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Economia
settembre, 2021

Ecco chi vince la guerra del clima: gli speculatori che giocano in Borsa sulla CO2

Bruxelles cambia le regole sul trading dei diritti di emissione. Anche per bloccare i gruppi cinesi che godono di regole ambientali meno severe di quelle europee. Ma serviranno anni per attuare le riforme. Intanto gli investitori finanziari guadagnano miliardi. E la lotta al riscaldamento globale arranca

Il felpato Giancarlo Giorgetti ha sollevato il problema a modo suo. Poche parole in un ampio discorso sulla sostenibilità ambientale davanti alla platea del Meeting di Rimini, l’annuale evento organizzato a fine agosto da Comunione e lavorazione. «Mi stanno bene gli obiettivi di tagli alle emissioni fissati a livello europeo», ha premesso il ministro dello Sviluppo economico, per poi venire al punto. «Non vorrei però trovarmi - ha concluso Giorgetti - nella situazione in cui l’Italia produce acciaio verde a 100 mentre altri Paesi lo mettono in vendita a 20 usando ancora il carbone». Chiaro il riferimento a Cina, Russia, Stati Uniti, dove le normative ambientali sono per il momento molto meno restrittive rispetto a quelle che Bruxelles ha deciso di adottare nell’arco dei prossimi anni.


Il peso massimo leghista non ha scelto a caso l’argomento della sua sortita riminese. La questione sollevata dal ministro è in cima alle preoccupazioni di imprenditori e manager che guidano le aziende ad alto impatto ambientale, come per esempio quelle siderurgiche, con l’Ilva in prima fila, ma anche i produttori di ceramiche, quelli di cemento e alcuni settori della chimica. Tutti costretti a fare i conti con le nuove regole Ue. A luglio, infatti, la Commissione di Bruxelles ha pubblicato i nuovi target ambientali dell’Unione europea. Entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica (CO2) vanno tagliate del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990, per poi essere azzerate prima del 2050, raggiungendo quella che viene definita “neutralità climatica”.


La lobby delle imprese energivore, rappresentate dall’ex presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, ha risposto con un documento in cui vengono descritti una serie di interventi in grado di garantire una diminuzione del 40 per cento della CO2 diffusa in atmosfera. La lista comprende tra l’altro la cattura dell’anidride carbonica, che verrebbe poi sotterrata in appositi depositi, e il ricorso a combustibili verdi come il biogas e anche l’idrogeno, quando, non prima di un decennio, la tecnologia ne renderà conveniente l’utilizzo. In sostanza, le aziende dei settori cosiddetti “hard to abate” si dichiarano pronte a cambiare il loro modo di produrre per inquinare di meno e centrare gli obiettivi fissati dalla Ue. Il problema, come sempre, sono i costi di questi interventi, che ammonterebbero, secondo le imprese coinvolte, ad almeno 15 miliardi di euro. Chi paga? Gli industriali lamentano la scarsa attenzione del governo e chiedono miliardi supplementari per finanziare gli investimenti ambientali.


Le proposte della lobby guidata da Gozzi sono ovviamente arrivate anche sul tavolo di Giorgetti, un ministro che non ha grandi credenziali da spendere in tema di tutela dell’ambiente. Nell’ottobre del 2016, il numero due della Lega si astenne alla Camera nel voto di ratifica dell’Accordo di Parigi, un’intesa storica in cui la comunità internazionale si impegnava a interventi concreti per la riduzione della temperatura media mondiale «ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali». Il partito di Matteo Salvini, che all’epoca stava all’opposizione, fu l’unico a non schierarsi a favore di quella svolta epocale nella lotta al riscaldamento del globo.


«C’è una letteratura scientifica sterminata che dimostra come sia possibile rispettare gli obiettivi fissati nell’accordo di Parigi senza minare il sistema economico globale», sottolinea Stefano Caserini, docente di Mitigazione del cambiamento climatico al Politecnico di Milano. Giusto un mese fa, l’urgenza della mobilitazione per salvare il pianeta dalla catastrofe è stata riaffermata dal rapporto degli scienziati dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. È quindi destinata ad aumentare anche la pressione sui grandi inquinatori che, da parte loro, promettono investimenti, ma chiedono aiuti allo Stato e paventano la concorrenza dei grandi gruppi extraeuropei favoriti da norme molto più permissive nei loro Paesi d’origine. Un timore a cui ha dato voce anche Giorgetti nel suo intervento al meeting di Rimini.


