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L’Italia continua a finanziare la Guardia Costiera in Libia Bisogna andare via? No. Ma si devono vincolare i fondi al controllo internazionale delle strutture. E scongiurare l’azione delle milizie che trasferiscono i migranti in campi illegali

L’esperienza di questi anni ci ha convinti della necessità di risolvere le criticità, proprio ad iniziare dall’urgente questione dei centri. Promuovendo l’intervento delle agenzie delle Nazioni Unite e il coinvolgimento di un ampio numero di Paesi e organizzazioni non governative”. Potrebbe sembrare una dichiarazione di due settimane fa, rilasciata a cavallo del rifinanziamento delle missioni all’estero. Invece no. Sono parole pronunciate dalla ministra Lamorgese alla Camera il 6 novembre del 2019, due anni fa. Si discuteva del Memorandum d’Intesa tra l’Italia e la Libia, delle necessarie modifiche da negoziare, degli abusi nei centri. Quali fossero le condizioni nei centri di detenzione – luoghi di reclusione arbitraria e indefinita - era già noto a tutti, l’ultimo rapporto ONU era stato pubblicato 15 giorni prima dell’audizione della ministra alla Camera, il segretario generale delle Nazioni Unite in persona, Antonio Guterres, si era detto allarmato per le sparizioni, le esecuzioni e le torture subiti dalle persone migranti. Erano ampiamente note le commistioni tra pezzi delle istituzioni libiche e la catena del traffico di uomini e per istituzioni si intendeva già – con prove e documenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - la Guardia Costiera Libica.

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Aggiunse, la ministra Lamorgese, che era necessario ‘rafforzare le iniziative in difesa dei diritti umani, responsabilizzando le autorità libiche’. La sede per rafforzarle avrebbe dovuto essere la commissione congiunta italo-libica, l’organo preposto a cambiare il Memorandum.

Sono passati due anni, due governi in Italia e altrettanti a Tripoli, eppure nessun tavolo negoziale è stato attivato. Quelle della ministra erano richieste doverose allora, restano richieste inascoltate oggi e suonano come un disco rotto ogni estate quando il Parlamento è chiamato a votare il decreto missioni, cioè i soldi dei contribuenti destinati al finanziamento delle missioni militari all’estero tra cui – naturalmente – le missioni in Libia. Tre mesi dopo le dichiarazioni della ministra Lamorgese del 2019 seguì il rinnovo del Memorandum senza sostanziali modifiche se non un generico impegno a inserire una clausola per consentire una rinegoziazione. L’impegno, però, negli anni si è tradotto in una simbolica cambiale.

All’Italia tocca il tempo futuro del pagherò (e paga sempre), alla Libia quello del rinegozieremo (e non rinegozia mai). Quest’anno in Parlamento si è aggiunta la cambiale del ‘verificheremo’, mediazione raggiunta dal Pd col governo Draghi per scontentare tutti e non scontentare nessuno. Si decide cioè di non decidere. L’anno scorso il PD in Parlamento votò a favore del Decreto Missioni, di fatto disattendendo la pozione emersa dall’assemblea del partito (cioè il suo organo piu’ alto) che aveva chiesto di interrompere immediatamente i rapporti con la Guardia Costiera libica. Era il Pd di Zingaretti, sono passati dodici mesi e il Pd è quello di Letta, cioè il segretario a cui l’Italia deve la missione Mare Nostrum, l’operazione di salvataggio nel Mediterraneo che segui’ la strage del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa.

Il Pd di Letta, almeno idealmente piu’ vicino dei suoi predecessori al mondo dell’associazionismo e delle Ong, non poteva presentarsi all’appuntamento estivo col decreto missioni senza una proposta così, dopo numerose discussioni interne, è maturato il compromesso che dall’ “emergenza migranti” (che non esiste nei numeri) si esca solo trasformandola in una questione che riguardi tutti gli stati membri (coinvolgimento già fallito dopo la Conferenza di Malta). Così il PD ha chiesto e ottenuto di inserire nel testo un emendamento che prevede il ‘superamento della missione’ e il trasferimento delle responsabilità di addestrare la Guardia Costiera Libica alla missione militare IRINI, cioè all’Europa. Il testo dell’emendamento recita “con riferimento alla missione bilaterale di assistenza alla guardia costiera della Marina militare libica ed alla General administration for costal security si propone di autorizzarla, impegnando il Governo ad una verifica per superare, nella prossima programmazione, la suddetta missione, proponendo di trasferire le funzioni della stessa alla missione bilaterale Miasit Libia e alla missione Irini”.

