Sostiene Giancarlo Giorgetti che in politica ci sono due modi di confrontarsi con l’economia. Si può stare vicino a chi produce, inventa, affronta i mercati. Oppure adagiarsi su una nuvola di formule accademiche, tipo salario minimo o produttività, con il rischio di perdere il contatto con la realtà. Questa schematica divisione del mondo dice molto del metodo Giorgetti. Oppure, meglio, suggerisce l’immagine che il neoministro leghista vuol dare di sé: uomo del fare, concreto. Uno che potrebbe stupire con gli effetti speciali, ma sceglie sempre e comunque di volare basso, vicino a quella che ama descrivere come la sua gente, il ceto produttivo del Nord: artigiani, piccoli imprenditori, commercianti radicati nell’immensa provincia padana.
Non parla molto, Giorgetti, ma quando sceglie di tirarla in lungo non lo fa mai per il gusto di intrattenere la platea. Il discorso appena citato, quello sull’economia del fare, risale per esempio al 23 agosto del 2019. Due settimane prima, affrontando a petto nudo le folle danzanti del Papeete di Milano Marittima, Matteo Salvini aveva mandato a picco la barca del governo gialloverde. La truppa leghista era allo sbando e da Rimini, ospite del Meeting di Comunione e Liberazione, il numero due del partito prese le distanze dal capo e dal suo avventurismo dei «pieni poteri». Le parole pronunciate dal palco ciellino sembravano studiate apposta per rassicurare la tradizionale base elettorale del movimento che fu di Umberto Bossi, gente moderata e benpensante, che non segue Facebook perché ha troppo da fare, un esercito disorientato dalla fuga in avanti del capopopolo da spiaggia.
Quel giorno, per dire, il futuro ministro varesotto, già allievo prediletto del senatur, parlò addirittura di «piazza social che non ragiona». Un’eresia, dentro un partito che fondava tutta la sua strategia comunicativa sulla ricerca spasmodica di like. Niente di nuovo, in verità. Il gioco delle parti tra l’incendiario Salvini e il pompiere Giorgetti, una variante dello schema classico poliziotto buono-poliziotto cattivo, funziona alla grande da anni. E il copione è stato rispettato fino in fondo anche questa volta, nei giorni convulsi in cui la politica italiana è arrivata al capolinea del governo di Mario Draghi. Non è tempo di proclami, questo. Muti i noeuro. Archiviata la flat tax. I banchieri avidi non sono più un problema. Ed ecco che in prima linea arriva il leghista del fare, quello che non ama i social network (niente Facebook, Twitter, Instagram) e quando va in tv preferisce evitare i talk show.
In un esecutivo che sembra destinato a galleggiare sulle sue contraddizioni, tra ministri che si contradicono a vicenda praticamente su tutto, a fare la differenza, e a indicare la rotta al Paese, saranno i dicasteri chiamati a gestire il rilancio del sistema produttivo colpito duro dalla pandemia. Per questi incarichi Draghi ha scelto ministri estranei ai partiti: al Tesoro Daniele Franco, ex Bankitalia, lo scienziato Roberto Cingolani alla Transizione ecologica, l’economista Enrico Giovannini alle Infrastrutture. Tutti tecnici per le poltrone chiave. Tutti salvo uno. Il ministero dello Sviluppo economico che ha competenza diretta su centinaia di crisi industriali sparse da un capo all’altro della Penisola, è stato affidato a Giorgetti, un politico che ha esordito alla Camera nel 1996 e si porta in dote un patrimonio di contatti nel mondo delle imprese accumulati in trent’anni di carriera con pazienza certosina, quasi andreottiana, lavorando sottotraccia, sempre un passo indietro rispetto al capo, da Bossi a Bobo Maroni fino a Salvini.
Senza grande sforzo di fantasia, le malelingue in Parlamento descrivono il nuovo ministro come un «amico dei poteri forti», citando le sue frequentazioni alla City di Londra e a Washington. Insinuazioni sempre liquidate con un’alzata di spalle dal diretto interessato, troppo occupato a tessere la sua tela per perdere tempo con il gossip romano. Il figlio di un pescatore e di un’operaia, classe 1966, cresciuto in un minuscolo paese sul lago di Varese (Cazzago Brabbia, 800 abitanti), si è conquistato un ruolo preciso sul palcoscenico della politica. Il ruolo del populista dialogante, dell’ambasciatore dei sovranisti nel mondo degli affari.