C’è poi il rischio che multinazionali con base nell’Unione europea si trasferiscano armi e bagagli in altre zone del mondo che garantiscono maggiore libertà d’azione in campo ambientale, con conseguente perdita di posti di lavoro nel Vecchio Continente. «Sono preoccupazioni legittime», dice Massimo Tavoni, docente di Economia ambientale al Politecnico di Milano, che ha partecipato alla redazione dei rapporti dell’Ipcc. «Proprio per questo - spiega Tavoni - già da tempo in sede europea sono stati introdotti una serie di correttivi studiati apposta per mitigare gli effetti delle norme ambientali sulla competitività delle aziende che operano nei settori con maggiore impatto sull’ambiente». In pratica, fin dal 2005, l’Unione europea ha allestito un sistema che prevede l’acquisto di “quote di emissione” da parte delle imprese che operano in settori a forte impatto ambientale, un lungo elenco che va dalle acciaierie, alle centrali elettriche fino alle compagnie aeree.


Le regole introdotte dalle Ue finiscono per penalizzare le aziende che immettono in atmosfera maggiori quantità di CO2, ma per alcune tra queste categorie produttive, quelle che sarebbero maggiormente svantaggiate nella competizione con i gruppi extraeuropei, è previsto un meccanismo compensativo. Di fatto, queste società ricevono quote di emissione a titolo gratuito che possono essere vendute in un apposito mercato, dove operano anche investitori finanziari. Come succede in Borsa, il valore di questi particolari titoli si muove al rialzo o al ribasso, influenzato dai fattori più diversi. Negli ultimi mesi, per esempio, i prezzi sono molto aumentati per effetto delle regole più restrittive in materia ambientale annunciate dalla Commissione europea. In generale, quindi, non manca lo spazio di manovra per gli speculatori, ma anche le imprese possono realizzare profitti vendendo le loro quote. Un esempio concreto: nel 2020 le Acciaierie d’Italia, cioè l’Ilva, hanno incassato 83 milioni dalla vendita di quelli che in bilancio vengono definiti “emission rights”.


Le distorsioni speculative della Borsa verde sono state criticate da più parti ed è anche per questo motivo che Bruxelles ha annunciato l’introduzione di un nuovo meccanismo destinato, almeno nelle intenzioni, a limitare l’ingresso nel territorio della Ue alle produzioni ad alto impatto ambientale. La novità si chiama “Carbon Border Adjustment Mechanism”, in sigla Cbam, e semplificando al massimo consiste in un sistema di dazi imposti ai gruppi extraeuropei attivi nei settori che immettono in atmosfera i maggiori quantitativi di CO2. È il caso, per esempio, dei colossi siderurgici cinesi che per vendere il loro acciaio nell’Unione europea dovranno sottoporsi a questo prelievo targato Ue, che sarà calcolato in modo da pareggiare il costo delle emissioni che grava sui concorrenti europei.


Nei piani della Commissione, il Cbam andrà a sostituire l’assegnazione gratuita di quote e dovrebbe muovere i primi passi nel 2026 per entrare a regime non prima del 2036. Tempi lunghi quindi, ma le critiche degli industriali non si sono fatte attendere. C’è il timore che il nuovo sistema possa essere facilmente aggirato dai produttori cinesi e indiani. Per il motivo opposto protestano anche le aziende che utilizzano materie prime provenienti da mercati extraeuropei, che paventano un aumento dei prezzi per effetto delle regole studiate a Bruxelles.


Gli esperti della Commissione sono invece convinti che i dazi serviranno da incentivo perché i Paesi con una regolamentazione ambientale permissiva, pur di garantirsi l’accesso a mercati vitali per le loro esportazioni, sceglieranno di adeguarsi agli ambiziosi standard fissati dalla Ue. L’obiettivo finale, comune a tutti, rimane quello di rallentare il più possibile il riscaldamento del pianeta, che ha effetti devastanti sul clima globale. Il tempo stringe. E non c’è un piano B.

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