Piazza Tahrir al Cairo è stata il simbolo del movimento di democratizzazione che ha interessato nord-Africa e medio Oriente dieci anni fa. Ma quel sogno è morto presto, lasciando spazio alla dittatura militare

Come ha fatto l'Egitto a passare dalla primavera Araba alla repressione di al-Sisi

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A dieci anni dalla Primavera araba, suo tentativo di risveglio, l’Egitto è ormai sprofondato in un lungo inverno dittatoriale che ha permanentemente congelato ogni anelito di democrazia. L’esercito non soltanto ha ripreso il controllo del Paese con astuzia nel 2013 ma, complice un Occidente, dagli Usa alla Francia, più interessato alla stabilità della regione che ai diritti dei suoi cittadini, negli ultimi anni Il Cairo non ha sentito il bisogno di sbandierare o fingere un sostegno popolare per esercitare il potere assoluto. Ogni opposizione è stata definitivamente stroncata senza nessuna concreta obiezione.

L’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi ospita nelle sue carceri oltre 60mila prigionieri politici, negli ultimi due mesi del 2020 ha eseguito 57 pene capitali (il doppio rispetto a tutto l’anno precedente) e occupa il 166esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa.

Appena salito al potere nel 2013, al-Sisi non solo massacrò durante la prima protesta 800 oppositori politici ma impose subito nuove leggi per impedire ogni futura protesta; poi nel 2015 impose una legislazione anti-terrorismo che lascia all’esercito arbitrio assoluto; nel 2017 varò una legge per privare della cittadinanza gli egiziani residenti all’estero (se ritenuti pericolosi per lo Stato) e nel 2018 passò una norma anti-terrorismo cibernetico per impedire ogni aggregazione in rete. D’altronde la rivoluzione del 25 gennaio 2011 era nata sul web e si era organizzata sui social. Questo il clima in cui nel gennaio 2016 è stato arrestato e torturato a morte Giulio Regeni, colpevole di fare troppe domande scomode, e in cui è oggi in carcere Patrick Zaki, reo di difendere i diritti umani e, in particolare, quelli delle donne. In Egitto i mariti sono ancora padroni assoluti e le mogli marciscono in galera per adulterio.

Sono anni che il mondo si interroga su come una rivoluzione che ha ridato speranza a milioni di disperati possa essere finita così male. Come dal temuto Hosni Mubarak si sia passati al crudele al-Sisi. E dire che per per due anni e mezzo piazza Tahrir, un’enorme rotonda nel cuore del Cairo, schiacciata tra il Nilo e il museo egizio, era divenuta il simbolo mondiale della democrazia, dove i progressisti del movimento 6 Aprile e di Kefaya si confrontavano con i giovani della setta islamica dei Fratelli musulmani, riconoscibili per quei lividi in fronte, orgogliosamente ottenuti appoggiando di continuo il capo a terra in preghiera. Tutti intorno a una tazza di tè alla menta, uniti dallo stesso anelito non solo di democrazia ma soprattutto di espressione, un lusso, sull’altra sponda del Mediterraneo.

Ad unirli avevano il nemico. A dividerli l’ideologia senza compromessi. Gli islamisti, sostenuti dalla maggioranza del Paese, volevano ottenere il potere politico dopo decenni di oppressione. I progressisti erano e restano minoranza, ma una minoranza più preparata e dialogante con un Occidente afflitto dal terrorismo islamico. Entrambi i fronti non hanno saputo scendere a patti. Inesperienza politica e una certa dose di sfortuna hanno giocato contro. Quando il professore islamista Mohamed Morsi è stato votato democraticamente presidente nel 2012, ha fatto guerra agli ex compagni rivoluzionari anziché scendere a compromessi con i liberali di Mohamed El Baradei e tessere insieme reti per imbrigliare l’immenso potere dell’esercito, che in Egitto controlla tutto, dall’economia alla società.

Quest’ultimo ha prima finto di sostenerlo, poi si è organizzato, reclutando giornalisti locali e servizi segreti per alimentare il discontento nella popolazione verso il “terrore islamico”, utilizzando con sapienza i giornalisti occidentali per diffondere la propria propaganda come fosse la volontà del popolo. Ma un movimento come Tamarod, Ribelle, di Mahmoud Badr, il giovane dalla retorica facile che passava ore a conversare con la stampa di mezzo mondo, si scoprì dopo, era tutto tranne che figlio del popolo. Così, senza rendersene conto, in un tripudio di bandiere e canti patriottici, l’Egitto è finito contento nel colpo di Stato ordito dall’esercito, salutato come custode della Patria, il 3 luglio 2013.

Non intuendo neppure che, l’arresto del presidente Morsi, avvenuto qualche giorno dopo, rappresentava un nefasto presagio del futuro. Un futuro che oggi è cronaca.

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