Giuseppe Taliercio, un uomo giusto ucciso dalle Br in un’Italia sbagliata

Il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera fu assassinato il 5 luglio 1981, dopo 47 giorni di prigionia. Ma il suo posto era accanto agli operai

Questa è la storia di un uomo giusto, vissuto e morto in un’Italia sbagliata. Per raccontarla bisogna tornare a quarant’anni fa, a mercoledì 20 maggio 1981 quando, all’ora di pranzo, alla porta di un appartamento in via Milano, a Mestre, si presentano quattro uomini. Il più anziano (se così si può dire di un trentaseienne) veste una divisa della Guardia di Finanza; gli altri tre, più giovani, sono in borghese. Alla donna che viene ad aprirgli dicono di aver bisogno di parlare con il marito per mostrargli dei documenti. Lei li fa accomodare, chiede se gradiscono un caffè quand’ecco che spuntano le pistole e due parole ben note e lugubri: “Brigate Rosse”. Uno dei figli presenti in casa, il maschio, si fa avanti per difendere il padre, ma basta uno schiaffo per metterlo da parte; un’altra figlia si mette a pregare. Intanto il padrone di casa viene infilato a forza in una cassa e portato via dai suoi famigliari, stesi a terra incatenati e imbavagliati. Non rivedranno più da vivo il loro marito e padre, Giuseppe Taliercio.

Chi era costui? A dirla in breve, il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera. E queste poche parole trasmetterebbero l’idea di una persona di cui aver poca considerazione: colui che mandava avanti una fabbrica di veleni, quella che già negli anni ’70 veniva definita come un “crimine di pace” e la cui azienda proprietaria vedeva storpiato il proprio nome in “Mortedison”. Perché di vittime quello stabilimento se n’era già lasciate dietro parecchie, in particolare nel decennio precedente ai fatti appena narrati, per le intossicazioni dovute a quasi quotidiane fughe di gas che investivano i lavoratori, culminate nell’esplosione del 22 marzo 1979 che fece tre morti e dodici feriti. E per ogni “incidente” i comunicati dei piani alti parlavano di “mera fatalità” o di “errore umano”. C’era poi l’avvelenamento delle acque e dell’atmosfera: nel 1998, quando partirono le procedure per la bonifica di Porto Marghera, nell’area del Petrolchimico vennero identificati 1.498 camini da cui venivano immesse annualmente nell’aria 53mila tonnellate di 120 sostanze tossiche. E per finire le tensioni legate a licenziamenti, cassa integrazione e blocco del turnover costanti, anno dopo anno, capaci di rendere la pianta organica sempre più anziana e sempre più arrabbiata.


In questo clima Giuseppe Taliercio, entrato in Montedison 25 anni prima da giovanissimo neolaureato in ingegneria, accettò l’incarico di direttore del Petrolchimico. Forse, in cuor suo sapendo che si stava mettendo davanti al mirino di tanti nemici. A cominciare proprio dalle Brigate Rosse che, pochi giorni dopo la sua nomina, uccisero il suo vice, Sergio Gori, freddato sotto casa il 29 gennaio 1980. Qualche mese dopo le Br colpirono di nuovo: ancora in un agguato nei pressi della propria abitazione cadde il 12 maggio il commissario Alfredo Albanese, responsabile dell’antiterrorismo a Venezia, che si stava avvicinando ai colpevoli del delitto Gori, la Colonna veneta “Annamaria Ludmann – Cecilia”.
Che aspettò altri 12 mesi prima di passare all’azione contro il più alto dirigente dello stabilimento dei veleni, la vittima sacrificale per mostrare alle masse in fabbrica un orizzonte rivoluzionario, insomma il bersaglio più grosso. Il bersaglio sbagliato.

