Disegna tram, Davide Livermore. Sinuosi, eleganti tram vintage, che sbucano sotto la Lanterna di Genova o che oltrepassano l’Arco della Pace di Milano. Tram dipinti di arancione, o di verde come quelli storici in legno di Torino. Tram che sfidano le onde e le correnti come dentro un film di Miyazaki, e galleggiano su un mare che vomita squali arpionati a morte.
«Ho sempre disegnato, è la cosa che mi dà più gioia nella vita, da bambino il mio gioco preferito era disegnare cavalli e ritagliarli. Quei cavalli di carta prendevano vita tra le mie mani, e il pavimento era il più bell’ippodromo in cui mi potessi trovare».
Tra i cavalli Davide Livermore è cresciuto: i suoi antenati erano fantini di Newmarket, approdati dall’Inghilterra a Pisa svernando insieme con le loro scuderie. La contea di Suffolk, ancora oggi capitale mondiale dell’ippica, e nomi come Ascot nel Birkshire, o Longchamp nel Bois de Boulogne, sono luoghi che a evocarli lo spediscono dritto dentro la sua infanzia. «I tram, però, oggi mi piacciono più di ogni altra cosa. Durante la pandemia ne ho disegnati molti: c’è qualcosa di ancestrale nel loro muoversi sulle rotaie». Un andamento più lento rispetto al tempo vorticoso che vede oggi Livermore, regista d’opera e di prosa di fama internazionale, direttore del Teatro Nazionale di Genova, protagonista assoluto dei palcoscenici, e in movimento continuo per spettacoli-evento: sia che si tratti di rileggere una tragedia classica – “Elena” immersa nell’acqua come una naufraga contemporanea o le “Coefore-Eumenidi” rappresentate al teatro greco di Siracusa come apologia di una giustizia che continua a essere bistrattata dagli uomini - sia che ambienti “La traviata” nel maggio francese, e conquisti il pubblico accostando Violetta a Belle de jour di Luis Buñuel.
Tra opere rock, strappi alla tradizione, linguaggi crossover e racconti in cui storia e presente si mescolano, l’obiettivo è trascendere il tempo, allargare gli spazi, mettere in scena l’uomo: di sempre. Prossimo impegno, per la quarta volta consecutiva, l’evento più irresistibile, sognato, vivisezionato del teatro italiano: l’apertura della stagione della Scala. Livermore affronta “Macbeth”, diretta da Riccardo Chailly, musica di Giuseppe Verdi, narrazione di Shakespeare, con la volontà di sempre: usare il teatro per creare ponti, far crescere una comunità, nella bellezza.
Attento, critico: se c’è un pubblico vitalissimo oggi è quello del teatro. Che spettatori ha ritrovato dopo le chiusure?
«Il pubblico abituato a frequentare i teatri è tornato con grande voglia di stare insieme. Quello che non ho trovato è il pubblico ancora da conquistare: è questa la vera sfida. Di fronte a uno spettacolo, di prosa o di lirica, può esserci anche una sola persona a teatro per la prima volta. E quella persona deve ritornarci: è una responsabilità che sento forte. Se sono un sedicenne e vado a vedere la Maratona teatrale del G8 che si è svolta a Genova, e che mi parla di qualcosa che non ho potuto vivere, il teatro deve restituirmi la memoria e portarmi dentro la storia attraverso le emozioni. Mi piace pensare che il pubblico abbia voglia di emanciparsi dalla politica per sentire la propria possibilità politica. Il proprio ruolo politico, nell’agorà».
Un pubblico non connotato politicamente?
«Mi piacerebbe che ci fosse un’unica grande ideologia: cos’è nella legge, cos’è fuori dalla legge. È nella legge essere fascisti? No. È fuorilegge fare atti vandalici contro la sede di un sindacato? Sì. Ecco: vorrei un pubblico eterogeneo dal punto di vista politico, consapevole che l’educazione dell’anima, anche attraverso il teatro, porti dentro la nostra meravigliosa Costituzione».
Il teatro è di tutti, ripete. Sente responsabilità verso chi è a teatro per la prima volta. Sostiene con convinzione il ruolo di promozione sociale del teatro. Ma ora sta per affrontare il pubblico della Scala: habitué, nel massimo dell’esibizionismo.
