Doveva essere bellissimo il Portico d’Ottavia, persino in quell’alba terrificante. Settantacinque anni fa, il 16 ottobre del 1943, quando arrivarono al ghetto dormivano tutti. Erano le 5,30, shabbat, il cielo cominciava appena a schiarire, i camion si fermavano verso Monte Savello all’incirca dove oggi ci sono le colonnine della zona pedonale - e dove ai tempi dei romani partivano i cortei trionfali - il portico li guardava muto proprio come fa ora. Non esiste un giorno uguale all’altro ma, forse, adesso che i testimoni dei mesi dell’occupazione - «chi ricorda come era» nel verso di Wisława Szymborska - vanno via via scomparendo, non resta che inquattarsi nelle fessure delle pietre, piazzarsi nel punto esatto, per sapere, di nuovo, di cosa si trattava. Come a voler aprire un varco temporale attraverso la ricorrenza precisa - stesso giorno, stessa ora, stesso luogo: l’ha fatto Daniele Molajoli nel progetto fotografico che riproduciamo, in parte, in queste pagine -; un varco che riesca a svelare, ora, qualcosa di quei 271 giorni della Roma occupata, a riconnettere anni lontanissimi fra loro che però condividono lo stesso spazio, a provocare un corto circuito dissonante rispetto alla retorica dell’impresa e della Liberazione.
31 gennaio 1944, ore 11
Via Milano, all’angolo con via Nazionale
Alle 11 di mattina inizia una vasta operazione di rastrellamento organizzata da Kappler. Reparti di SS e militari tedeschi, aiutati da un battaglione fascista, chiudono una vasta zona. In poco meno di due ore i tedeschi rastrellano duemila persone e le portano alla caserma Macao di Castro Pretorio. Circa 800 uomini vengono mandati nei campi di lavoro in Germania,
ad Hannover, o a costruire fortificazioni sul fronte
di Anzio
Un collasso temporale del passato sul presente, che fa riprecipitare dentro le storie minute, i manifesti strappati, le pubblicità, gli inciampi, le sconfitte, le imprese dimenticate, la quotidianità, il caso. Di allora e di oggi. C’era quello stesso cielo appena azzurrato, e lo scorcio sul Teatro Marcello, quando per esempio Marco, 56 anni, padre di Settimia Spizzichino, avviato con la famiglia ai camion verso Monte Savello come altri 1.259 ebrei quel giorno (saranno 1.024, alla fine, i deportati) cogliendo al volo un momento di confusione riuscì ad allontanarsi con l’idea di andare ad avvertire l’unico figlio maschio, Pacifico, che dormiva nel quartiere Testaccio: «Allora mamma mia», ha raccontato Settimia, «acchiappò una vicina di casa, una ragazza, e gli fece “vallo a prendere, va’, sennò i tedeschi gli sparano!”. Invece di dirlo a una delle figlie lo disse a quella, lei andò dietro a mio padre e si salvarono tutti e due». Scampare la deportazione senza saperlo, senza averlo calcolato. La grazia dell’inconsapevolezza, che viaggia accanto alle scelte. In un’altra alba di quel lungo inverno Tommaso Moro (Vincenzo Guarniera), partigiano dei comunisti eretici di Bandiera Rossa, guidò una spettacolare impresa per liberare sette della sua banda: ma quando arrivò sul luogo della fucilazione, dopo aver rubato camion e divise alla Polizia d’Africa Italiana, aver sostituito con suoi uomini l’intero plotone d’esecuzione, aver ammazzato i nazisti invece dei prigionieri, si trovò davanti altri sette partigiani da liberare - non gli amici per cui aveva progettato l’intera impresa. Impreparato, persino lui che aveva annunciato spavaldo: «Tedeschi e fascisti, a Roma avrete la vita difficile».
