La fiammata è ripresa d’improvviso, con la mollezza di un’abitudine a lungo trascurata. E tal quale è pronta a inabissarsi di nuovo. Pillon contro Cirinnà, Cirinnà contro Pillon. Un’accoppiata simbolica, assai più che personale: tanto è vero che l’uno, il senatore leghista, viene chiamato in causa per una riforma fallita, l’altra, la senatrice dem, per una riforma approvata cinque anni fa.
I temi etici, i diritti civili: chi si rivede. Feroci polemiche, appena il tempo di un giro di valzer, un incardinamento in Commissione, magari una prima discussione. E poi chissà: è già accaduto altre volte. E, del resto, siamo al terzo tempo di una legislatura bipolare. Cominciata nel 2018 con i furori del ddl Pillon, dal nome del promotore del Family Day di Verona che progettava una specie di riforma distopica del diritto di famiglia, che avrebbe fatto la fortuna dei mediatori familiari. Proseguita nel 2019-20 con una prima approvazione alla Camera della legge contro l’omotransfobia, o ddl Zan, che introduce misure di contrasto a discriminazione e violenza per motivi legati all’identità di genere, alla misoginia, e anche alla disabilità.
Siamo adesso a un nuovo orizzonte, con la legislatura entrata da un mese e mezzo, col governo Draghi, in un inimmaginabile futuro, nel quale Monica Cirinnà, la madre della legge sulle unioni civili, si è ritrovata d’improvviso dalla stessa parte del senatore Simone Pillon e degli altri leghisti. Tutti avviticchiati. Nella stessa maggioranza. Una posizione che, dopo un attimo di inquietudine, li ha spinti a darsele simbolicamente di santa ragione, anzi più di prima, essendo incredibilmente sullo stesso piano. Come accade nei “Duellanti”, film di Ridley Scott, racconto di Joseph Conrad, anche se il timore è che siano gli stessi anche i risultati. Cioè zero. Che alla fine, il lato B del «governo di tutti» sia: diritti per nessuno. Non solo per il ddl Zan, ma anche per altri pur invocati provvedimenti, come quello di uno ius soli e quello dell’eutanasia, che intessono tante vite.
Ma andiamo con ordine. Sarà in grado un disegno di legge contro le discriminazioni di dividere ciò che Draghi (e Mattarella) hanno unito, cioè Lega e Pd, nella più recente variante del kamasutra politico di questa legislatura? Sarebbe strano provocasse davvero una rottura; sarebbe pure strano all’opposto che si trovasse un accordo. Per il resto, il copione in commissione Giustizia al Senato, guidata dal leghista Andrea Ostellari, è quello noto. Il fascino delle obiezioni è infatti nell’esattezza con la quale rappresentano una sottospecie di un genere nutrito: quello del non c’è bisogno. E che bisogno c’è di specificare omotransfobia, abbiamo già la legge Mancino, funziona tutto alla perfezione, e anzi semmai nascerebbe un problema di «libertà di opinione» (sic). L’argomento è lo stesso, a farci caso, per altri diritti: ma perché volete il matrimonio omosessuale, ormai non si sposa più nessuno; a che serve la cittadinanza, mica nessuno vi caccia; assassini a volere l’eutanasia, si staccano ogni giorno un sacco di spine senza tutto questo rumore, per la Svizzera basta passare il confine. Costante è una specie di paternalista imposizione di un punto di vista, che si sostituisce alle istanze dei soggetti ai quali la legge sarebbe indirizzata, e che ciecamente tende alla presunzione di plasmare la realtà, più che regolamentarla. Sono nel caso del ddl Zan anche paradossali, perché si applicano a un passaggio minimo: l’inizio dell’iter della legge al Senato (non certo la sua conclusione), con argomenti del tipo c’è l’emergenza, non è il tempo non è il momento, siamo seri.