«Aspetti: alla prima della Scala ci sono almeno tre milioni di spettatori. Per me è una grandissima partita televisiva. Io voglio che la prima della Scala sia il top del glamour, lo amo. Ma non la considero una contraddizione con ciò in cui credo. Sono un uomo di sinistra, anzi, guardi a sinistra, vede un puntino in fondo ancora più a sinistra? Quello sono io. Eppure la prima della Scala, 3000 euro la poltrona, consente di andare in mondovisione. E questo vuol dire che nelle case entra la bellezza di un’Italia intera. È un volano straordinario anche all’estero la prima della Scala. Ho in mente le contestazioni, il lancio delle uova nei primi anni Settanta. Ma so anche che oggi è tutto più complesso: non posso uscire fuori, dire «compagni» e ritrovarmi col pubblico che applaude, non siamo più nella società di Chiesa e di Squarzina. Per questo fare teatro di memoria è più difficile. La prima della Scala è un momento concreto nel quale si parla di cultura per tutti, e questa cultura entra nelle case italiane e straniere. Tenga conto che ci sono biglietti anche a 50 euro. È ancora troppo? E quanto costa un concerto pop? Vogliamo vedere quante persone, quanti operai dell’arte lavorano su quel palcoscenico?».
La cultura va pagata, indubbiamente. Ma gli ostacoli per accedervi vanno rimossi.
«Certo. Ma io sento di aver vinto la mia partita sin dalla prima inaugurazione, che ha visto più che raddoppiare l’ascolto rispetto all’opera precedente. Siamo arrivati a 2 milioni di spettatori con “Attila” e abbiamo battuto il record della storia della Rai con “Tosca”, seguita da oltre 3 milioni di persone. Cercando di fare uno spettacolo straordinario per chi è in sala ma anche per le persone a casa».
Il teatro è un volano per l’Italia. Ma si può oggi parlare ancora di una via teatrale italiana, riconoscibile all’estero?
«No, non credo. Anche se chi denigra il nostro teatro dice che c’è, ed è puramente estetica. Ma è un fatto che, riguardo alla bellezza, siamo privilegiati in confronto ad altri. Io sono nato in periferia a Torino, non davanti a un duomo medievale in Toscana, però nessuno ha dovuto insegnarmi la differenza tra gotico e romanico: alziamo gli occhi e siamo proiettati in una bellezza che porta a un certo tipo di narrazione. È semmai la ricerca di bellezza che ci descrive».
Lei viene da una famiglia di fantini...
«E ho ancora una passione sfrenata per i cavalli. Frequento gli ippodromi, e quando sono lì torno ai miei sette anni, con mio padre e mio nonno, e so che per due euro quel cavallo è mio, come fosse per sempre».
Con due euro non gioca certo d’azzardo, ma ha il senso della scommessa?
«No, zero. È poter scegliere il cavallo che mi piace, sentirmi tutt’uno con lui. Perché so che il cavallo in quel momento pensa di fare l’ultima cosa possibile nella sua vita e dà tutto se stesso. Con eleganza, classe, rigore: i cavalli sono dei, non riesco a considerarli solo animali. Ci riportano a canoni estetici più alti di quelli che le nostre fragilità riescono a concepire. E non è un gesto atletico il loro, è grazia, potenza. Andare all’ippodromo è assistere alla bellezza incarnata, al coraggio di un uomo che va a 70 all’ora e spinge un essere senziente a fare di più, in equilibrio su due pezzetti di alluminio. L’ippica è arte».
Lei voleva fare esattamente ciò che fa?
«In realtà, sono rimasto profondamente sorpreso dalla vita. Ho sempre avuto la fortuna di trovare persone che hanno visto in me quello che io ancora non vedevo, in primis Carlo Majer. In questi giorni sto leggendo il racconto delle sedute spiritiche che Victor Hugo faceva nell’isola di Jersey, in cerca di un contatto con la figlia. Io non pratico niente di tutto ciò, mi piace solo leggere libri che mi emozionano. In quel testo, le anime dicono: «Noi siamo qui per fare il lavoro». Fare il lavoro vuol dire affinare l’anima, vedere, capire. E io faccio questo lavoro grazie a chi ha saputo guardarmi e mi ha aiutato a prendere coscienza del mio valore. L’unica cosa che come essere umani possiamo produrre è valore. Oggi io voglio crearne per chi mi sta intorno. Valore, per me, vuol dire qualità della vita, sogno, obiettivi e ambizioni comuni realizzati. Tutto quello che ho fatto è frutto di studio, di talento ma anche di questo dono».
