Detenuto al 41 bis nella struttura modello di Sassari, il boss mafioso ha scelto la totale solitudine. Gioca a carte e prova a fingersi pazzo. Sperando nella fine dell’ergastolo ostativo

Come una iena che fiuta la preda e scatta di colpo per afferrarla. E quando non ci riesce ulula, sbraita e inveisce usando lo slang del mafioso corleonese. La iena è Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, stragista, autore di centinaia di omicidi, donne e bambini compresi. Trascorre il suo tempo nella sezione detenuti al 41 bis del carcere Bancali di Sassari. Ogni volta che annusa nel corridoio davanti all’ingresso della sua cella una presenza estranea si lancia verso la porta blindata e inizia a urlare parole offensive, cariche di odio. Lancia oggetti contro il muro in segno di protesta. O di ribellione. Una scena isterica che dura qualche minuto. Poi torna ad essere calmo e fermo.

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Oggi trascorre l’ora d’aria da solo (ne fa tre ore al giorno), in una stanza in cui ha a disposizione una cyclette, un vogatore e un tavolo. Lui, fisico asciutto, alto poco meno di un metro e settanta, con il cappello nero di lana calato fin sopra gli occhi, se ne sta seduto al tavolo con le carte siciliane in mano a giocare al solitario, quello a piramide. Vuole restare da solo nell’ora d’aria e non vuole compagnia durante il passeggio. Non vuole stare con nessun altro detenuto. È un lupo solitario. Perennemente alterato. Pubblicamente ha parlato pochissime volte, si possono contare sulle dita di una mano le occasioni in cui ha aperto bocca. Una di quelle volte, forse l’ultima, è avvenuta qualche anno fa durante un processo per omicidio in cui era imputato a Palermo. Lo ricordo bene quel giorno. Bagarella attraverso il videocollegamento ha chiesto la parola durante il dibattimento e mi ha vomitato addosso il suo odio. Mi ha puntato il dito contro, pubblicamente, per contestare alcune storie di mafia che avevo scritto. Il boss, nonostante il 41bis, era riuscito a conoscere l’autore delle notizie riprese dai canali d’informazione e non ci ha pensato un attimo a minacciarmi. I giornalisti gli sono sempre stati antipatici e lui lo ha mostrato, purtroppo, a cominciare dall’uccisione di Mario Francese a Palermo.

BAGARELLA

A distanza di tempo dal suo proclama, la coincidenza ha voluto che ci siamo trovati a poca distanza in linea d’aria. L’occasione di entrare in questo super carcere in cui è rinchiuso Bagarella mi è stata data per incontrare i detenuti che sono nella sezione dell’alta sicurezza in cui si trovano condannati definitivi per mafia o all’ergastolo o altri a cui hanno revocato il 41bis. Una giornata importante organizzata a scopo culturale dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, guidato da Maurizio Veneziano e dalla responsabile dell’area educativa del carcere, Ilenia Troffa. All’incontro ha pure assistito il magistrato del tribunale di sorveglianza di Sassari.

Con alcuni di questi detenuti si è parlato della lotta alla mafia e di giustizia, sono state poste domande e fornite risposte, e ho ricordato che a pochi metri di distanza c’era la cella in cui si trovava l’uomo che ha contribuito a cambiarmi la vita. E questa volta, nel suo campo, usando una metafora calcistica, in trasferta, sono stato io a puntargli il dito contro. A parlare di Bagarella e di quello che ha fatto e degli altri come lui che sono passati da quella sezione e adesso sono liberi di circolare nonostante le pesanti condanne che hanno avuto inflitte dai tribunali.

E mentre parlavo, Bagarella era seduto ad un tavolo della stanza in cui fa l’ora d’aria, impegnato a giocare a carte al solitario. Immerso in un silenzio assoluto, dove l’aria sembra ferma. Il suo obiettivo, nonostante le condanne definitive all’ergastolo ostativo e nessun segnale di pentimento, è quello di poter uscire. Ci ha provato durante la prima ondata di pandemia, sfruttando una circolare che allargava le maglie per anziani detenuti con diverse patologie. Lui ha fatto richiesta ma i medici hanno stabilito che non era incompatibile con il regime carcerario. E da alcuni mesi sta provando a far credere che potrebbe avere problemi psichici. Anche questo tentativo è stato respinto.

Un vecchio trucco dei mafiosi degli anni Settanta e Ottanta per sfuggire al carcere e continuare a “mafiare” fuori. Chi lo ha incontrato sostiene che durante il colloquio Bagarella si pone «in maniera tendenzialmente educata e rispettosa». E si presenta in modo molto introverso. Se gli si pongono domande risponde «in modalità ermetica», all’uso corleonese. Durante la conversazione è lucido e mantiene sempre la logica del discorso, senza mai palesare episodi di disorientamento o di amnesia, ricorda bene tutto e non fraintende le domande che gli vengono fatte.

