È un «certo tipo» d’uomo, per il quale un «certo tipo» di questioni è fondamentale, e un certo modo di starci altrettanto. Grigiore, silenzio, studio. Tutto di gran moda, nell’era Draghi che s’è appena aperta, a partire dalla passione per il calcio inglese del Southampton, che è la città portuale da cui salpò il Titanic, per dire dell’allegria media che ci aspetta. Ecco Giancarlo Giorgetti e la sua vita altrove, ma sempre dentro la Lega. Lateralità, piedi piantati nella finanza, atlantismo e spirito pratico: «Per quanto riguarda incontri con i russi, io ho notoriamente una posizione di un certo tipo, anche all’interno del mio movimento», chiarì ad esempio, in una lunga intervista alla Stampa Estera nel 2019, negando di saperne qualcosa, e quindi implicitamente prendendo le distanze da Salvini, dopo la scoperta (rivelata dall’Espresso) che l’emissario del capo leghista, Gianluca Savoini, aveva trattato a Mosca finanziamenti con gli uomini di Putin.
Varesino, 54 anni, in Parlamento da quando ne aveva 30 (correva l’anno 1996), addetto «a fare ciò che a Salvini fa schifo: stare nei Palazzi e risolvere problemi» (sintesi significativamente offerta sempre alla stampa estera) Giorgetti si trova in una posizione particolarmente preziosa, nel governo in cui Mario Draghi l’ha voluto ministro dello Sviluppo economico. Centrale ma sempre in ombra nel Carroccio dove è un eterno secondo, s’avvia infatti a diventare un caso unico: il solo a potersi muovere come se fosse un vicepremier, in un governo che non ne ha, perché, visto il numero dei partiti che compongono maggioranza, ne avrebbe dovuti avere troppi.
Un paradossale compimento, questo, di una carriera politica lunghissima, fatta di zero voli pindarici, zero fantasie, zero correnti: ma posizioni conquistate nei fatti, stabili, come lo è il folto gruppo di colleghi di partito che a Giorgetti sono talmente vicini da averlo soprannominato «capo» - mentre al governo del partito si succedevano i segretari (Umberto Bossi in origine, poi Roberto Maroni, e adesso Salvini) ai quali d’altra parte lui è sempre stato fedele. Rapporti solidi - dentro il Carroccio, come quello, fondamentale anche in questo passaggio, con il governatore del Veneto Luca Zaia, ma anche fuori - tutti «di un certo tipo», si intende: «Sono tanti anni che faccio politica e le persone le conosco tutte. Volendo andare al governo, coi poteri forti bisogna avere a che fare, ma non in modo supino», ha spiegato una volta a Varese-news. Eccolo servito.
Convinto sostenitore della politica-pratica, quella che «si fa sui numeri, sui rapporti di forza, su situazioni di consenso, non sulla teoria», Giorgetti incarna adesso la variante leghista del governo, quella cioè del partito potenzialmente più ballerino dell’intera coalizione che sostiene l’ex presidente della Bce. Quanto sarà dirompente è tutto da vedere (molto dipenderà da Salvini, che per ora è perfettamente allineato): di certo, intanto, per sfera di influenza, la sua è una posizione che dice tanto, anche in prospettiva, sul Carroccio che torna ad essere di governo, dopo un anno e mezzo di opposizione. Non per caso, nel suo esordio al Senato, il presidente del Consiglio Mario Draghi, dopo averlo voluto seduto alla sua destra si è rivolto a Giorgetti per l’unico dettaglio che non sapeva risolvere. «Mi dite voi quando debbo sedermi?», gli ha domandato, così facendo l’uguaglianza e la differenza con il debutto in Parlamento di Giuseppe Conte, che tre anni fa si trovò a chiedere all’allora suo vicepremier Luigi Di Maio: «Questo posso dirlo?».
Si stenta immaginare un Draghi che chieda alcunché di altrettanto sostanziale: ma ecco, se dovesse avere qualche chiarimento da domandare circa i riti della politica, si ha il fondato sospetto che sarà a Giorgetti che tornerà a rivolgersi.