Ancora una volta distinguere tra dote e talento è fondamentale.
«La dote è ciò che ti ha dato la natura, il talento come dice Arnold Schönberg è la capacità di imparare. Ed è un’idea che ci riporta a una responsabilità ben precisa: allo studio, al coraggio. Il coraggio è quello di entrare in terre poco conosciute. Fare un esercizio straordinario e faticoso è rinunciare a dire: io sono fatto così. Io non penso più a che cosa mi piaccia e cosa no. Da regista voglio raccontare una storia, e per farlo sono tenuto a conoscere chi l’ha raccontata per prima, chi l’ha immaginata, per chi l’ha scritta, in che società. E poi tradurre tutto nella contemporaneità. Se io in partenza mi dico: sono fatto così, mi conosco, non lo farò mai, non arriverò da nessuna parte».
Lei può dire di conoscersi?
«Io non mi conosco mai. Anzi, voglio sempre sorprendermi un po’».
Dove trova fonti di sorpresa? O come nutre la sua fantasia?
«Ci sono ricerche dentro di me che continuano a viaggiare. Un giorno ho scoperto quanta musica di Purcell ci fosse nella musica dei Beatles, e ho riflettuto a lungo sul fatto che la storia non vada avanti in linea retta, continua. La storia, e le buone idee, sono come fiumi carsici che scendono sottoterra e poi, d’improvviso, riaffiorano. Una cosa che mi dà nutrimento è stare completamente fuori dalla zona di comfort. Che vuol dire amare profondamente quello che ho di fronte e dedicarmi ad esso per quello che è, cioè il lavoro più importante che posso fare oggi. Senza giudizio, ripeto: mi piace, non mi piace non può far parte del lavoro dell’artista. Devo tirare fuori dalle comodità gli attori, devo interpretare e far rivivere l’emozione degli autori. Quell’accordo di Verdi, ad esempio: se sono sicuro che il musicista piangesse, eseguendolo al pianoforte, devo applicarmi perché l’emozione arrivi al pubblico, oggi. Il narcisismo dell’artista deve essere a disposizione di qualcosa di più grande».
Quindi se le chiedessi qual è l’opera che ama di più…
«Le risponderei la prossima».
Al teatro di Genova ha scandito i suoi principi di lavoro: raccontare la contemporaneità, trasmettere la memoria, praticare la bellezza, creare comunità. Lei ne ha una che ricorre nei suoi spettacoli.
«Gianluca Falaschi, Paolo Gep Cucco di D-wok, Cristiana Picco dello studio Giò Forma, Antonio Castro alle luci... siamo accomunati dallo stesso desiderio: giocare a fare il teatro per davvero. Il luogo scenico è sperimentazione, e lavorare insieme è metterci in difficoltà per tirare fuori il meglio di noi. È bellissimo giocare ai pirati con loro: sbuchiamo dal nulla, assaltiamo il galeone spagnolo, e ce ne andiamo».
Mentre il pubblico resta nell’incantesimo: commosso, turbato, grato. Livermore, che rapporto ha col tempo che passa?
«Adesso tocca uno degli aspetti più dolorosi della mia vita. Nello scorrere del tempo mi gioco una parte probabilmente irrisolta della mia esistenza, di uno che vorrebbe fare tante, troppe cose ancora. A volte mi danno del multitasking. In realtà, penso di essere solo un ragazzino che crede di poter fare tutto grazie alla passione. Così mi carico di impegni che assolvo, però a scapito del tempo per me. Il tempo per me diventa il tempo del lavoro, quindi non è più mio. E mi manca».
Ero curiosa esattamente di questo: dietro ai risultati che rinunce ci sono, cosa si lascia indietro?
«Si perde la vita. Ma non vedo alternative. È un po’ come lo squalo dei miei disegni, glielo faccio vedere. Per fermarmi devo morire, non ho scelta».
E se viaggiasse più lento, su un tram?
«Non si può. Il tram siamo tutti noi. Perché è lo strumento di viaggio e di memoria collettiva più bello e ancestrale che io conosca».
Voglio fare la rivoluzione con il teatro, ha detto un tempo: ne vale ancora la pena?
«Sì, e continuo a farla riaffermando l’importanza del teatro per una società. Che questa idea passi attraverso me o attraverso un altro artista poco conta: l’importante è che vinca il teatro».