Nessun romano sapeva che avrebbe dovuto resistere per nove mesi, prima dell’8 settembre. La città era ripiegata su se stessa da vent’anni di fascismo, nessuno era pronto. «Pensavamo d’ave’ finito col 25 luglio», è l’illuminante sintesi di Spizzichino. Ugo Forno, ragazzino di seconda media della scuola Settembrini, a Salario-Trieste, non sapeva che sarebbe stato l’ultimo partigiano morto a Roma, quando il 5 giugno con altri cinque ragazzini sentì dalle chiacchiere di piazza Vescovio che, i tedeschi in ritirata stavano tentando di far saltare il ponte ferroviario sull’Aniene: quel ponte non sapeva che sarebbe stato salvato proprio da lui, dai ragazzini, e tutt’oggi se ne sta lì, abbastanza ignaro e seminascosto, a farsi passare sopra i treni per Orte, accanto alla ciclabile nuova, in mezzo alle sterpaglie a mala pena potate in un soprassalto assai recente di memoria cittadina – con tanto di murales dedicato a Ugo Forno, peraltro già vandalizzato come da tradizione.
«I muri ricordano», recita il titolo di un vecchio librone dell’Anpi, dedicato alle epigrafi della Resistenza: ricordano, ma non lo sanno. E bisognerebbe chiedersi se l’unico palazzo di via Rasella ancora bucato dai proiettili dei tedeschi - spararono all’impazzata dopo l’esplosione che aveva ucciso i 32 soldati del battaglione Bozen - ricordi quel giorno meglio di quanto non possano fare gli altri, che sono stati restaurati, o addirittura meglio del muro di Palazzo Tittoni, il punto esatto in cui esplose il tritolo, ma tuttavia privo, anche oggi, di una lapide che ricordi un evento centrale nella storia della Resistenza. Di certo, a passarci alle 15,52 di un 23 marzo, può capitare di veder salire, invece che soldati tedeschi come fu quel giorno, studenti in fila a due a due. Oppure sconosciuti intenti a misurare, oggi, lo spazio della strada, proprio nel punto in cui Rosario Bentivegna piazzò il carretto da netturbino con l’esplosivo. Una specie di voragine invisibile che come una calamita attira alcuni elementi, più di altri, in una mescola incredibile di suggestioni e caos.
3 giugno 1944, ore 18,27
Porta Maggiore
Gli alleati stanno per arrivare e i tedeschi sfilano per la città abbandonando Roma. Un carro armato Tigre in avaria viene fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata, che non si premurano di far allontanare i civili. L’esplosione, moltiplicata dalle numerose munizioni presenti sul carro, causa la morte di trenta persone
A Porta Maggiore, proprio nel punto in cui il 3 giugno 44 i tedeschi fecero saltare in aria un carrarmato in avaria uccidendo 30 persone, è piantato da tempo immemore un chioschetto che vende panini e cornetti a qualsiasi ora della notte. Se sia poi uno scherzo del caso - o una sua intelligenza - non è dato sapere, fatto è che Radio Radicale racconta da decenni le efferatezze della politica e del sistema carcerario italiano dalle stesse finestre e stanze nelle quali Pietro Koch con la sua banda in quei mesi del 1944 inflisse le peggiori sadiche torture a centinaia di persone, nelle stanze di quella che, all’epoca, era la Pensione Oltremare – in origine una delle tante vicino alla stazione sorte a ospitare gli sfollati che arrivavano dai dintorni di Roma.
