Adesso si fa sul serio. Dopo la mezza pantomima della riforma del catasto da qui al 2026, inutile per i fondi del Pnrr e non richiesta dall’Ue, le tensioni interne al governo sono destinate a esplodere con il piatto forte. Il disegno di legge sulla concorrenza metterà a dura prova la coalizione “Arlecchino” con una serie di norme che riguardano gran parte del sistema produttivo, dalle centrali idroelettriche ai trasporti pubblici, dalle farmacie ai concorsi da primario, dai trasporti pubblici alla sanità in convenzione regionale, dai porti agli stabilimenti balneari, dai rifiuti alle colonnine per le auto a batteria.
Questo, almeno, è il programma massimalista perché non tutto finirà nel decreto imminente. Anche le probabilità di rottura tra le forze dell’esecutivo sono basse di fronte a un argomento sommamente persuasivo come i soldi del Recovery fund. Ma molte forze politiche, Lega in testa, faticheranno a propinare all’elettorato di riferimento cambiamenti tanto indigesti quanto indispensabili per ottenere il sostegno dei finanziamenti europei.
Quanto sia spinoso l’argomento lo dice già una breve cronistoria. La legge sulla concorrenza debutta nel 2009, riaffiora nel 2015 e viene approvata nel 2017 con il numero di serie 124 e la dicitura “annuale” smentita dai quattro anni successivi durante i quali non accade nulla, se non proroghe anti-liberalizzazione favorite dalla pandemia.
A marzo di quest’anno l’Agcm, l’autorità per la concorrenza e il mercato presieduta da Roberto Rustichelli, invia al premier Mario Draghi un papello di 105 pagine ricco di segnalazioni operative. Il 3 giugno successivo, la Conferenza delle regioni guidata dal leghista Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia, integra la nota con un documento di altre 26 paginette. Tutto è pronto per dare al governo la delega necessaria a chiudere la partita entro il 31 luglio. Ma siamo in piena stagione balneare e i balneari sono appunto una delle categorie minacciate dal decreto.
Roberto Rustichelli
Così il presidente del Consiglio opta per un primo spostamento a settembre dettato da ragioni di opportunità. A settembre, tutto d’un tratto, si scopre che il 3 ottobre dodici milioni di italiani, pari a un quarto del corpo elettorale, vanno a votare. Segue una nuova proroga.
Chiuso il capitolo amministrative, si è parlato di fine ottobre. Ma il termine ultimo per portare a casa il ddl Concorrenza è fine anno ed è questa la scadenza alla quale punta Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi, ex Mit come Draghi, che ha dedicato buona parte della vita accademica e pubblicistica a combattere i piccoli e non così piccoli monopoli.
Francesco Giavazzi
Il Gran Visir di palazzo Chigi ha un’agenda di fine anno alquanto carica tanto che il suo commento alla richiesta di delucidazioni dell’Espresso è davvero laconico. «Sono in mezzo alla legge di bilancio», dichiara l’economista bergamasco.
Il contraltare di Giavazzi sul tema concorrenza è il varesino Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo economico e regista modello Jorginho di una “Lega per Salvini premier” il cui Capitano non solo è reduce da ripetuti infortuni di gioco ma certamente non ama interessarsi delle scartoffie tecniche in uscita dalle commissioni parlamentari. I mal di pancia non sono appannaggio esclusivo della Lega. Il ddl Concorrenza può scontentare i partiti in modo trasversale e coinvolgere presidenti regionali di ogni colore, per esempio sulla partita del trasporto pubblico. La questione del cui prodest è complessa. Nel pendolo del liberismo l’eterogenesi dei fini regna sovrana e, in spiaggia o all’ombra delle dighe, le lobby da tempo agitano lo spauracchio dell’invasione del monopolista straniero ai danni del piccolo e medio imprenditore italico.
Le concessioni balneari sono un esempio classico. La lista dei difensori dello status quo è guidata da una pattuglia leghista di cui fanno parte Massimo Garavaglia, ministro del turismo, e il sottosegretario all’agricoltura Gian Marco Centinaio, lumbard con un piede nelle acque del Ponente ligure, per la precisione a Spotorno dove è appena stato rieletto sindaco il candidato del fronte opposto a quello di Centinaio. Ma ci sono anche la viareggina Deborah Bergamini e il collega forzista Maurizio Gasparri nonché il deputato democrat Umberto Buratti da Forte dei Marmi, altra capitale toscana dell’imprenditoria balneare. A tagliare il nodo dovrebbe essere l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato convocata per il prossimo 20 ottobre e che potrebbe fare giurisprudenza per altri settori interessati dal dilemma gara o non gara.
L’eterna contrapposizione fra mercato e difesa dell’italianità riemerge in modo paradossale nella vicenda degli impianti idroelettrici, spartiti fra la competenza del Mit (infrastrutture) di Enrico Giovannini sulle dighe e il Mite (transizione ecologica) di Roberto Cingolani per i titoli concessori. Come in spiaggia, la precedenza agli italiani è sventolata dalla Lega che, come in spiaggia, non è contraria alle gare purché le vincano i campioni uscenti. Dato che la maggioranza dei bacini idroelettrici si trova al nord, la speranza leghista è di perpetuare la gestione delle dighe da parte di enti locali a guida salviniana per mantenere florido il consenso e ben rifornito il poltronificio.