 

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Perché Giuseppe Taliercio non era un burocrate appassionato di tagli del personale e di massimizzazione del profitto. Era un tecnico e come tale sentiva che il suo posto era accanto agli operai, lì dove passavano le loro giornate, respirando la stessa aria, preoccupandosi per le loro condizioni. Anche al di fuori dell’orario di lavoro. Con la Società della San Vincenzo De’ Paoli (organizzazione caritativa cattolica) si recava in visita agli operai vittime di infortuni e più di una volta si premurò di far avere a chi ne aveva bisogno costose cure mediche. Si sforzò di aggiornare le procedure di sicurezza nei reparti, di incentivare le bonifiche degli scarichi, di chiedere all’azienda nuove forze per poter mandare avanti la produzione. E di fronte all’inanità dei propri sforzi chiese e ottenne la rimozione dall’incarico. Era in procinto di andarsene, finalmente.


Allora perché le Br scelsero di colpire lui? «Quando si decise di passare all’azione fu naturale puntare su Taliercio, perché era il direttore, ma noi non sapevamo niente di lui», ricorda Gianni Francescutti, l’uomo con la divisa da finanziere il 20 maggio del 1981. Il rapimento venne ideato da Mario Moretti nell’ambito della Campagna delle Fabbriche, che doveva riportare le Brigate Rosse più vicine alle masse operaie, e viceversa. Ma Moretti venne arrestato un mese prima di dare il via al sequestro. Che a quel punto venne gestito dai membri superstiti dell’Esecutivo brigatista: Barbara Balzerani, Luigi Novelli e Antonio Savasta. Fu quest’ultimo a guidare il commando che fece irruzione nell’appartamento di via Milano, l’ultimo ad andarsene da quella casa, mentre il prigioniero era già sulla via di Tarcento, nei pressi di Udine, dove venne rinchiuso in una soffitta, incatenato a una brandina, per 47 giorni.
Sparì dalla vista degli uomini, Giuseppe Taliercio, e piano piano anche dall’attenzione dell’opinione pubblica. C’era troppo da raccontare in quei giorni del 1981, troppo per cui indignarsi o preoccuparsi. Solo una settimana prima, il mondo era rimasto col fiato sospeso per la sorte di Giovanni Paolo II: in piazza San Pietro, tra la folla radunatasi per l’udienza generale del mercoledì un killer turco (armato dai servizi segreti del blocco sovietico) aveva sparato contro il primo Papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo; ricostruzioni, indagini e bollettini medici invasero i giornali. Come pure, dal 21 maggio, la diffusione degli elenchi degli appartenenti alla loggia massonica P2, scoperti a marzo in una perquisizione nella villa di Licio Gelli e rimasti per due mesi nei cassetti di Palazzo Chigi, all’epoca guidato da Arnaldo Forlani, e resi pubblici solo il 21 maggio. Ne seguì una crisi di governo, un tentativo di reincarico a Forlani e infine la nomina del primo Presidente del Consiglio non democristiano della storia repubblicana, Giovanni Spadolini. E poi l’Italia finì nel pozzo di Vermicino, che non inghiottì solo la vita del piccolo Alfredo Rampi, ma pure la trepidazione di un’intera nazione collegata per tre giorni di fila con un angolo di campagna romana presidiato da forze dell’ordine, vigili del fuoco e perfino dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, coro tragico intorno a una famiglia il cui tormento tenne a battesimo la tivù del dolore in un’estenuante diretta.

Come poteva la sorte di un oscuro dirigente di un’odiata fabbrica di veleni confinata in un angolo di Nordest appassionare un Paese logorato dallo stillicidio della violenza terroristica? Senza dimenticare che quelle settimane del 1981 furono l’apice della concorrenza tra le diverse ramificazioni delle Brigate Rosse, ognuna occupata a gestire un sequestro. Se Taliercio venne preso dalla Colonna veneta, facente capo al Centro Romano, quella milanese, la “Walter Alasia”, il 3 giugno rapì il direttore della produzione Alfa Romeo, Renzo Sandrucci; mentre già dal 27 aprile l’assessore della Regione Campania Ciro Cirillo era nelle mani del Partito Guerriglia di Giovanni Senzani. Il quale, il 10 giugno, organizzò il rapimento di Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito delle Br.
Quattro uomini nelle mani dei terroristi rossi, solo due fecero ritorno a casa: Sandrucci e Cirillo. Peci cadde nel delirio di una vendetta trasversale di stile mafioso.


