È estate e il corpo vuole giustizia. Esce dagli stracci che lo ingabbiano e si affida alla temperatura.
Muta la gestualità, non c’è più la camicia a proteggere, la cravatta a strangolare, la gonnella a svolazzare. C’è la pelle appena, bianca perché da molto coperta, liscia perché infida, livida perché poco accoppiata; candida nemmeno a spifferarlo.
Non potrà mai la pelle di una testa bifida definirsi candida con la ragione che ogni giorno la rastrella. Maschi e femmine, le sole due categorie che ci è concesso, calano in spiaggia e accompagnano la sciatteria a un metro dalla riva. Ognuno parla e muove le braccia con un’approssimazione che stordisce, il mare copre lo schiamazzo inaugurale, le mamme vanno di corsa gobbe appresso ai figli in fuga. I bimbi fanno gobbi i genitori, accorciano l’amor proprio e spezzano la schiena. Quante persone ho visto ricurve a inseguire un figlio che se ne sbatte del padre accartocciato.
Questo degrado, la mamma che strilla, l’infante che piange, quello che vende il cocco, il bagnino che fischia, l’acqua che scroscia, le voci assordanti, tutto un turbinio senza che nulla accada. È solo gente che per sentire meno caldo va dove tira il venticello. Il vecchio che si lamenta dell’ombra insufficiente, la moglie curva perché il vecchio non si muove più e quindi la coniuge, già consumata dal fatto di essere stata mamma gobba, ancora più inarcata perché adesso è vecchia corta. Una vita tracagnotta per stare più vicini a qualche chiappa da pulire.
Perché c’è anche il papà con i muscoli prestanti che insegue la bambina e flette la colonna che mai più si raddrizza, c’è il venditore di vestiti che piega le spalle sotto il peso della merce, c’è il nonno che spinge la consorte in carrozzina e fa la parodia su quattro ruote di quella mamma che rincorre il pargoletto. E così passa l’estate, tra versi, ammonimenti, lombi oltraggiati, derma che si brunisce, ossa che s’insaccano. Se fosse eterna moriremmo arcuati.
E poi c’è il chiacchiericcio diffuso, antagonista della brezza leggera, parole sussurrate come fosse amore e invece sono le stronzate sotto ogni ombrellone. Ma l’orecchio percepisce un suono indefinito, che ha il sapore della confidenza, di tanti segreti ognuno appresso all’altro, non si capisce una parola e si fa largo il turbamento.
L’odore dei corpi ammassati si mescola alle creme per non scottare la cute. La paura di bruciarsi alimenta la fiamma di questo sole che non ha pietà. Il bagnino buca la sabbia con il randello che attacca all’ombrellone, l’arena profanata da bastoni a punta arrotondata, infilati a forza contro il volere della terra. Almeno fosse lungo il perticone tanto da traforarla tutta questa zolla infame per poi spuntare all’altro capo, dove la notte è ancora buia.
E se la notte è scura, dalla parte opposta ancora si sonnecchia e stai a vedere che la punta che il bagnino infossa va a finire nel sedere di chi ronfa nell’emisfero australe. Brutto risveglio col bastone in corpo ma almeno il parasole stai sicuro che non vola. Ecco la spiaggia che vorrei l’estate, con gli ombrelloni saldamente ancorati ai retrotreni dell’emisfero sottostante, dove gli strepiti per il forte trauma squarciano la tenebra come fosse tuono.
E dai buchi fatti a settentrione, filtrano le urla a mo’ di temporale e chi sta all’ombra con le chiappe intatte pensa che scroscia sopra il parasole. E raccatta oggetti, parenti, secchielli, vecchi, amici, e corre via quando non piove ancora. E mai pioverà. Hanno confuso il tuono per un culo rotto lì dove l’alba si deve ancora fare. Ma poi subentra la saggezza dei più anziani che spiegano ai bambini che i rimbombi a ciel sereno e senza lampi erano gli strilli di chi sta sotto ad aspettare la stagione buona per piantare l’ombrellone suo. E la vacanza procede ingovernabile, trascina tutti a un passo dalla sponda, come cammelli in cerca di bevuta, ammasso di esemplari a petto nudo che d’inverno lavorano e d’estate affogano.
Altri se ne stanno stesi a tinteggiarsi con il sole che è leone. Gobbi o stesi, flessi o orizzontali, questa è la bella stagione. Ogni tanto una camminata di fianco alla renella per far finta che il fatto sia normale. E poi nell’acqua, come fosse benedetta, tutti a mollo a nascondere cifosi, alluce valgo, cellulite, palle flosce, ognuno a cercare un miracolo che l’acqua salata non può sostenere. L’acqua salmastra non è santa perché è troppa, non esiste un mare beato, non c’è una distesa infinita benedetta da un Dio come sempre ridotto a dilettante, a bambolotto di quartiere.
L’acqua di Lourdes, quella delle boccette, delle vaschette in chiesa, è acqua di modesta quantità: lì, il Dio che sminuiamo, riesce a benedirla tutta, sotto i trentatré centilitri il Signore dà spettacolo. Ma sopra è un principiante. Non sappiamo credere in un Dio onnipotente perché neghiamo a lui l’immensità. Dio ha consacrato il liquido solo quando è poco. Non lo abbiamo fatto capace nemmeno di uscire dalla bacinella, ne facciamo un Dio da toletta, da sciacquone, da fromboliere di acque rotte. Dio è solo in linfa breve, in bottiglietta, in aspersorio, forse in acquolina, quella della bocca che precede l’appetito.
La fame nel mondo, figlia del languore, effetto estremo dell’acquolina delle fauci, doveva essere santa perché esigua: si è trasformata invece in flagello universale per colpa della modestia del fedele. Triste essere Dio quando chi ti crede è poca cosa.