La mega rapina degli uomini di Totò Riina: dopo 30 anni il bottino ricompare a Trastevere

La pista seguita dai Ros dopo un sequestro di beni a una famiglia vicina ai componenti del commando che nel ‘91 eseguì il colpo sensazionale al Monte dei Pegni di Palermo. Una perizia conferma: i gioielli sequestrati sono tutti antecedenti agli anni Novanta

Un filo che lega trent’anni di storia della mafia. Un filo saltato fuori in un magazzino di Roma qualche mese fa e che, seguendolo, porta indietro nel tempo, agli anni della Palermo insanguinata dai mafiosi. Una pista suggestiva e per certi versi incredibile, quella che i carabinieri del Ros della Capitale stanno seguendo e che troverebbe conferma in una perizia appena acquisita. Una pista che da alcuni investimenti della mafia in bar ed esercizi commerciali oggi a Roma porta dritta al tesoro della Cosa Nostra di Salvatore Riina e a un colpo che fece scalpore: la grande rapina al Monte dei Pegni della Sicilcassa avvenuta nel 1991 a Palermo.  Un colpo che allora fruttò a Cosa Nostra oltre 40 miliardi di lire tra contanti, quadri, gioielli e pietre preziose. Un bottino che serviva ai corleonesi anche per pagare le parcelle degli avvocati che avevano seguito per i boss il maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Un tesoro che Riina volle in parte trasformare in lingotti d’oro poi distribuiti ai capi mandamento e che trent’anni dopo è stato trovato in un magazzino della Capitale: anzi, molto probabilmente una parte era stata appena venduta per riciclare soldi in un bar a Trastevere. Il resto invece era lì: quadri di fine Ottocento, collane di perle, bracciali Bulgari, orecchini di alto valore. Una perizia, chiesta dai carabinieri del Ros di Roma, conferma la pista suggestiva: questo tesoro è tutto datato prima del 1990 e l’uomo per il quale è stato conservato fu uno degli autori di quella storica rapina a Palermo.

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L’uomo del ritorno al futuro, il volto che collega passato e presente della Cosa Nostra potente dei corleonesi, si chiama Francesco Paolo Maniscalco: figlio di Totuccio Maniscalco e nipote di Cesare Giuseppe Zaccheroni, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova e pupillo di Salvatore Cangemi, l’ex boss che ha fatto parte del gruppo di fuoco che uccise Salvo Lima e che ha partecipato alle stragi di Capaci e via D’Amelio.

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Cangemi si pente nel 1993 ed è il primo collaboratore di giustizia a fare il nome di Silvio Berlusconi e dell’arrivo a Milano del suo stalliere, Stefano Mangano.  Morto Zaccheroni, in un incidente in moto nel 1982 mentre stava correndo verso Altavilla Milicia per comunicare ad alcuni mafiosi una imminente retata delle forze dell’ordine, Cangemi mette sotto la sua ala protettiva il giovane Maniscalco, allora poco più che ventenne. Il ragazzo è sveglio ed è lui che coordina sul campo la grande rapina del 13 agosto 1991 al Monte dei Pegni della Sicilcassa in via Calvi: in sette quel giorno entrarono nella banca e rubarono preziosi e quadri per un valore di 25,9 miliardi di lire e contanti per altri 17,5 miliardi. Il bottino venne messo in sacchi della spazzatura e borsoni e tenuto per tutta la giornata da Maniscalco, che solo la sera di quel giorno consegnerà in un capannone a Brancaccio i soldi e i preziosi a Cangemi.   

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Trent’anni dopo siamo a Roma, quartiere Trastevere. I carabinieri del Ros stanno intercettando alcuni componenti della famiglia Rubino, sospettati di essere prestanome di Maniscalco e delle famiglie di Porta Nuova e Corso dei Mille. I Rubino, palermitani trapiantati a Roma da molti anni e imparentati sia con Maniscalco sia con Zaccheroni, stanno investendo in nuove attività commerciali. I carabinieri in particolare accendono i riflettori sul bar di viale Trastevere “Sicilia è Duci” e su un’altra società appena creata dai Rubino per aprire un secondo locale sempre nello stesso quartiere, dopo che la Dia di Palermo aveva sequestrato delle quote della vecchia società appartenenti proprio a Maniscalco. Per fare dei lavori urgenti di ristrutturazione del nuovo bar la famiglia Rubino ha bisogno di soldi. E parlano quindi di alcuni beni da vendere.  In una intercettazione si fa riferimento a un noto esperto d’arte romano, Gianluca Berardi. Intercettati, Benedetto Rubino e la moglie Antonina Puleo parlano dell’imminente arrivo del gallerista per valutare dei quadri, ma emerge il timore che proprio Berardi potesse scoprire che quei quadri erano stati rubati: «Guarda che questo lo scopre che sono stati rubati 28 anni fa», dice la moglie. Poco dopo scatta un blitz dei carabinieri, che in un magazzino non molto distante dall’abitazione dei Rubino trovano ventiquattro tele e trenta pietre preziose. Tra questi un “Ritratto di bimba” di Luigi Di Giovanni, datato 1909, una “Donna nel bosco” del pittore Giuseppe Puricelli Guerra del 1869 e  una “Donna con fanciullo” di Giovan Battista Cambon datato fine Ottocento. Dalla vendita di questi beni e di una pietra preziosa i Rubino ricaveranno 70 mila euro.

I carabinieri del Ros hanno esaminato nel dettaglio questi beni per verificare se davvero potessero risalire alla rapina al Monte dei Pegni del 1991, come sembra dalle intercettazioni e da quella frase («rubati 28 anni fa») detta in un colloquio del maggio 2019. E una perizia, appena arrivata sul tavolo dei Ros e dei pm romani che indagano confermerebbe questa tesi suggestiva perché tutti i beni sequestrati, compresi bracciali Bulgari e anelli di valore, sono tutti antecedenti al 1991. Di certo c’è che al Monte dei Pegni non c’era un catalogo dettagliato dei beni rubati in quella rapina e del bottino si erano perse le tracce subito. Soltanto un gioielliere di Castelvetrano, dopo molti anni, parlerà di un incontro con Riina e Messina Denaro e della consegna di alcuni preziosi che dovevano essere valutati e che provenivano da quella rapina. Adesso, dopo trent’anni, una parte di quel tesoro sarebbe saltata fuori in un magazzino di Roma per riciclare soldi della vecchia mafia. Almeno questa è la pista seguita dagli investigatori. 

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