E Taliercio? Pagò l’abbandono da parte del mondo del Petrolchimico: da un lato la Montedison, che non si premurò di creare iniziative per la sua liberazione; dall’altro gli operai, in maggioranza accecati dal rancore per le condizioni di lavoro patite, per la stanchezza e il malessere accumulato in uno stabilimento malsano e vecchio. Ma pure Taliercio scontò la propria incapacità di alzare la voce: mai da dirigente lo aveva fatto, cercando piuttosto la mediazione e il consenso; l’unica lettera uscita dalla “prigione del popolo” è indirizzata al Sindacato dei dirigenti d’azienda, contiene parole smussate, stranianti di fronte al dramma che stava vivendo. Un dramma in cui gli stessi brigatisti persero il proprio ruolo, incapaci di intravedere le ragioni di quanto si stava compiendo: «Che cos’è un rapimento se non un’azione propagandistica?», rimugina ancora nel suo mea culpa Francescutti: «Però un rapimento che finisce con un assassinio significa che tu non sai più cosa fare, non hai un obiettivo, non riesci a dialettizzarti in una lotta politica».


Ed è così che muore Giuseppe Taliercio, abbandonato da chi non seppe ascoltare le suppliche dei suoi famigliari (fatta eccezione per Radio Radicale): la moglie Gabriella, i figli Elda, Bianca, Lucia, Cesare e Antonio. A loro provava a scrivere Taliercio dalla sua prigione e poi, disfatto, stracciava tutto; e loro ricordava nelle sue preghiere, di cattolico devoto a un Dio di misericordia. Una misericordia che non provarono i suoi carcerieri, che negli ultimi giorni di rapimento lo lasciarono digiuno a consumarsi alla catena. Fino al momento di infilarlo nuovamente nella stessa cassa di 47 giorni prima e ucciderlo con 17 colpi di pistola, per farlo ritrovare nel bagagliaio di un’auto all’alba di domenica 5 luglio nei pressi del Petrolchimico.


La domenica diversi giornali, allora, non lavorarono. Così pubblicarono la notizia dell’assassinio di Taliercio due giorni dopo, il 7 luglio, occupando solo metà delle prime pagine.
Ed è una memoria dimezzata quella che è rimasta di un uomo che, al pari di altre vittime degli anni di piombo (Moro, Bachelet, Ruffilli, solo per citarne alcuni) che rappresentavano le migliori energie dell’Italia, anime di dialogo e di visione profonda che con la loro mitezza minacciavano le strategie di odio e di violenza.

Ma la storia va avanti. Con l’arresto, i processi e le condanne dei rapitori di Taliercio. Tra loro Antonio Savasta, colui che premette il grilletto 17 volte contro quel che rimaneva del prigioniero, e che scrisse nel 1985 una lettera alla vedova, Gabriella: «Suo marito, in quei giorni, è stato come lei lo descrive: pacato, pieno di fede, incapace di odiarci, e con una dignità altissima. È vissuto serenamente, anche se i suoi pensieri e le sue preoccupazioni andavano a voi. Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita e io, in particolare, non capivo dove prendesse la forza per sentirsi sereno, quasi staccato dalla situazione drammatica che viveva. Ha lottato per affermare anche a noi, che parlavamo un linguaggio di morte, il diritto alla vita, suo e di tutti. Lo so, signora, che questo non le restituirà molto. Ma sappia che dentro di me ha vinto la parola che portava suo marito».

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