Al termine dei consueti giorni estivi di dibattito interno al Pd il Parlamento ha - prevedibilmente - approvato il rifinanziamento, il partito si è detto soddisfatto e la questione rimandata al prossimo anno. Ma è vera gloria? Non proprio.

Le basi della proposta del Pd sono sostanzialmente due: 1) l’Italia non può farsi carico da sola della questione migranti, il problema deve essere gestito dall’Europa che deve istruire e equipaggiare la Guardia Costiera e gestire i flussi 2) non possiamo lasciare la Libia in mano ai Turchi e ai Russi, andarcene sarebbe un errore. Andiamo per gradi. L’Italia non si fa economicamente carico da sola della questione migranti perché l’Europa già finanzia le missioni in Nordafrica, fra il 2014 e il 2020 l’Unione Europea ha versato circa 698 milioni di euro alla Libia, mentre nel 2019 Euronews aveva calcolato che fra il 2017 e il 2019 – i primi anni di applicazione del memorandum – l’Italia aveva girato alla Libia circa 375 milioni di euro.
In piu’ la missione IRINI - continuazione della controversa Operazione Sophia - ha come obiettivo principale quello di monitorare il rispetto dell’embargo sulle armi in Libia e contrastare il traffico di carburante e solo poi – come obiettivo secondario – quello di addestrare la Guardia Costiera Libica, obiettivo comunque mai posto in essere perché non sono state raggiunti gli accordi con le fragili istituzioni di Tripoli.

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La solidarietà degli stati membri sui corridoi umanitari è poi un’altra partita ancora, perché la rigidità dell’Europa sui ricollocamenti sembra non essere scalfita neppure dalla credibilità internazionale di Mario Draghi e il testo dell’emendamento che ha placato gli animi inquieti del Pd ‘impegnando il Governo ad una verifica’ piu’ che un compromesso è una mistificazione. Cosa bisogna verificare? E con chi? Con l’Europa del Patto sull’Immigrazione che ha come suo cardine la facilitazione dei rimpatri? Con i paesi scandinavi che hanno inaugurato le revoche della protezione umanitaria, o con il blocco di Visegrad? E in quanto tempo si verificherà? Piu’ o meno del tempo che il Consiglio d’Europa ha destinato il 24 giugno scorso al fenomeno migratorio: otto minuti per stabilire che le politiche migratorie future debbano avere una ‘dimensione esterna’ cioè subappaltare la questione, come è stato fatto con la Turchia e come si continuerà a fare coi paesi del Nordafrica. Alla luce di queste premesse, certo, il ‘verificheremo’ è un’ipocrisia, come le modifiche sempre rimaste eventuali al Memorandum. Il Pd chiede anche di chiudere i centri di detenzione e spingere la Libia a firmare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

E’ evidente però, a quattro anni dall’accordo stretto dall’allora governo Gentiloni con l’allora governo Sarraj, che quei fondi abbiano rafforzato il sistema dei centri anziché aiutare a combatterlo. Nel dibattito pubblico le posizioni si dividono più spesso sulla Guardia Costiera, anche perché le poche navi delle ONG rimaste nel Mediterraneo continuano a documentare gli abusi dei libici a bordo delle motovedette fornite dall’Italia, come è accaduto al video registrato e diffuso da Sea Watch a cavallo del voto, ma si cita sempre troppo poco l’articolo del Memoradum che parla dei centri (ribadiamolo: definiti di accoglienza sebbene siano centri di detenzione per la legge libica). Recita il testo che le ‘Parti si impegnano all’adeguamento e al finanziamento dei centri di accoglienza già attivi, attingendo ai finanziamenti disponibili da parte italiana e a finanziamenti dell’Unione Europea.La parte italiana contribuisce attraverso la fornitura di medicinali e attrezzature mediche a soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria dei migranti irregolari, per il trattamento delle malattie trasmissibili e croniche gravi.”