Le conversazioni con Bagarella non lasciano trasparire alcun processo di revisione critica dei delitti che ha commesso e per gli esperti criminologi che lo hanno visitato le «esplosioni di violenza, anche fisica» sono «incompatibili con una ipotesi di deterioramento psicofisico».

Oltre ad essere un sicario, Bagarella si dimostra ancora una volta un corleonese che sa mettere a frutto le proprie strategie.

Quando in passato i detenuti avevano compreso che si stava mettendo mano alla legge sul 41bis avevano iniziato a reagire con proteste e messaggi dal carcere. E il 12 luglio 2002 Bagarella davanti ai giudici di Trapani ha letto un proclama: «Parlo a nome di tutti i detenuti ristretti all’Aquila sottoposti al regime del 41bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio… Siamo stati presi in giro… Le promesse non sono state mantenute… Intendiamo informare anche questa Corte che dal primo luglio abbiamo avviato una protesta civile e pacifica che comprende la riduzione dell’ora d’aria e del vitto». Ma di quali promesse parla il boss corleonese? Chi lo avrebbe strumentalizzato? Il messaggio-proclama firmato qualche mese dopo da altri boss prosegue così: «Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi?».

Bagarella nel 2002 aveva una fitta corrispondenza con i detenuti vicini all’area corleonese stragista ma anche con quelli appartenenti ad altre organizzazioni criminali. Le lettere analizzate dagli investigatori apparivano innocue, ma c’erano degli elementi che destavano qualche sospetto: veniva per esempio citato di continuo il Milan. Un riferimento che potrebbe essere logico fra detenuti tifosi di calcio, ma gli analisti all’epoca hanno sovrapposto la squadra di calcio al suo presidente e la sigla delle corse automobilistiche (F1) a quella di un partito (FI). Quindi Silvio Berlusconi e Forza Italia, che in quel momento storico è al governo.

Bagarella non è un mafioso qualunque. È un capo di Cosa nostra. O, per meglio dire, è uno dei soci fondatori di quella fazione, i corleonesi, che ha dominato la scena nell’organizzazione, piegando al suo volere l’intera cupola. Il suo carisma è personale, e non deriva solo dal fatto di essere cognato di Riina.

Dunque, Bagarella non parlava a titolo personale, parlava a nome di Cosa nostra, nella pienezza della sua capacità rappresentativa. E gli altri partecipavano alla protesta inscenando manifestazioni, sia pur pacifiche.

Per Bagarella stravedeva suo cognato. L’unica volta che Salvatore Riina ha potuto incontrare in un colloquio il figlio Giovanni, anche lui detenuto per omicidio, hanno parlato dello “zio”. Occorre ricordare che Giovanni è stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di una giovane coppia, vittima innocente, perché era stato Bagarella a chiedergli di ucciderli. Era il suo battesimo del fuoco. Adesso padre e figlio sono in carcere e il capomafia ricorda a Giovanni di salutargli lo zio quando gli scriverà. «Si, certo, ogni domenica quando scrivo a te, scrivo anche a lui e alla mamma», risponde Giovanni. E Totò dice: «Rispettatelo sempre, che volete povero uomo sfortunato, anche lui nella vita… proprio sfortunato nella vita per quello che gli è successo, purtroppo questa è la vita, andiamo avanti». Il riferimento è alla morte di Vincenzina Marchese, la moglie di Bagarella, deceduta durante la latitanza del sicario che trascorrevano insieme. Lei era la sorella di un collaboratore di giustizia, molto religiosa, e credeva di non riuscire ad avere un figlio dal marito perché Dio non voleva per punirli di tutti gli omicidi che lui aveva commesso, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo. Sulla morte della donna, che alcuni collaboratori dicono che si è suicidata, c’è un grande mistero, e il suo corpo non è stato fatto mai trovare. Qualcuno ipotizza invece che Vincenzina avrebbe maturato l’idea di seguire la stessa strada del fratello e collaborare e questa scelta scoperta da Bagarella l’avrebbe portata alla morte.

Salvatore Riina insiste con il figlio, e gli ricorda: «Voletevi bene voi fratelli e pensate sempre a questo zio».

Durante una missione a Bancali, quattro anni fa, di una rappresentanza di parlamentari della Commissione antimafia, l’allora vicepresidente Claudio Fava è stato condotto con gli altri suoi colleghi nel corridoio della cella di Bagarella e qui il parlamentare rivolgendosi al cognato di Riina, dice: «Buon giorno, siamo dell’antimafia». Bagarella lo guarda dritto in faccia e ribatte: «E che siete venuti a fare? Qui mafia non ce n’è...». Leoluca questa volta non ha fatto il pazzo, ma nega o ironizza davanti all’evidenza.

