Inchiesta
Ruggine, corrosione e cemento sbriciolato: il drammatico degrado delle strade d’Italia
Calcinacci, restringimenti, lavori abbandonati. Da Nord a Sud, manca l’ordinaria manutenzione per garantire la sicurezza. A tre anni dalla tragedia del ponte Morandi i riflettori sulla cura delle infrastrutture si sono spenti. E, in vista della ripresa, il Paese si sgretola
Tre anni non sono bastati. Dai pellegrinaggi dell’allora ministro Danilo Toninelli sotto piloni e viadotti per mostrarne il degrado, la gestione di strade e autostrade fa ancora fatica a garantire l’ordinaria manutenzione. Dove erano necessarie poche mani di intonaco, ora ferri e calcestruzzo si rompono con la fragilità del pane secco. Ai piedi dei delicati punti di appoggio si accumulano grandinate di calcinacci. E i cantieri aperti per centinaia e centinaia di chilometri, a volte nemmeno prevedono la fine dei lavori. Sarà un’estate al rallentatore. Da Cesena a Orte. Da Roma a L’Aquila e Pescara. Da Firenze a Livorno. Da La Spezia a Genova e Torino. Ma anche lungo l’autostrada A1. Escluse le principali direttrici del centro-nord da poco ampliate, al risveglio economico una via crucis attende il traffico pesante e l’esodo verso le prime vacanze con in tasca il certificato Covid-free.
L’IMBUTO CHE DIVIDE L’ITALIA
Ci siamo messi in coda anche noi, dentro le spirali di questi interminabili imbuti che restringono e dividono l’Italia. Erano passate poche ore dalla tragedia genovese del Ponte Morandi, crollato la vigilia di Ferragosto del 2018, quando le telecamere cominciarono a indirizzare l’attenzione sotto tutti i ponti indeboliti dall’incuria e dal furbesco tentativo di alcune società di ritardare la manutenzione ordinaria perché diventasse straordinaria. La prima va infatti pagata dal gestore, la seconda dallo Stato. Oggi si riconosce facilmente dove sono passati ministri e magistrati: lì le armature dei piloni sono ricoperte da uno strato di intonaco fresco. Ma scendendo dai viadotti, dove nessuno è più venuto a controllare, si scoprono le vere condizioni del cemento che ha ereditato dal boom economico italiano, che ora fa i conti con il tempo.
Colate sbriciolate da rughe e crepe, arrossate dalla ruggine del ferro, sfilano al ritmo binario battuto sui giunti dalle ruote pesanti dei Tir, decine di metri sopra di noi. Tum-tum, tum-tum. Come alla sommità del pilone centrale del viadotto Puleto, lungo la superstrada E45 che per migliaia di imprese ha la stessa vitale importanza dell’Autostrada del Sole. Oppure sotto il monumentale viadotto Pietrasecca, lungo l’autostrada A24 Roma-L’Aquila. E ancora sotto la A25 Pescara-Roma, a Cerchio e Cocullo, che è stato il set del videoselfie del ministro Toninelli. Qualche pilone qui, tra le potenti faglie sismiche di Avezzano e Sulmona, è stato riparato. Gli altri, dopo tre anni, ancora no.
Il Pil di queste regioni, dal Lazio, all’Abruzzo, all’Umbria, alla Toscana, su fino all’Emilia Romagna, viaggia in fila nei restringimenti a doppio senso di marcia. Ore e ore di coda. E adesso che il governo di Mario Draghi ne riparla, che senso avrebbe concentrare dieci miliardi per un solo ponte tra Messina e Reggio Calabria, se poi nel resto d’Italia dobbiamo guidare con i limiti di velocità tra i venti e i quaranta orari?