Ministro dello Sviluppo economico e quindi interlocutore diretto di imprese, artigiani, partite Iva e commercianti, insomma dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e di centrodestra, del quale si troverà a interpretare anche nuovi orizzonti non strettamente padani come l’Ilva di Taranto, o anche francamente romani come l’Alitalia, Giorgetti sta adesso all’incrocio di tre direttrici fondamentali del nuovo governo: i soldi del Recovery, l’apporto leghista, l’asse del nord. È infatti il più politico nella rosa dei ministri tecnici, anzi addirittura l’unico, nel cerchio di coloro che si troveranno più a stretto contatto con Draghi per suddividere e amministrare le risorse del Recovery Fund: un centro di spesa che ha come perno il Mef di Daniele Franco, e ruoterà verosimilmente attorno ai ministeri della Transizione ecologica guidata da Roberto Cingolani, delle Infrastrutture di Enrico Giovannini, ma anche della Giustizia di Marta Cartabia («la governance è incardinata nel ministero dell’Economia con la strettissima collaborazione dei ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore», ha spiegato Draghi, vaghissimo, nel discorso della fiducia alle Camere). Un centro di spesa che - sia pure con un Mise al quale Luigi Di Maio ha tolto il commercio con l’estero e che ora è in procinto di perdere tutta la parte dell’energia - ruoterà anche attorno a lui, Giorgetti: l’unico tra costoro ad avere una tessera di partito.
E non da ieri. Ce l’aveva già, vent’anni fa, quando da presidente della commissione Bilancio della Camera, conobbe Draghi anche attraverso la squadra che il futuro premier aveva messo insieme al Tesoro, allora appena lasciato (era il 2001): dal suo successore nel ruolo di direttore generale Domenico Siniscalco, alla squadra di via XX Settembre (Lorenzo Bini Smaghi, Dario Scannapieco, Roberto Ulissi, Maria Cannata), al Ragioniere dello Stato Vittorio Grilli, altro Draghi boy dei tempi del governo Ciampi. Un legame antico e fatto di forte stima, tra i due: dalle cronache dell’epoca salta fuori che, alla relazione annuale del Draghi governatore di Bankitalia, Giorgetti non mancava mai, rappresentando pressoché l’unico elemento di intersezione tra la Lega e quei mondi. E se nella tarda primavera del 2018 - l’epoca in cui lo ricordiamo impazzavano i Borghi e i Bagnai, e relativo stile - il presidente della Bce ha chiamato proprio il numero due della Lega per spiegare che la situazione dei mercati imponeva di togliere dalle secche la formazione del governo gialloverde (ci si era arenati su Paolo Savona), bisogna risalire a dieci anni prima, al 2008, per trovare lo scintillante complimento rivolto al numero uno di Bankitalia dall’allora presidente della commissione Bilancio della Camera: «Chiaro, preciso, nella parte sul federalismo addirittura sorprendente. È stata una relazione eccellente, molto lucida, davvero noi leghisti non potevamo chiedere di più», ebbe a dire, addirittura. Lasciando intravedere, in anticipo di due lustri e mezzo sull’attuale «è un fuoriclasse», un Draghi diciamo leghista, di certo già fonte sicura d’entusiasmo, anche prima del Draghi «grillino» che è magicamente apparso a Beppe Grillo a inizio febbraio durante le consultazioni.
