, nell’incertezza generale sull’evoluzione della malattia nei prossimi mesi. [[ge:rep-locali:espresso:285347027]] Cercando di gestire quest’incertezza, politici e amministratori stanno applicando nei diversi paesi strategie simili, ma con strumenti ed approcci molto diversi. Nell’infografica e nel progetto di ricerca che raccontiamo in queste pagine, “Scuolacovid19”, sviluppato dal dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico in collaborazione con il Comune di Milano, vengono messe a confronto le misure adottate da Italia, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Le autrici, Marta Cordini e Carlotta Caciagli, monitorano dall’inizio della crisi i documenti e le iniziative dei ministeri dell’istruzione nei diversi paesi. La prima variabile evidente è il tempo. È dove si concentra il primato negativo dell’Italia.
Da una parte per il ritardo nella pubblicazione delle linee guida - arrivate ad agosto, lasciando poco margine ai dirigenti per organizzarsi, rispetto a paesi come la Spagna che già a maggio sono state date indicazioni sulla riapertura. Dall’altra il numero di giorni di chiusura totale delle classi in presenza. Nessuno studente europeo è stato lasciato da solo (seppur seguito, quando è stato possibile, alla didattica online) così a lungo. La perdita in termini di relazione, competenze, e sviluppo, sarà una parete immensa da scalare. Il calendario scolastico standard, si dirà, e le misure di contenimento del contagio, non hanno permesso di fare diversamente - che senso avrebbe avuto riportare milioni di bambini in classe per poche settimane? Ma la risposta dovrebbe essere altrettanto semplice: nella straordinarietà della sfida posta dalla pandemia, intere filiere e settori si sono riorganizzati per rispondere all’emergenza. Mettere al centro i bisogni dei bambini significa farlo anche con l’insegnamento.
In Gran Bretagna i ragazzi sono potuti uscire di casa con lo zaino il 2 giugno. In Spagna, un Paese che ha dovuto superare ostacoli sanitari simili all’Italia, molte aule hanno riaperto il 2 maggio, anche per dare supporto alle famiglie in difficoltà. In Italia la data “unica” del 14 settembre invece, per primarie e secondarie, potrebbe slittare ulteriormente in diverse regioni, per la concomitanza con il voto amministrativo e referendario. Il silenzio educativo rischia di allungarsi ancora. Sull’interruzione di questo silenzio il sindaco di New York Bill de Blasio ad esempio ha scommesso molto. Il Municipio stava facendo il possibile per riaprire il 10 settembre, riportando 1 milione e 100mila alunni in classe, 75mila insegnanti e migliaia di operatori scolastici. «Ho il dovere di supportare le comunità, soprattutto quelle a basso reddito», spiegava il sindaco, le comunità cioè dove le conseguenze della chiusura sono più gravi sia in termini di vuoto formativo per gli adolescenti che di impossibilità di lavorare per i genitori. La prospettiva sono banchi separati, classi anche di soli nove o dieci studenti, con soltanto gli insegnanti obbligati a indossare la mascherina. La data del 10 è però scivolata via dopo giorni di dure trattative, per l’opposizione dei sindacati degli insegnanti pronti a minacciare uno sciopero generale.
Ad aver già ripreso le lezioni invece è la Germania. Prima dell’estate, le scuole tedesche avevano applicato un modello ibrido, fra part-time, lezioni in presenza e insegnamenti a distanza, con gruppi classe molto ristretti e spazi ampi; l’Italia ha sperimentato un modello simile durante i centri estivi con le “bolle”, piccole coorti di bambini, isolabili in caso di un test positivo. Il nuovo rientro a Berlino è stato invece alla vecchia maniera: sono tornati in classe tutti gli studenti e i docenti, con maggiore vigilanza negli spostamenti e nelle aree comuni ma senza ulteriori filtri alla frequentazione. «Una strategia in parte radicata in un problema di risorse: come molti Paesi, anche la Germania ha troppo pochi docenti per dividere gli alunni in gruppi più piccoli e permettere il distanziamento sociale», nota il New York Times, raccontando la riapertura di una secondaria di Berlino dove due giorni dopo la prima campanella una ragazza è stata trovata positiva al Coronavirus, portando il preside a rimandare a casa tutti i suoi 31 compagni di classe. Era un mercoledì. Il giovedì sono stati sottoposti tutti al tampone. Il giorno dopo sono arrivati i risultati: negativi, tutti. Lunedì ogni bambino è tornato in aula. L’esempio delle nuove aperture in Germania sembra chiaro: infezioni individuali possono essere inevitabili, senza causare però un allarme generale. Attraverso tamponi immediati e quarantene specifiche si possono riuscire a impedire focolai o nuove lunghe chiusure.