L’OTTOVOLANTE E45 CESENA-ORTE
Non appena si esce dallo svincolo di Cesena Nord e si punta verso le colline, è subito chiaro cosa significhi l’ultima lettera che accompagna il Pnrr, il piano nazionale di ripresa. R come resilienza: che in psicologia è sì la disponibilità delle persone a superare un periodo di difficoltà, ma in ingegneria è la capacità dei materiali di assorbire un urto senza rompersi. Ecco, appunto. La superstrada E45 accoglie il semiasse con due buche, il cartello dei 40 obbligatori e un doppio senso di marcia. Se vi manca il mito della Salerno-Reggio Calabria, ormai rimodernata, lo ritrovate qui.
Giusto un titolo sui giornali locali di qualche giorno fa conferma il nesso tra urti e resilienza: «E45, cinghiale si scontra con un’auto: donna ferita». Il cinghiale è morto investito la sera del 18 maggio dalle parti dello svincolo di Borrello, direzione sud. Meno di dodici ore dopo, la superstrada è di nuovo chiusa per un palo abbattuto da un’auto, finita fuori strada sotto la pioggia. L’asfalto drenante quassù non è mai arrivato. Gli abitanti dei paesi lungo il tracciato da due anni si sfogano con un pizzico di resiliente ironia sulla pagina Facebook Vergogna E45.
«Con il nostro primo esposto del 2013 alla Procura abbiamo denunciato anche il fatto che non ci fosse viabilità alternativa tra Valsavignone e Canili perché il tratto della statale 3 Tiberina, appartenente al comune di Pieve Santo Stefano, è chiuso da ventun anni», racconta Erika Dori, una delle coordinatrici della pagina: «Abbiamo chiesto fin dall’inizio la messa in sicurezza della E45, il ripristino della vecchia strada e di vigilare su come vengono eseguiti i lavori, per la sicurezza in primis e perché il danno economico negli anni è stato enorme».
La gestione della E45, conosciuta sulle mappe anche come strada statale 3 bis Tiberina, è affidata all’Anas. E non sempre la manutenzione è stata all’altezza.
Nel gennaio 2019 la Procura di Arezzo ha fatto sequestrare l’intero viadotto Puleto: anni di abbandono avevano sbriciolato la parte superficiale del cemento e fatto affiorare l’armatura. Ma chiudere il Puleto significa tagliare in due questo pezzo d’Italia, perché l’unica strada alternativa è proprio quella bloccata da oltre vent’anni da una frana, da Canili a Valsavignone, al confine tra Emilia Romagna e Toscana. Camionisti e automobilisti, in quei giorni invernali di caos, venivano gentilmente invitati a percorrere la A1 Autostrada del Sole o la A14 Adriatica. Due deviazioni da centinaia di chilometri.
Oggi al viadotto non più sotto sequestro ci si arriva dopo un paziente slalom tra cantieri e gallerie chiuse per manutenzione. A Mercato Saraceno un cuore nostalgico ha infilato una bandiera rossa su un traliccio in disuso e vi ha appeso la gigantografia di Enrico Berlinguer con dedica: «Ci manchi». Ancora adesso, otto anni dopo il primo esposto alla magistratura, in caso di incidente o semplicemente di un camion guasto, non esistono né corsia di emergenza né percorsi alternativi: la vecchia statale Tiberina è sempre chiusa e la bis, quando si blocca, ti imprigiona.
Sul Puleto, per non affaticarlo troppo, si passa su un’unica corsia e, quando non c’è coda, il limite di velocità è da crampo al piede destro: da quaranta bisogna scendere a venti chilometri orari. Almeno sul cartello: nella realtà restano quaranta, perché se osi andar più piano, il Suv appena dietro ti si incolla con gli abbaglianti accesi fin dentro l’abitacolo. I bordi del ponte sono consumati. Ma i piloni sono stati intonacati da poco. Soltanto il delicato punto di appoggio del viadotto su una delle pile centrali è ancora nudo: dalla sommità il calcestruzzo è caduto e i ferri dell’armatura sono esposti come le ossa di uno scheletro. L’email all’Anas per avere una spiegazione non ha ottenuto risposta. La corsia unica e il limite dei venti all’ora proseguono per tutta la lunghezza del viadotto successivo, il Tevere IV, che non è affatto in buona salute. Si sobbalza sui giunti, sospesi sul panorama mozzafiato. Anche questo monumento dell’ingegneria italiana soffre la corrosione. L’acqua salata ha consumato i blocchi di appoggio, come se fossimo in riva al mare e non in mezzo agli Appennini. È l’effetto dei mezzi spargisale, indispensabili per fondere il ghiaccio d’inverno.