Come se i diritti sociali dovessero stare separati dai diritti civili, se il Parlamento fosse un organismo monocellulare di quelli che non riescono a fare due cose insieme, come se la realtà non procedesse a manciate di aggressioni tipo quella davanti alla stazione metro di Valle Aurelia a Roma. Come se la legge 194 che legalizza l’aborto non avesse iniziato il suo iter parlamentare nei giorni del giugno 1977 in cui infuriavano le polemiche sull’uccisione di Giorgiana Masi e non fosse stata approvata proprio durante i i 55 giorni del rapimento Moro, durante un governo di unità nazionale, unito sull’emergenza ma in grado di dividersi sui diritti civili (la Camera l’approvò il 14 aprile 1978 con 300 sì e 275 no, il 18 maggio al Senato, con 167 sì e 148 no).
Come se da allora la capacità di respiro del Parlamento si fosse completamente rattrappita: cosa che in effetti è. La fiammata di questi giorni arriva infatti dopo una fase di pressoché totale silenzio. In un Parlamento che da un anno si occupa quasi solo di misure emergenziali da Covid-19, scostamenti di bilanci, ristori, conversione di decreti. Quasi dimentico di quel che accadeva prima, che era comunque già pochissimo, nei Palazzi scarnificati dalla progressiva perdita di peso, cui l’antipolitica, prima da fuori, poi dentro le Aule, sembra aver dato la botta finale.
Lo stesso ddl Zan, che ha compiuto il suo iter alla Camera a novembre, è salvo per miracolo. La crisi di governo, cominciata nei fatti a inizio dicembre, ha messo del tutto nel cassetto qualsiasi residua ambizione di fare altro. Sempre che ve ne fosse ancora un briciolo. Già nel contratto di governo giallo-rosso, non v’era afflato sul fronte dei diritti. Figurarsi, si era appena venuti fuori dal periodo salviniano, coi decreti del ministro dell’Interno, con le navi costrette a non sbarcare i migranti, la capitana Carola Rackete indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e appunto il ddl Pillon. Già tanto sembrava aver scansato tutto questo, e il relativo contratto di governo: nel quale il bisillabo «omo» era del tutto bandito (salvo che all’interno della parola «promozione»), «diritti», «discriminazione» o «minoranza» mai citati. Reddito di cittadinanza sì, nulla sulle nuove cittadinanze ovviamente.
Un filo, questo dello Ius soli, che Enrico Letta issandosi alla guida del Pd ha provato a «rilanciare e riproporre» proprio adesso: «Penso che sarebbe una cosa molto importante se il governo Draghi, il governo di tutti insieme, in cui si faranno meno polemiche, fosse il periodo in cui finalmente nascesse» quella normativa, ha detto nel discorso dell’incoronazione. Molto ottimista. Sul punto, il governo Pd-M5S nulla ha fatto: le proposte di legge relative allo Ius soli, infatti, sono rimaste ferme al mero stadio della presentazione del testo, vale a dire che il Parlamento non gli ha dedicato neanche un’ora. Un atteggiamento indicativo, quanto a praticabilità della materia.
Lo stesso premier Mario Draghi, che pure nel discorso di fiducia alle Camere ha scansato l’argomento dell’organismo monocellulare, spiegando che il governo è in grado di fare due cose insieme, cioè «farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza», non pare intenzionato a infilarsi nelle polemiche tra partiti, su argomenti che può serenamente ricordare essere «prerogativa del Parlamento». Tanto più perché, esiste il vasto mondo detto delle bandierine: «Tutti i partiti sono entrati in questo governo portandosi una eredità di vedute, convinzioni, annunci fatti nel passato. Tutti hanno delle bandiere identitarie: si tratta man mano di chiedersi quali siano di buon senso e quali invece cui si può rinunciare», ha spiegato il premier.
Quanto alle rinunce, in effetti la politica ha fatto tantissimi passi indietro, su questo, anche rispetto al passato recente. Quando le questioni dei diritti civili erano in grado di scuotere anche con forza il Parlamento e anche il governo. Sulla legge per le Unioni civili, tra il 2014 e il 2016, Matteo Renzi ha per dire impostato tutto il lato di sinistra del suo programma di governo, riuscendo laddove era fallito, fra l’altro, il secondo governo Prodi. Prima di lui, sia pure nei pochi mesi del suo governo lo stesso Enrico Letta aveva dato un forte impulso all’intero comparto dei diritti civili, a partire dalla cittadinanza per i nati in Italia da genitori stranieri, e arrivando persino a far fare passi avanti alla legge sulla trasmissione del cognome materno. Quella stagione terminò prima della fine della legislatura: con il naufragio definitivo della legge che avrebbe introdotto uno Ius soli temperato, sotto il governo Gentiloni. Una rinuncia per manifesta impotenza. Si ricorda l’esultanza pre-natalizia del leghista Roberto Calderoli: «Lo Ius soli è definitivamente naufragato. Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io a bloccare questa assurda e inutile proposta di legge che serviva solo a regalare un milione di nuovi voti al Pd».