Nelle scuole della città di Berlino sono stati rintracciati 49 positivi, fra studenti e insegnanti. Grazie al sistema di contenimento non più di 600 alunni su 366mila sono dovuti stare a casa un giorno, in 39 scuole su 803. Il rischio zero non esiste, in un contesto epidemico. È inutile pensarlo. Ma la minaccia si può e si deve gestire. La sostenibilità del sistema si fonda specialmente sulla velocità delle risposte. E i test. Non però i test sierologici, di cui il commissario Domenico Arcuri ha ordinato 2 milioni di kit alla Abbott Diagnostic per gli operatori scolastici. No: a servire, per il contenimento del contagio, sono i tamponi che rintracciano l’Rna virale nelle vie respiratorie. Uno studio pubblicato su Lancet il 3 agosto che analizza diverse proiezioni in merito alla riapertura delle classi in Gran Bretagna ha ribadito che unicamente aumentando i tamponi, tracciando i contatti, e isolando i positivi, si può evitare il rischio di una seconda ondata fra dicembre e febbraio. I sierologici non servono allo scopo; è necessaria invece l’attivazione veloce dei dipartimenti di prevenzione, e bisogna immaginarsi una scuola flessibile, pronta a reagire ai salti di un eventuale isolamento, oppure di una frequentazione intermittente. «Proprio quello che sembra mancare ora in Italia», riflette Gianni Vinciguerra direttore di Tuttoscuola: «Si è scelto di puntare in maniera rigida al ritorno a scuola “normale”, senza concentrarsi abbastanza sulle soluzione di backup, che sappiano essere flessibili sia rispetto all’eventualmente isolamento di una classe sia nei confronti dei singoli studenti che per condizioni fragili non potranno comunque partecipare in presenza. In questo la didattica a distanza non va demonizzata ma messa a servizio positivamente».
Marta Cordini, del progetto “Scuolacovid19”, sottolinea altri due elementi che emergono chiaramente dal confronto internazionale: «L’importanza di una comunicazione efficiente, chiara e non frammentaria, innanzitutto. Io non so il norvegese, ma sul sito del ministero di Oslo in pochi secondi sono riuscita a trovare la sezione dedicata all’emergenza, con tutti i documenti ufficiali necessari, spesso tradotti in inglese», racconta. «Da noi la maggior parte delle informazioni passano indirettamente. Le linee guida arrivate ad agosto sono molto accurate, giuridicamente, ma non sono di facile fruizione, per gli operatori o per i genitori che devono orientarsi per necessità». Informare in modo chiaro invece è fondamentale. Così come garantire la formazione dei docenti e del personale scolastico: in Italia è stata resa disponibile dal 28 agosto al 31 dicembre 2020...
Soprattutto, ricorda Cordini, bisogna ragionare in termini di territorio, e non di singolo istituto: «In tutti i paesi europei abbiamo ritrovato un forte accento sul fatto che per rendere fruibili le scuole, in questo momento, è cruciale il ponte con i servizi territoriali, pubblici, privati o volontari. È questa coesione che può rendere possibile l’anno. Da noi si fa qualche accenno ai “patti di comunità”, ma sembra mancare ancora una sostanza». Delle prime strade sono indicate. Ora si tratta di provarla sul serio.