Sul Tevere IV i lavori sono in corso da mesi. Avviata il 16 maggio 2019, la ristrutturazione di piloni, solette e giunti è sospesa da febbraio di quest’anno, per permettere l’asfaltatura urgente della superstrada. Stato di avanzamento in due anni: 1,74 per cento. Va un po’ meglio sul viadotto Puleto: 27,28 per cento dall’8 luglio 2019. Ma non è possibile sapere quando finirà: «Il termine dei lavori è in corso di ridefinizione», spiega la scheda tecnica pubblicata da Anas. È una prassi. Su 53 interventi di manutenzione programmata e attualmente in corso lungo la E45, per 23 non ne viene indicata la conclusione. Si arriva a Narni e poi a Orte che è quasi buio, a una velocità media da vicolo urbano.
PM SULLA ROMA-L’AQUILA-PESCARA
Già a Castel Madama, appena fuori Roma, si incontra il primo cantiere per la manutenzione della soletta di un viadotto. E dopo lunghi tratti a una sola corsia, allo svincolo di Tornimparte prima dell’uscita per L’Aquila, Strada dei parchi, l’ente gestore, ha demolito un ponte che non garantiva la necessaria capacità antisismica. Al suo posto stanno costruendo una struttura in acciaio corten, resistente alla corrosione e alle deformazioni provocate dai terremoti. Il 9 giugno la società concessionaria della A24 e A25 finirà in tribunale. Sarà il giorno dell’udienza preliminare, dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura de L’Aquila per i manager a cominciare dal patron, il costruttore Carlo Toto. Sono accusati di aver messo a rischio «la sicurezza del trasporto autostradale, determinando uno stato di estremo deterioramento e il conseguente pericolo di crollo totale o parziale delle pile e degli impalcati di nove viadotti su venticinque».
Il tramonto sotto la rupe di Pietrasecca, alle porte dell’Abruzzo, è uno spettacolo. Il sole basso addolcisce perfino l’ingombro dell’omonimo viadotto che come un millepiedi di milleottocentottanta metri risale lungo tutta la valle. Ma soprattutto, nei suoi chiaroscuri, mette in evidenza le crepe nei piloni, gli spigoli gonfi che cadono a pezzi, i ferri corrosi. Avezzano è appena al di là della montagna. Se si dovesse ripetere il catastrofico terremoto del 1915, nessuno sa come si comporterebbero queste strutture malandate che sono la principale via di accesso ai soccorsi.
Un recente carotaggio sul viadotto Cartecchio a Teramo, pubblicizzato dalla società di Carlo Toto, dimostra che sotto lo strato di corrosione, cemento e armatura sono in ottimo stato. Ma dove i tondini esterni sono marci, comprese le staffe orizzontali che li dovrebbero trattenere, quale sarà l’effetto delle azioni sismiche sulla loro resistenza?
A prima vista il viadotto Cerchio sulla A25, qualche chilometro oltre Avezzano, è perfetto. Il nuovo intonaco ricopre completamente i piloni lungo i suoi 425 metri. Da quando sono terminati i lavori, però, uno strato di macerie si è già accumulato alla base di uno di questi. Cadono dal groviglio di ferri arrugginiti che si staccano dai punti di appoggio di due impalcati, a destra e a sinistra, su cui poco fa è passata una colonna di Tir.
