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Cultura
settembre, 2021

Viaggio nelle ceneri del comunismo

Il crollo di un sistema economico. L’importanza di credere. Il nuovo libro di Ece Temelkuran, già autrice di “Come sfasciare un paese in sette mosse”

Ok, facciamo così. Ci mettiamo al centro della stazione e giriamo sul posto con gli occhi chiusi. Quando ci fermiamo, apriamo gli occhi e, qualsiasi città appaia nel cartellone pubblicitario che ci ritroviamo di fronte, è lì che andremo».


Mi era venuto in mente di fare questo gioco alla stazione degli autobus di Ankara, la capitale turca, nella primavera del 1991, con un gruppo di amici tutti annoiati come me dei nostri studi in legge. La sfida sarebbe stata quella di tornare a casa da qualsiasi posto in cui fossimo finiti. I soldi che avevamo erano sufficienti soltanto per raggiungere la destinazione; il resto stava nelle nostre capacità di sopravvivenza, alimentate dalla nostra illimitata fiducia in noi stessi. Dopo la fatidica rotazione, la nostra meta era fissata: Trebisonda, una città sul Mar Nero vicina al confine con l’Unione Sovietica, che era crollata proprio quell’anno. E così, a meno di dodici ore dal momento in cui avevamo iniziato a girare su noi stessi, ci eravamo ritrovati a vagare pigramente in un nuovo mercato delle pulci, messo su da un giorno all’altro, che la gente del posto chiamava il “bazar russo”. Era il luogo in cui un regime caduto trasformava gli oggetti quotidiani di un popolo in souvenir del socialismo fallito.


Dalla caduta dell’Unione Sovietica, le medaglie per le quali molte persone erano morte e avevano ucciso erano diventate accessori alla moda da appuntare sui cappotti degli studenti universitari; e chissà che fine hanno fatto tutte quelle vecchie maschere antigas. Fra grossi termometri, pellicce spelacchiate e cinture militari, c’erano orecchini di ceramica spaiati, teiere decorate con le foglie di tè ancora dentro e piattini senza tazze. La svolta della storia era stata così improvvisa che non c’era stato nemmeno il tempo di lavare i piatti. Il bazar era insolitamente silenzioso, non solo perché i venditori erano ancora ancora nuovi all’economia del libero mercato, ma anche perché erano lì con l’ingrato compito di vendere né più né meno che le loro vite.
A un certo punto un sussurro troppo vicino mi solleticò la nuca: «Ehi Natasha, sesso?».

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L’alito untuoso di quel giovane mi fece sentire il bisogno di strofinarmi l’orecchio. Nel vedere i suoi occhi lussuriosi, feci un salto indietro e subito risposi: «Non sono russa». Le sue scuse furono altrettanto rapide: «Oh, scusa sorella». Natasha era un nome comune per le donne russe in vendita, e io avevo la fortuna di essere figlia di un’ideologia ancora funzionante: il capitalismo. Ero fuori mercato. Dunque ero salva.
Le donne del mercato mi apparvero improvvisamente come un tutt’uno con gli articoli disposti sui tavoli, e mi pareva di vedere anche i cartellini del loro prezzo. Il silenzio si trasformò da malinconico a disgustoso. Mentre fra i think tank occidentali si inneggiava festosamente alla «morte del socialismo», e alcuni banditi dalla mentalità imprenditoriale stavano trasformandosi in neofiti oligarchi russi, in mercati come questo, nei paesi che circondano l’ex Unione Sovietica, c’erano anche degli uomini che non vendevano altro che una sola scatoletta di caviale e una bottiglia di vodka russa. Con gli occhi completamente vuoti, fumavano sigarette a buon mercato e portavano baffi marxisti che nel giro di una notte si erano trasformati in un trucco da dramma in costume. Coloro che hanno vissuto quei periodi ricorderanno che l’unica cosa più devastante della morte di un commesso viaggiatore era la sua forzata nascita prematura.
«Il capitalismo ha bisogno di un reset», dichiarava la prima pagina del Financial Times.


Il giornale stava quasi implorando quelle negligenti divinità responsabili del denaro. Anche se da anni, nei loro esclusivi summit, i saggi dell’economia del libero mercato sostenevano che il capitalismo stava entrando in un vicolo cieco, l’annuncio pubblico è stato comunque sconvolgente. Come se, per il fatto stesso di pronunciare la parola «capitalismo», il giornale stesse ammettendo che era solo un modello economico e politico, non lo stato naturale del mondo. Suonava come una confessione del capitalismo stesso: c’è vita oltre questo modello, o almeno oltre questa sua versione selvaggia.