Peccato però che come sottolineato più volte negli anni dalle organizzazioni umanitarie, dei soldi che arrivano in Libia si perda traccia, è impossibile monitorare come vengano spesi e in che mani finiscano. Per questa ragione quelle stesse organizzazioni chiedono da anni, senza ottenerla, l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fondi in Libia. Quello che è certo è che quei soldi arrivino dall’altra parte del Mediterraneo, ogni anno a metà estate ed è quindi stravagante supporre che si possa da un lato rinnovare un finanziamento per i centri di detenzione e dall’altro chiedere al medesimo stato che riceve quei fondi, di chiuderli tutti e subito e organizzare qualche decina di corridoi umanitari. La verità, irritante ma limpida, è che il Memorandum Gentiloni-Sarraj ha rafforzato il sistema dei centri di detenzione, rendendolo una ufficiale fonte di entrata per istituzioni che già nel 2017 erano ampiamente compromesse. Oggi quelle istituzioni sanno che si guadagna non solo pattugliando il mare, ma anche costringendo in detenzione arbitraria migliaia di persone. E sanno, perché ogni anno la nostra inerzia lo ribadisce, che nessuno chiede conto dell’utilizzo di quel denaro.


Oxfam, aggiornando i dati sulle spese militari dell’Italia in Libia, ha rilevato che nel 2021 sono cresciuti di mezzo milione di euro i finanziamenti destinati al blocco dei flussi migratori, da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021. In totale sono 32,6 i milioni destinati alla guardia costiera libica dal 2017; salgono a 271 i milioni spesi dall’Italia per le missioni nel paese. Dice il Pd, poi, che non si può lasciare la Libia alle potenze straniere che l’hanno trasformata nel terreno di uno scontro per procura. Vero. Con un però. La Libia è già ampiamente influenzata dalla Turchia e dalla Russia, lo è economicamente (leggasi ricostruzione), lo è militarmente (nonostante gli accordi sul cessate il fuoco ci sono nel paese ancora ventimila mercenari e la Turchia addestra i militari libici nelle basi che ha saldamente stabilito nel paese), e lo è politicamente. E’ evidente che la strategia per evitare che queste potenze prendessero piede – se c’era – non ha funzionato.

Come mediare, dunque? Andando via o restando? La riflessione che realisticamente dovrebbe fare il Parlamento non è se restare o meno, ma come. Smantellare le tifoserie, la retorica che ha ammantato e ammanta da anni il dibattito sul fenomeno migratorio e liberarsi dalle ipocrisie delle invasioni presunte ma anche da quelle dei buoni sentimenti. Possiamo andarcene dalla Libia? No. Ma prima di chiedere ad altri di assumersi delle responsabilità, dobbiamo assumerci il peso dei principi europei che sbandieriamo, cioè il rispetto dei diritti umani. Vogliamo la chiusura dei centri? Sì, ma da dove si comincia? Sbugiardando gli interlocutori. Vincolando l’erogazione dei fondi a delle condizioni su cui ci è impossibile negoziare, chiedendo – per esempio – la presenza nei centri di detenzione 24 ore al giorno, sette giorni su sette di uno staff internazionale, che possa monitorare la gestione delle strutture, l’accesso medico, e scongiurare la presenza di milizie che, come sappiamo, raggiungono i centri nottetempo per trasferire i migranti nelle strutture illegali. Chiedendo dei rapporti annuali sulla destinazione finale dei fondi erogati dall’Europa e dall’Italia. Dove finiscono, e come vengono spesi? Cominciamo a chiederlo, rifiuteranno di rispondere, possiamo prevederlo. Ma solo su questo rifiuto, su un velo di Maya davvero squarciato, l’Europa potrà agire con coscienza e lungimiranza in Libia. Con un piano e non con una cambiale. Con un ‘cambieremo’ a sostituire un ‘verificheremo’.

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