
L’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi ospita nelle sue carceri oltre 60mila prigionieri politici, negli ultimi due mesi del 2020 ha eseguito 57 pene capitali (il doppio rispetto a tutto l’anno precedente) e occupa il 166esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa.
Appena salito al potere nel 2013, al-Sisi non solo massacrò durante la prima protesta 800 oppositori politici ma impose subito nuove leggi per impedire ogni futura protesta; poi nel 2015 impose una legislazione anti-terrorismo che lascia all’esercito arbitrio assoluto; nel 2017 varò una legge per privare della cittadinanza gli egiziani residenti all’estero (se ritenuti pericolosi per lo Stato) e nel 2018 passò una norma anti-terrorismo cibernetico per impedire ogni aggregazione in rete. D’altronde la rivoluzione del 25 gennaio 2011 era nata sul web e si era organizzata sui social. Questo il clima in cui nel gennaio 2016 è stato arrestato e torturato a morte Giulio Regeni, colpevole di fare troppe domande scomode, e in cui è oggi in carcere Patrick Zaki, reo di difendere i diritti umani e, in particolare, quelli delle donne. In Egitto i mariti sono ancora padroni assoluti e le mogli marciscono in galera per adulterio.
Sono anni che il mondo si interroga su come una rivoluzione che ha ridato speranza a milioni di disperati possa essere finita così male. Come dal temuto Hosni Mubarak si sia passati al crudele al-Sisi. E dire che per per due anni e mezzo piazza Tahrir, un’enorme rotonda nel cuore del Cairo, schiacciata tra il Nilo e il museo egizio, era divenuta il simbolo mondiale della democrazia, dove i progressisti del movimento 6 Aprile e di Kefaya si confrontavano con i giovani della setta islamica dei Fratelli musulmani, riconoscibili per quei lividi in fronte, orgogliosamente ottenuti appoggiando di continuo il capo a terra in preghiera. Tutti intorno a una tazza di tè alla menta, uniti dallo stesso anelito non solo di democrazia ma soprattutto di espressione, un lusso, sull’altra sponda del Mediterraneo.
Ad unirli avevano il nemico. A dividerli l’ideologia senza compromessi. Gli islamisti, sostenuti dalla maggioranza del Paese, volevano ottenere il potere politico dopo decenni di oppressione. I progressisti erano e restano minoranza, ma una minoranza più preparata e dialogante con un Occidente afflitto dal terrorismo islamico. Entrambi i fronti non hanno saputo scendere a patti. Inesperienza politica e una certa dose di sfortuna hanno giocato contro. Quando il professore islamista Mohamed Morsi è stato votato democraticamente presidente nel 2012, ha fatto guerra agli ex compagni rivoluzionari anziché scendere a compromessi con i liberali di Mohamed El Baradei e tessere insieme reti per imbrigliare l’immenso potere dell’esercito, che in Egitto controlla tutto, dall’economia alla società.
Quest’ultimo ha prima finto di sostenerlo, poi si è organizzato, reclutando giornalisti locali e servizi segreti per alimentare il discontento nella popolazione verso il “terrore islamico”, utilizzando con sapienza i giornalisti occidentali per diffondere la propria propaganda come fosse la volontà del popolo. Ma un movimento come Tamarod, Ribelle, di Mahmoud Badr, il giovane dalla retorica facile che passava ore a conversare con la stampa di mezzo mondo, si scoprì dopo, era tutto tranne che figlio del popolo. Così, senza rendersene conto, in un tripudio di bandiere e canti patriottici, l’Egitto è finito contento nel colpo di Stato ordito dall’esercito, salutato come custode della Patria, il 3 luglio 2013.
Non intuendo neppure che, l’arresto del presidente Morsi, avvenuto qualche giorno dopo, rappresentava un nefasto presagio del futuro. Un futuro che oggi è cronaca.