Nella mia visita in questo istituto di massima sicurezza, la iena non avrà annusato alcuna “strana” presenza, non ha percepito nulla che lo può aver allarmato nella sua cella, che è una stanza di dodici metri quadrati in cui c’è un bagno, un lettino e un angolo dispensa. Non è certamente quello spazio ristretto in cui sono costretti a stare o quelli in alta sicurezza o ancor peggio i detenuti comuni, anche otto per cella, dove il più giovane o l’ultimo arrivato sono sottoposti a disumane gerarchie.

A Bancali le camere per gli 88 detenuti al 41bis sono tutte le stesse, ampie e pulite. Materassi ortopedici e cuscini adatti per la cervicale. I corridoi sembrano corsie di ospedale: luminose, pareti bianche colorate con strisce verdi, e pavimenti pulitissimi. E il silenzio regna sovrano. L’assistenza sanitaria è al top, e quando le cure richiedono uno specialista, il boss su indicazione del giudice di sorveglianza viene inviato all’esterno del carcere per le visite mediche, finanche per i massaggi indicati dai medici per la loro terapia.

Quando arrivi e superi due grandi e massicci portoni in ferro che si aprono automaticamente, vedi all’interno tanti grandi cubi in cemento armato di colore grigio che sbucano dalla terra. È la sezione dei 41bis e sono sistemati in fila su un enorme appezzamento di terreno che si estende per circa dieci ettari. Intorno non c’è nulla. È tutto protetto da un alto muro di cinta sorvegliato giorno e notte da agenti armati che stanno dentro casette che hanno grandi vetri blindati. È una struttura carceraria moderna, all’avanguardia, progettata e realizzata secondo le norme di legge per ospitare i mafiosi più pericolosi. Le celle sono state sistemate in modo che ogni detenuto non si incontri con altri per andare al “passeggio” o quando si reca ai colloqui con familiari o con il difensore. Hanno tutti percorsi unici, che si sviluppano dentro il loro cubo, senza attraversare lunghi corridoi davanti ad altre celle, in cui un gesto, un movimento del corpo può già lanciare o ricevere un messaggio. E Bancali è unico nel suo genere. Per questo è temuto dai 41bis, e nessuno vuole finirci qui dentro. E i mafiosi, di contro, fanno la guerra a colpi di carte giudiziarie al direttore o agli agenti penitenziari, denunciandoli per ogni piccola cosa, finanche per aver ricevuto un libro con le pagine sgualcite. E così il mafioso denuncia, anche per conoscere l’identità dei nuovi agenti o del nuovo direttore e questi, per difendersi in tribunale, sono costretti a pagarsi l’avvocato, perché l’amministrazione penitenziaria non rimborsa tutta la parcella. Così è una guerra persa per lo Stato. Il popolo dei boss vede ospite della struttura sarda, oltre a Bagarella, anche Aldo Ercolano di Catania, Gaetano Fontana, Salvatore Madonia, Settimo Mineo, Francesco Tagliavia, tutti di Palermo, e poi Domenico Gallico di Palmi, Antonio Pelle di San Luca e Francesco Pesce di Rosarno, Salvatore Casamonica di Roma, Valentino Gionta di Torre Annunziata, Michele e Vincenzo Zagaria di San Cipriano D’Aversa.

Sono al 41bis, e tutti cercano di uscirne. Anche se questo speciale regime detentivo si è svuotato rispetto a trent’anni fa quando venne applicato per la prima volta dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Nel tempo si è assistito ad una sostanziale metamorfosi rispetto alla modalità di affrontare il 41bis da parte del detenuto, passando da «non chiedere nulla allo Stato», secondo la «vecchia mentalità omertosa mafiosa», ad una attività speculativa tendente all’ottenimento di una carcerazione più confortevole mediante espedienti che sfruttano i principi costituzionali. Come fa notare uno degli uomini che si occupano ogni giorno di questo speciale regime carcerario: «Non si tratta di guardare nostalgicamente al passato rinverdendo il ricordo di ciò che è stato e che non è più, ma ripercorrere le tappe è un atto necessario alla comprensione di come il “carcere duro”, per come lo immagina chi non lo conosce, si sia elevato a “carcere elitario”, essendosi, di fatto, snaturata la ratio e la finalità del 41bis, ampliando le maglie di quella impermeabilità, anche all’interno dell’amministrazione, che doveva contraddistinguerlo».

Oggi Bagarella rimane l’ultimo del poker d’assi corleonese (Liggio, Riina e Provenzano) che ha provato a piegare lo Stato, incamerando pure molti segreti. Adesso fra le mura di Bancali prova a mostrare la sua astuzia per tentare di uscire sfruttando gli strumenti legislativi che la politica e i nuovi indirizzi giuridici gli offrono, a cominciare dall’annullamento dell’ergastolo ostativo ai mafiosi duri e puri.