Tutto questo senza mai rinnegare pubblicamente neppure un punto dell’agenda di Salvini, dai porti chiusi alle sparate retoriche contro l’Europa. Mai una parola contro, semmai un silenzio ostentato, oppure uno scarto di lato rispetto alla linea tracciata dal capo. Come quando, tra febbraio e marzo di due anni fa, Giorgetti partì per un tour di una decina di giorni tra Inghilterra e Stati Uniti, scandito da incontri ad alto livello con banchieri, funzionari governativi e manager delle multinazionali Usa, a cominciare da quelle della difesa e dell’aerospazio. Una mossa che sembrava studiata apposta per marcare la differenza con il resto del partito che invece guardava verso Mosca e il regime di Vladimir Putin, come raccontato proprio in quelle settimane dalle inchieste dell’Espresso.
Dalle fila della maggioranza gialloverde si levarono le grida di Gianluigi Paragone. «Le banche d’affari non stanno nel contratto di governo», protestò il Cinque Stelle duro e puro, anche lui varesotto, raccontando di un incontro tra Giorgetti e Draghi, l’allora presidente della Bce di Francoforte che all’epoca era descritto dai grillini come il capo di una fantomatica cupola della finanza internazionale. La risposta arrivò a stretto giro di posta. «No, Draghi non l’ho incontrato, ma oggi mi ha telefonato per ringraziarmi della simpatia e della fiducia», spiegò il leghista intervistato in tv con un sorriso sornione stampato in volto e l’aria disinvolta di chi spiega a un ragazzino come va il mondo.
Nessun timore, quindi, nel rivendicare le sue entrature nei salotti dell’alta finanza. Nei quindici mesi del primo governo Conte, mentre Salvini usava il suo mandato di ministro per fare comizi in giro per l’Italia, il numero due del partito ha gestito il potere, quello vero, da Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una posizione solo apparentemente defilata che grazie alle deleghe all’attuazione del programma di governo gli ha permesso di intercettare tutti i dossier più importanti in campo economico.
Nel governo di quota 100 e del reddito di cittadinanza, Giorgetti non ha mai smesso di seminare nel campo che coltiva da sempre, tra gli imprenditori diffidenti e spaventati dalla svolta populista di Roma. Tra tanti esordienti ai posti di comando, il leghista varesotto per dieci anni presidente della strategica commissione Bilancio della Camera, è diventato un punto di riferimento per le lobby industriali disorientate dal nuovo corso. Per non parlare di grandi aziende di Stato come il gruppo Leonardo, il polo della difesa, con importanti siti produttivi in provincia di Varese, dove lavora anche un fratello di Giorgetti, Francesco, un manager che si occupa di rapporti commerciali con l’estero. E così, quando l’esperimento gialloverde si è infine arenato sulla spiaggia di Milano Marittima, mentre Salvini ha perso il filo del discorso, fermo a bordo ring come un pugile suonato, il numero due del Carroccio ha tirato dritto sulla strada di sempre, anzi, addirittura rafforzato dopo la rottura dell’alleanza per lui innaturale con i Cinque Stelle.
«L’Italia deve essere governata dalla cultura del Nord», tuonò il sottosegretario uscente ospite a un convegno a Varese, come se a poche settimane dalla caduta del governo Conte uno avesse fretta di riprendere il filo di un discorso interrotto per cause di forza maggiore. Poi è arrivato il Covid-19, che ha ridato voce alla propaganda leghista contro il governo. Giorgetti invece per mesi si è esposto poco in pubblico. E nelle prime settimane della pandemia è rimasto addirittura in silenzio, alimentando la leggenda di un passo indietro in polemica con Salvini. Poi però, a partire dall’estate scorsa, ogni dichiarazione è servita a marcare la differenza con la linea politica del recente passato. Zero polemiche con Bruxelles, aperture alla nuova amministrazione Usa dopo la vittoria di Joe Biden, possibilista su una cabina di regia comune tra governo e opposizione per affrontare la pandemia. Era il gran ritorno del Giorgetti dialogante, che comunque non rinunciava a manovrare dietro le quinte per guadagnare spazio e potere nelle partite che contano davvero. Per esempio in Lombardia, dove ai primi dell’anno il leghista di Varese ha pilotato l’ingresso in giunta, insieme a Letizia Moratti, del suo pupillo Guido Guidesi, a cui è andato un assessorato di peso, quello dello Sviluppo economico. A Roma intanto si avvicinava il ribaltone politico. E il vice di Salvini ha fiutato l’aria con grande anticipo. E si è mosso di conseguenza. Gli sponsor davvero non gli mancavano, da Confindustria fino a Bankitalia. Per non parlare del nuovo presidente del Consiglio. In tempi non sospetti, nell’ottobre del 2019, Giorgetti si sbilanciò dicendo che «se deve nascere un governo gradito alle banche, Draghi è l’unico italiano su cui nessuno può dire niente». Ecco fatto.