Oggi, benché sempre più persone si rendano conto che stiamo assistendo al collasso di un modello economico, la domanda può ancora sembrare surreale: ma quale aspetto avrebbe un mercato delle pulci del capitalismo collassato? Accanto ai miliardi di articoli assolutamente inutili, scommetto che ci sarebbero pile di libri di auto-aiuto per il successo individuale e pile altrettanto grandi di libri sui benefici della sconfitta. Le due pile più corpose, però, sarebbero di libri che tentano di reinventare la speranza, e di altri che parlano di distopie senza speranza. Nella mia immaginazione, ci vedo sorridere disperati guardando questi due mucchi di souvenir che quasi si annullano a vicenda. E noi come saremmo? Be’, più o meno come siamo oggi: le vittime di un progetto fallito, smarriti e confusi. Forse solo i nostri filtri Instagram continuerebbero a darci un aspetto migliore rispetto a quei cittadini dell’ex Unione Sovietica nei bazar russi. Ma prima o poi dovremmo riconoscere che ciò che riduce gli esseri umani a brandelli è la perdita di direzione, e renderci conto della nostra capacità di credere di essere abbastanza competenti per trovarne una nuova. È proprio ciò che oggi ci induce a domandarci: «Gli esseri umani sono guasti e quindi superflui?» E questo ci fa perdere la fiducia nel genere umano.


“Fede” è l’unica parola che può accogliere allo stesso tempo tutti quei concetti che sembrano essere in frantumi: autostima, sicurezza di sé, fiducia. La parola fede, però, ci richiede di camminare sulla linea di confine tra la poesia e il regno nebuloso della teologia. Entrambi i campi richiedono un lessico diverso da quello che questo mio libricino può offrire. Fede suona religioso perché per migliaia di anni ha rappresentato l’abitudine di rendere Dio o altri dèi la stella polare della nostra capacità di credere. È stato più facile permettere al misticismo di monopolizzare il concetto di fede perché il nostro talento nel credere è troppo temibile per essere collocato nell’ambito della vita terrena. La parola stessa ha un potenziale pericoloso, quasi esplosivo. Perciò è sempre stato più sicuro avvolgere questo nostro potere illimitato nel divino e spostarne la fonte da qualche parte al di fuori del nostro essere mortali.


Il pensiero di sinistra si è spesso tenuto lontano dal concetto, anche sogghignando come ho fatto io davanti alla croce di quella donna a Edimburgo, perché, al di là delle ragioni filosofiche, la parola fede è solita sfuggire di mano. Essa crea un rapporto pericoloso tra i mortali, trasformandoli in ciechi seguaci e, non di rado, in bestie crudeli. Solo se riconoscessimo l’idea di Dio come una nostra invenzione, cioè come qualcosa che sia impossibile contaminare e quindi l’intermediario più sicuro tra noi e gli altri in questo mondo insensibile, potremmo riuscire a collocare la fede in questa nostra realtà terrena.


Lascerò Dio nel regno della poesia e della teologia e, invece, fornirò qualcosa di più simile alla fastidiosa scossa che diamo a qualcuno che si addormenta nella neve del cinismo e della depressione che sembra così calda. Ecco un’altra sfida per mettere alla prova queste considerazioni sulla fede nell’umano, questa volta in un luogo sacro. È la basilica palatina di Santa Barbara, nell’antica città italiana di Mantova.


Per chiunque provenga dal mondo musulmano sunnita è pressoché impossibile immaginare di tenere un discorso su un libro politico in un luogo sacro. Se sei una donna che deve entrare nella moschea da una porta laterale, cercando di nasconderti dalla congregazione a dominanza maschile, è una sensazione particolarmente strana entrare in una chiesa ed essere accolta all’altare. Eppure eccomi qui, in questa basilica del XVI secolo, stordita dall’eco della mia stessa voce mentre dico: «Non credo in Dio, ma negli esseri umani».


Anche quando dico che non abbiamo bisogno della religione per avere fede e fiducia l’uno nell’altro, l’eco avvolge le mie parole in una certa aura di divinità. Il silenzio si trasforma da quello dell’ordinaria curiosità degli ascoltatori alla gioiosa unicità di una congregazione quando menziono le parole «fede nell’umanità» e «bellezza dell’umano». Sento sospiri di sollievo.


È l’Italia, dopotutto: quando il resto del mondo occidentale non aveva la minima idea dell’insanità politica e morale, gli italiani avevano Silvio Berlusconi, che era più divertente di Boris Johnson e molto più pericoloso di Donald Trump. Sono stati la prima nazione in Europa a sperimentare la brusca svolta della storia, mentre il resto del mondo occidentale pensava che fosse una temporanea follia mediterranea. Gli italiani sono stanchi della vergogna di essere rappresentati dal peggiore di loro, cosa che, nonostante i loro climi più freddi, ora accade anche nelle democrazie più mature e nei paesi economicamente più forti.


© 2021 Bollati Boringhieri editore, Torino
per il tramite della Berla & Griffini Rights Agency
Traduzione di Giuliana Olivero

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