23 marzo 1944, ore 15,52 Via Rasella
23 marzo 1944,
ore 15,52
Via Rasella
Alle 15,52 Rosario Bentivegna fa esplodere un carretto da netturbino carico di tritolo in via Rasella 155. Lo scoppio causa la morte di 32 soldati tedeschi. All’azione prendono parte i Gap centrali del Pci comandati da Salinari e Calamandrei. Per rappresaglia Kappler comanda l’uccisione di 335 italiani, tra partigiani, ebrei detenuti e civili. L’eccidio avrà luogo la mattina seguente nelle cave di pozzolana in via Ardeatina
Dentro le mura di Forte Bravetta, sull’Aurelia, luogo prescelto per l’uccisione dei partigiani condannati a morte, il terrapieno utilizzato come sfondo alla fucilazione conserva ancora, in mezzo alle altre, anche le pallottole dei colpi andati a vuoto la mattina della fucilazione di don Giuseppe Morosini, quando dieci soldati del plotone della Pai, la Polizia dell’Africa Italiana addetta alle esecuzioni, sbagliarono mira apposta. Era il 3 aprile, lunedì di Pasqua. Adesso che la zona è diventata un parco pubblico, con le torrette mangiate dalla ruggine, l’assedio del supermercato accanto, il giapponese a prezzo fisso di fronte, il traffico infernale anche in tempo di Covid, l’ecomostro sullo sfondo di palazzi rimasti al livello scheletro, il Forte è chiuso, circondato dalla rete. Fa da sfondo a chi passa: come Adriano, 82 anni, seduto su una panchina alle spalle di una bomba piovuta dal cielo e conficcata così, a testa in giù da settantacinque anni. Quando qui si fucilavano i partigiani, lui aveva sei anni, giocava. Ricorda i soldati, sì, ricorda ancora meglio gli alberi: «Non c’erano alberi, niente di questa boscaglia. Qualche cespuglio. Era solo terra battuta». Il Forte Bravetta era un castello da scalare, coi suoi amici. «Che noi da regazzini entravamo dentro ar fossato, andavamo giù, e tornavamo su. Non c’era mica tutta quella vegetazione. Tutta sta roba è cresciuta dopo. Andavi in fondo e risalivi. Il divertimento nostro era quello. Scendere e risalire, tutto il giorno. Stavamo quasi in campagna, via dei Carafa non c’era niente, a Casetta Mattei quasi niente».
Bisogna pensarla così, la Roma della Resistenza. Spoglia, deserta, anche al netto delle distruzioni e della fame, con meno alberi, molti meno palazzi, meno tutto. Più simile per certi versi all’ultimo anno, che ai precedenti settanta. Il silenzio, per dire. Il coprifuoco. I rumori, che con tanti spazi vuoti si sentivano ben oltre quel che si possa oggi immaginare: quando a novembre i gappisti fecero saltare un autotreno della Werhmacht, in via Claudia di fronte al Colosseo, il boato si sentì fin sulla Cassia, dalla parte opposta della città. Le borgate, cuori pulsanti della Resistenza proletaria, erano spesso circondate dal nulla. Persino la Garbatella, oggi quasi centro città, era «un deserto». All’alba del 17 aprile, quando cominciò il rastrellamento del Quadraro, il fracasso delle camionette si sentì fino a Torpignattara. L’operazione Balena fu la più imponente dei 271 giorni di Roma: duemila uomini catturati e portati in un teatro di posa di Cinecittà (744 i deportati), si trattava del resto di una punta di diamante della Resistenza romana, al punto che, nonostante il rastrellamento, la zona resterà terra off-limits per i tedeschi, fino alla fine. Quel giorno fu arrestato anche un personaggio mitologico, il Gobbo del Quarticciolo (Giuseppe Albano), che proprio il lunedì dell’Angelo, poche ore dopo la fucilazione di Morosini, aveva ammazzato tre tedeschi a pranzo in un’osteria del Quadraro. Preso mentre si stava rifugiando in un’azienda, insieme a un gruppo di Bandiera Rossa, fu incredibilmente non riconosciuto: forse anche perché, avendo i tedeschi emanato l’ordine di arrestare tutti i gobbi di Roma pur di prenderlo, la sua deformità paradossalmente non fu notata, tra le tante dei poveracci chiusi a Regina Coeli e Via Tasso. Questo salvò il Gobbo dalla fucilazione, non dal ritorno dopo il 4 giugno alla vita da criminale che lo ha condannato poi alla dimenticanza – come molti altri spezzoni che lottarono per la speranza, poi tradita, di un mondo nuovo - essendo in effetti uno dei più fulgidi esempi di quanto si potesse essere in quei giorni anche questo: eroe partigiano e delinquente insieme. Alla faccia del manicheismo e della retorica, in un mix tutt’ora quasi impensabile, in effetti.