Trenta minuti di autostrada più avanti, il viadotto Cocullo conferma la grave crisi nel sistema di vigilanza del ministero delle Infrastrutture. Tre anni dopo il disastro di Genova e la denuncia di un ministro, soltanto qualche pilone è stato ricoperto. Il resto è esattamente come allora. «Hanno lavorato un po’, poi sono andati via», racconta Giovanna, una pensionata che ogni sera porta qui il cane a passeggiare: «Un mese fa hanno scaricato del materiale. Ma non ho visto più nessuno. Spero che finiscano presto, prima che ci cada una pietra in testa». La grandinata di calcinacci è ovunque per terra, ai piedi dei piloni più corrosi. La superficie di calcestruzzo si sbriciola con la semplice pressione della mano. I ferri si spezzano come fossero cartone. Da una crepa, si affaccia curiosa e assonnata una lucertola. Sotto la campata successiva una colonia di formiche sbuca indaffarata dalla trama ferrosa delle armature. Tum-tum, tum-tum, mentre il cuore del viadotto continua a battere là in cima.
TUTTI IN FILA DA FIRENZE A TORINO
Si viaggia comodi solo intorno a Roma. Ma è pura illusione. Da Orte Scalo, l’Autosole torna alla stessa larghezza dell’anno di inaugurazione: da tre a due corsie. È buio, piove a dirotto. E anche da queste parti l’asfalto drenante non sanno cosa sia. Sotto le ruote dei camion in colonna lo strato d’acqua esplode in sbuffi di nebbia impenetrabile.
A Firenze il raccordo per l’autostrada A11 è chiuso per lavori. Bisogna uscire, ma nessun cartello indica la deviazione. È quasi mezzanotte. Il coprifuoco ha svuotato gli incroci e perfino il navigatore si perde. Ecco alla fine, la barriera di Prato. Biglietto, sbarra alzata e subito ci accoglie un cambio di careggiata a quaranta all’ora.
In fondo all’autostrada che porta i fiorentini al mare, lo svincolo per Viareggio e Genova è illuminato dai lampeggianti di un trasporto eccezionale. Non si passa. Su un rimorchio stanno trainando un pesante yacht largo due corsie. Cinquanta all’ora e tanta pazienza. Finalmente La Spezia.
La città più orientale della Liguria è, suo malgrado, la capitale dei ponti caduti. Almeno qui la roulette del destino non ha preteso vittime. Il 12 maggio è venuto giù il nuovo ponte levatoio della darsena di Pagliari, a ridosso del porto. L’8 aprile 2020, per una buca scavata dalla corrente, si è disintegrato il viadotto sul fiume Magra tra Santo Stefano e Albiano. Si riparte per Genova. L’autostrada A12 è praticamente su due sole corsie. Una verso Ponente, l’altra verso Levante. Gallerie da rinforzare, ponti da consolidare. Il degrado ha presentato il conto. Coda di chilometri a Nervi.
Sul nuovo viadotto di Renzo Piano i limiti sono 80, poi 60, poi un primordiale 40 all’ora. Sarà sempre così, anche senza lavori, perché il progetto ha ricopiato il vecchio tracciato. Da Genova a Savona si può comunque accelerare. Ma dallo svincolo per Torino di nuovo tutti in fila. Ancora viadotti a fine carriera, operai affacciati sul vuoto, limiti di velocità e corsie ridotte per scongiurare il sovraccarico catastrofico che diede il colpo di grazia al Ponte Morandi. Arriviamo che è sera allo svincolo per l’aeroporto di Torino Caselle, lungo l’autostrada A5 per Aosta. Poco prima dell’uscita si passa sotto il cavalcavia della provinciale 500. Lo sorreggono otto cilindri di calcestruzzo divorati alla base: tre hanno già perso diversi centimetri di diametro e la parte esterna dell’armatura è ormai ridotta a scaglie di ruggine. Nemmeno qui ci sono segni di manutenzione. Eppure è impossibile non vederli.