Attorno al tavolone del Consiglio dei ministri, Giorgetti è elemento di spicco anche nell’asse spostato a settentrione del governo nuovo (sono del nord anche i ministri Pd e due su tre di Fi), una inclinazione che corrisponde assai meglio al profilo di un Paese dove, ormai, la maggioranza delle regioni è guidata dal centrodestra. Una inclinazione che chi ha parlato con Draghi sostiene essere frutto di un caso (il premier «dice di aver chiamato chi conosce e stima, senza far caso alla zona di provenienza: peraltro, sono tutti italiani», spiegano), ma già tanto evidente da aver fatto sollevare preoccupazioni per ora velate: «È un governo spostato sul centrodestra nordico», ha fatto notare ad esempio il presidente dello Svimez Adriano Giannola. In netta discontinuità, sul punto, rispetto al Conte due che era composto da molti ministri del Meridione, a partire dallo stesso premier (ma poi, oltre al lucano Roberto Speranza che è rimasto al suo posto, c’erano i pugliesi Francesco Boccia e Teresa Bellanova, i campani Luigi Di Maio ed Enzo Amendola, il siciliano Alfonso Bonafede), e nel quale, come teorizzava lo stesso ministro del Sud Peppe Provenzano, era attiva la concorrenza del Pd sui Cinque Stelle, che si svolgeva a cavallo tra le misure contro il lavoro nero e gli incentivi modello reddito di cittadinanza. Una tendenza che pare già completamente invertita, a sentire l’aria nuova che spira da Palazzo Chigi, così poco incline a linee di azione da centodieci per cento e affini.
Molte cose passano dunque adesso sulle spalle di Giorgetti, compreso il compito eventuale di spegni incendi nei rapporti tra il governo e quello che è potenzialmente il più esplosivo dei suoi alleati, sempre che (come sembra) i Cinque Stelle si facciano imbrigliare e sterilizzare nell’asse contiano con Pd e Leu. La Lega di Matteo Salvini, che oggi ha messo da parte il sovranismo e giura di non voler fare lo sfascia carrozze - e per carità «mai come fece Rifondazione con Prodi», ma domani chi lo sa – ha sul fronte dell’esecutivo la faccia rassicurante di Giorgetti. Rassicurante e più presente di quanto non si ricordi a primo impatto. È Giorgetti che, nel maggio 2019, tre mesi prima dei proclami salviniani al Papeete beach su cui crollò il Conte uno, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio aveva proclamato sostanzialmente conclusa l’esperienza del governo con i grillini, allorché facendosi portavoce delle difficoltà interne ai vari ministeri - ma anche di una serie di preoccupazioni e pressioni internazionali - spiegava che il governo del preteso cambiamento era in realtà in «stallo» e che così non si poteva andare avanti.
È da allora, praticamente nel corso dell’intero governo giallorosa, che Giorgetti ha lavorato a costruire quell’ipotesi che adesso si è realizzata. E che appare tutt’altro che una svolta improvvisa, se si guardano le cronache passate. Se, come abbiamo ricostruito, già nel giorno in cui il capo dello Stato Sergio Mattarella diede l’incarico a Draghi, Salvini era pronto ad agevolare la nascita del nuovo esecutivo (si parlava ancora di astensione), risale addirittura all’autunno 2019, l’idea di un governo di emergenza che avesse come premier proprio il presidente della Bce allora a fine mandato. Un’ipotesi che sul fronte del centrosinistra portava intanto avanti Matteo Renzi, e che invece nella Lega era spinta in tandem prima da Salvini, poi da Giorgetti. Che in una intervista alla Stampa non soltanto arrivò a tratteggiare la necessità di un «governo di emergenza», ma pure l’impossibilità che a guidarlo fosse di nuovo Giuseppe Conte: «Un Conte tre? Mamma mia... Credo che un governo del genere dovrebbe riflettere il sentimento che c’è nel Paese, quindi nei gruppi presenti in Parlamento. Tutti, da Leu a Fdi. Per fare quattro o cinque cose urgentissime. Compresa la legge elettorale». Ecco, chi adesso nelle stanze dei Palazzi fa disperato i conti di sottogoverno, conti che non tornano mai perché i posti sono troppo pochi e i partiti troppi, osserva come alla fine sia questo uno dei compiti che aspettano la Lega: superare l’anomalia del tripolarismo grillino, favorire la contrapposizione elettorale tra un centrodestra a trazione leghista contro, magari, un centrosinistra in affanno, e tornare a un’ordinata alternanza. Più mite e giorgettiana, finalmente.