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Attualità
ottobre, 2021

Il primo colpo per il Salvini dimezzato: non tocca palla nella partita del Colle

Il leghista non ha strategia e non ha più la presa nella Lega e nel centrodestra: lui ha investito tutto in campagna elettorale, gli altri - da Giorgetti ai presidenti regionali – hanno pensato al futuro: come portare Mario Draghi al Quirinale

Sembra che Matteo Salvini si muova in differita. Sta sempre nell’episodio precedente. Gli succede da un paio di anni e non ha trovato rimedio. Non un buon presagio a quattro mesi dalla successione di Sergio Mattarella al Quirinale.

Di giorno promette Matteo, di sera replica Salvini. Una doppia personalità per un capo dimezzato. Si corregge, si rinnega e si smentisce con abnegazione. Ha provato persino a raddrizzarsi con la cura Mario Draghi, europeista, moderato, conciliante, ma non riesce a tenersi dritto. Un Luca Bernardo a Milano, un Enrico Michetti a Roma, un Luca Morisi in cascina, ogni evento lo manda giù. Il tempo va troppo veloce per aspettare la sua versione definitiva. Il voto per il presidente della Repubblica non ammette ritardi. E stavolta chi è in ritardo si perde la prossima epoca, non il prossimo settennato.


Adesso Salvini è ininfluente per il Quirinale. Non manca il potere, manca una strategia. La stessa Giorgia Meloni, alleata incostante e tormento costante di Matteo, ha capito che il Colle sarà l’epitaffio del centrodestra, o destracentro, meglio, fin qui conosciuto (peraltro già anticipato con la batosta nelle urne). E l’inamidato Antonio Tajani, cravatta azzurro cielo sopra Berlino, il promotore della federazione di Forza Italia con la Lega ex Nord, pronto a consegnare le spoglie di Forza Italia e pure la villa di Arcore con dentro Silvio Berlusconi, è sgomento dinanzi alle esitazioni di Salvini. Però il resto della Lega, un resto consistente nel partito monolitico e non monocorde, i soliti governatori e l’astuto Giorgetti, ha avviato la macchina. Se si inceppa, chi lo sa. Al momento c’è l’ambizione: guidare le operazioni per il Quirinale a gennaio e determinare la legislatura che scade l’anno dopo e, soprattutto, non subìre i futuri equilibri politici. Più edibile: non farsi fregare.


Perciò Giorgetti e i governatori spronano (scudisciano, suona male, però appare più appropriato) Salvini: deve sbrigarsi a intestarsi il governo Draghi, il trasloco di Draghi e le sue inesorabili conseguenze.


Allora ai leghisti viene in mente un aneddoto del 13 maggio ’99. Quel giorno a palazzo Montecitorio erano riuniti i 1.010 grandi elettori per scegliere il capo dello Stato dopo il mandato di Oscar Luigi Scalfaro. Luciano Violante, il presidente della Camera, stava per completare il primo scrutinio. I catafalchi scuri avevano le tendine ancora sbilenche. C’era la diretta televisiva. Carlo Azeglio Ciampi osservava la farraginosa liturgia parlamentare nel suo studio da ministro del Tesoro in via XX Settembre a Roma. Con il ministro di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, già presidente del Consiglio e governatore di Bankitalia, c’era soltanto il direttore generale del ministero: il cinquantenne Mario Draghi. Ciampi pretendeva un consenso ampio e voleva l’investitura al primo tentativo, così preparò con Draghi un comunicato per le agenzie: «La mia candidatura ha senso solo se si appoggia su una maggioranza larga, ma se cominciano i franchi tiratori, faccio un passo indietro». Ciampi fu eletto con 707 voti su 1010, 33 più del necessario per ottenere i due terzi della platea.

 

A quasi un quarto di secolo da quel 13 maggio ’99, ora tocca a Draghi e anche Draghi, come il suo ministro Ciampi, ha bisogno di una «candidatura che si appoggi su una maggioranza larga», secondo Giorgetti e i leghisti. Nel ’99 il disegno di Ciampi si avverò perché ci fu una convergenza, con la Lega di Umberto Bossi isolata, fra Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, gli ex comunisti e il maccartista di Arcore. Oggi è assai più complicato. Anche se Salvini fosse d’accordo con sé stesso, non saprebbe da dove iniziare, cosa proporre, a chi telefonare. È uno spettatore indolente del Quirinale. Nei 5 Stelle non ha più un riferimento, Giuseppe Conte lo dileggia con piacere, ma il ministro Luigi Di Maio ha eccellenti rapporti con Giorgetti. In Forza Italia ha consuetudine con Tajani, ma è tornato in auge Gianni Letta. Italia Viva si dimena in cerca di un porto sicuro, ma quando Salvini fa la voce truce li spaventa (Ettore Rosato, il vice Renzi, la settimana scorsa, ha forzato il cerimoniale per sedersi accanto a Giorgetti a un convegno a Trieste). Non è né commissariato né detronizzato: Salvini è esautorato per il Colle. Questo è indubbiamente tremendo per un leader. Appena se ne accorgerà.

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