Sono in effetti un milione, ormai, gli italiani senza cittadinanza. Ed è questo uno degli argomenti citati anche da Letta: «il nostro Paese è in un disastro demografico». Matteo Salvini e la Lega ovviamente gli danno torto. I numeri gli danno più che ragione: a dati Istat non definitivi, il 2020 è stato il dodicesimo anno di calo delle nascite (-3,8 per cento sul 2019), e un totale che è quasi la metà dei decessi: 404.104 neonati, contro 746.146 morti. Un precipizio verso il deserto. Ma quante possibilità concrete ha questa legge di vedere la luce?
Prima del ddl Zan, che ricordiamo è in mezzo al guado come lo era l’analoga legge della scorsa legislatura, l’ultimo successo sul fronte diritti è quello della legge sul fine vita, approvata peraltro da una maggioranza Pd-M5S. Tuttavia, nei 29 punti del programma del governo giallo-rosa, c’era un generico impegno sui diritti civili e niente sul suicidio assistito. Una assenza particolarmente lampante: proprio i giorni di settembre 2019, in cui si preparava il governo Pd-M5S, scadeva il termine stabilito, per un intervento, dalla Corte costituzionale. A settembre 2018, infatti la Consulta, esaminando il ricorso nel processo a Marco Cappato, per l’aiuto fornito al suicidio di Dj Fabo, aveva chiamato il Parlamento a fare qualcosa, dandogli 12 mesi di tempo, perché «le norme attuali lasciano prive di adeguata tutela determinate situazioni». Ecco poi alla fine la Corte è dovuta intervenire: per 12 mesi, in commissione Giustizia alla Camera, c’erano infatti state solo audizioni, cioè il niente.
E così adesso mentre la cattolica Spagna approva l’eutanasia, noi siamo ancora fermi a Kafka. La Corte costituzionale ha infatti stabilito, con il caso Cappato, la liceità in certi casi a ricorrere al suicidio assistito anche in Italia: mancando tuttavia tutt’ora una legge, è di incerta applicazione il diritto ad accedervi. Siamo a questo paradosso clamoroso, affermato giusto martedì dal tribunale di Ancona, che ha chiarito con sentenza come il quarantaduenne tetraplegico che aveva chiesto all’Asl di ricorrere il suicidio assistito ha sì i «requisiti stabiliti», ma che la pronuncia della Consulta non gli dà anche «il diritto ad ottenere la collaborazione dei sanitari». Insomma si immagina la faccenda proceda a colpi di sentenze, per quanto l’Associazione Luca Coscioni prevede di avviare entro aprile una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare.
Al fianco dello scarso interesse politico-parlamentare a promuovere nuovi diritti, c’è in effetti in parallelo sempre più spesso questo «vuoto di tutela», e «inerzia legislativa«. Sono gli stessi termini che ricorrono nelle pronunce recenti della Consulta, riguardanti le tutele ai figli di coppie omosessuali. Rispetto alle quali, come sul fine vita, i giudici procedono seguendo il filo di quella che l’allora presidente della Corte Giorgio Lattanzi chiamò «incostituzionalità prospettata»: sospendono la sentenza in attesa che il legislatore disciplini la materia entro un termine. È accaduto in ultimo in due pronunce il 9 marzo sui figli nati da coppie dello stesso sesso. I giudici hanno criticato la legislazione che considera pienamente genitore soltanto quello biologico e non anche il cosiddetto «intenzionale»: per i giudici a contare è anzitutto lo svantaggio per il minore, che non essendo riconosciuto da entrambi ha meno diritti degli altri bambini (ad esempio per quel che riguarda i legami con la famiglia del genitore intenzionale). Una disparità non di poco conto, tanto che, scrive la Corte «non è più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore». Ma l’inerzia resta prevalente.