«È una politica miope», dice Paolo Taglioli, rappresentante di Assoidroelettrica, che raccoglie il 40 per cento delle imprese del settore. «Con il decreto Semplificazioni del 2018 Matteo Salvini ha regionalizzato le dighe con un esproprio di patrimonio statale a favore di territori già ricchi. Ma negli altri paesi Ue le concessioni durano 60-90 anni e da noi 15-30. Che faremo quando i giganti come Edf, cioè lo Stato francese, offriranno prezzi fuori mercato per le centrali italiane? Chi investirà quasi 2 miliardi nella manutenzione di impianti in alcuni casi molto vecchi senza una prospettiva concessoria lunga? Ed è il caso di giocarsi le fonti di energia nel momento in cui Russia e Cina fanno leva sui prezzi del gas?».
Sul tema delle fonti rinnovabili, il ddl Concorrenza deve affrontare anche la questione delle auto elettriche. In ossequio alla modernità, l’ad di Enel X Francesco Venturini, ha scelto i social, in questo caso Linkedin, per una sparata che ribadisce osservazioni già fatte a convegni di scarsa risonanza. Sul tema delle colonnine per le auto ad alimentazione elettrica, il manager ha sostenuto che l’Italia è il «paese del bla-bla». Venturini ha citato l’obbligo di installare colonnine sulle autostrade entro giugno 2021, imposto alle concessionarie dalla legge di bilancio dell’anno scorso e disatteso. Ha poi criticato l’immobilismo dell’Art, l’autorità che regola i trasporti, che si è presa fino a febbraio 2022 per studiare la questione, e lo scaricabarile dell’Aiscat, l’associazione fra concessionari autostradali che a sua volta sta cadendo a pezzi dopo l’esonero di Fabrizio Palenzona da parte del numero uno di Confindustria Carlo Bonomi e l’uscita dal consesso di Beniamino Gavio, Carlo Toto e Matterino Dogliani, rispettivamente numero due, tre e quattro dei concessionari nazionali, irritati dal dirigismo di Autostrade per l’Italia (Aspi) in versione Cdp.
Ultimo bersaglio del manager del gruppo Enel è il ministero delle Infrastrutture, come si chiamava prima di essere ribattezzato ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili. Secondo Venturini, anche il Mit ha fatto orecchie da mercante con il risultato che la disponibilità di rifornimento elettrico in autostrada è rimasta al palo e, da un certo chilometraggio in su, è meglio avere un motore ibrido se non si vuole accostare in piazzola di emergenza.
A dire il vero, Giovannini e la sua struttura non sono meno oberati di Giavazzi. Molti temi del ddl Concorrenza 2021 e di quelli futuri vanno a spiovere direttamente sul Mit.
L’antitrust ha puntato l’indice contro il ricorso eccessivo all’in-house in alcuni settori come quello del trasporto pubblico, dove le amministrazioni locali si sono attenute per lo più al modello della vecchia municipalizzata con rare, e non sempre fortunate, aperture al mercato. Gli operatori privati rimangono però residuali secondo la Corte dei conti che ha stimato le concessioni in-house a quota 93 per cento del settore a livello nazionale.
In più gli interventi vanno modulati caso per caso. È evidente che l’Atm a Milano presenta un quadro ben diverso dal disastro dell’Atac a Roma. Proprio per questo il capitolo del trasporto pubblico dovrebbe essere rinviato quanto meno al ddl Concorrenza dell’anno venturo o più avanti, mentre a breve è possibile che torni d’attualità una poltrona ministeriale specifica come quella ipotizzata a marzo per l’assessore milanese Pierfrancesco Maran, bloccato dalla Lega. Un rinvio è possibile anche per le tematiche della sanità che spaziano dai farmaci ai concorsi per i primari fino alle prestazioni in convenzione con le regioni che hanno arricchito i gruppi privati per anni senza il fastidio di passare per una gara.
Nonostante le indicazioni dell’Agcm e della Commissione europea, l’affidamento “in-house” da ente pubblico a società pubblica potrebbe conoscere un revival inaspettato in altri settori come i porti, che ancora dipendono da procedure del codice di navigazione risalenti al 1942, e le autostrade, dove il ddl Concorrenza è parzialmente in conflitto con il decreto Infrastrutture, destinato alla conversione in legge entro poco meno di un mese. Il crollo del ponte Morandi a Genova ha riportato Autostrade per l’Italia e le sue concessioni sotto controllo in parte pubblico del consorzio fra Cdp, Blackstone e Macquarie, con l’accordo firmato lo scorso giugno. Dietro il trauma del 14 agosto 2018 ci sono altre concessioni autostradali in scadenza che potrebbero seguire la stessa strada e finire sotto l’ombrello statale come Sat (Aspi), Salt (gruppo Gavio-Ardian) e Autoparchi (gruppo Toto).
Sarebbe un bell’esempio di tela di Penelope, senza dimenticare che gran parte della partita sul Pnrr si gioca proprio sulle grandi opere. Anche qui c’è una scadenza a breve. Dopo la comunicazione di messa in mora spedita da Bruxelles il 23 settembre l’Italia ha due mesi di tempo per rispondere alle contestazioni sulla proroga delle concessioni autostradali senza gara. Altrimenti scatterà una procedura d’infrazione.