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Attualità
gennaio, 2022

Caso Shalabayeva, il Viminale scrive al Parlamento: «Rispettate le norme sull’espulsione in Kazakistan»

Depositata una risposta scritta a una interrogazione del Pd. Lunedì inizia il processo di appello, in primo grado l’allora capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese e altri funzionari sono stati condannati per sequestro di persona

Un documento che arriva a poche ore dall’inizio del processo di appello su uno dei casi più controversi degli ultimi anni, quello dell’espulsione di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, rimandata in Kazakhstan nel maggio 2013 insieme alla figlia Alua.

 

Una risposta scritta a una interrogazione del deputato del Partito democratico Carmelo Miceli definisce corretta la procedura che portò all’espulsione della Shalabayeva il 31 maggio 2013. Espulsione poi revocata dal prefetto di Roma a luglio dello stesso anno dopo un ricorso dei legali della donna. Da qui un processo che nell’ottobre del 2020 ha portato Renato Cortese, che all'epoca dei fatti guidava la squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, al tempo capo dell'Ufficio immigrazione, a una condanna in primo grado a cinque anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Condannati a due anni e mezzo l'allora giudice di pace Stefania Lavore, a cinque anni i funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia e a quattro anni e tre anni e sei mesi quelli dell'Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. In particolare per Cortese, Armeni, Stampacchia, Tramma, Leoni e Improta la condanna è stata per sequestro di persona. Gli imputati sono stati invece assolti da una decina dei capi d'accusa per falso ideologico, abuso e omissione d'atti d’ufficio.

 

 

Adesso, nel testo della risposta scritta inviata al Parlamento dal sottosegretario Nicola Molteni per conto dell’Ufficio legislativo e legale del ministero dell’Interno, che riprende anche note dei ministeri degli Esteri e della Giustizia, si legge che per il Viminale la procedura è stata di fatto regolare. Scrivono i legali del ministero: «La stessa donna non era un possesso di permesso di soggiorno rilasciato dal Stato italiano, né da altro Stato membro dell’Unione europea e, ad eccezione del passaporto diplomatico, non è stata in grado di esibire alcun documento identificativo. Pertanto a seguito della mancata identificazione in ragione della sospettata falsificazione del passaporto esibito, nella stessa giornata del 29 maggio 2013 la donna veniva accompagnata presso l’Ufficio immigrazione della questura. All’atto del foto-segnalamento la stessa dichiarava di essere di nazionalità kazaka. Gli accertamenti della polizia di frontiera di Fiumicino nella medesima data confermavano la falsificazione del documento, che aveva subito delle alterazioni consistenti nella sostituzione di alcune pagine».

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Inoltre, scrive il Viminale, «si evidenzia che dagli atti in possesso della Questura di Roma durante l’espletamento dell’iter procedimentale finalizzato all’emanazione del decreto di espulsione adottato dalla prefettura di Roma, la cittadina straniera non ha riferito informazioni o prodotto documenti dello Stato , né ha, tantomeno, fatto richiesta di protezione internazionale».

 

Secondo il Viminale la Shalabayeva, che fino a quel momento aveva sostenuto di chiamarsi “signora Ayan”, avendo falsificato il documento andava comunque espulsa: «Dal punto di vista amministrativo il mancato possesso di un titolo di soggiorno in corso di validità, rilasciato dallo Stato o da un altro Paese membro dell’Unione europea, rende irregolare lo straniero sul territorio nazionale. Per questa irregolarità la norma commina l’espulsione con un meccanismo espulsivo “personalizzante” e “ad intensità graduale crescente”». E sul rischio di fuga il Viminale aggiunge: «Alla luce di quanto esposto, può affermati che lo straniero trovato in possesso di un documento di identità di cui sia accertata la falsificazione e che non ha esibito ulteriori documenti identificativi o titoli di viaggio valiti sia da ritenere a rischio fuga».

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Inoltre «tra la notifica all’interessata del decreto di espulsione (29 maggio 2013) e la relativa esecuzione (31 maggio 2013) la signora Shalabayeva non ha mai fornito le sue esatte generalità, continuando a dichiarare di chiamarsi Alma Ayan e di godere dello statu diplomatico della Repubblica del Centro Africa…La sua esatta identificazione è avvenuta in data 30 maggio…e solo il successivo 11 luglio all’atto della notifica del ricorso avverso il decreto di espulsione depositato dai legali della donna al giudice di pace, si apprendeva della esistenza di titoli di soggiorno rilasciati alla signora Alma Shalabayeva dalle autorità britanniche e lettoni, atteso che tra gli allegati del ricorso figuravano anche copie dei vitati titoli».

 

Sui rapporti con il Kazakhstan il ministero della Giustizia ha comunicato di aver ricevuto nel corso dell’anno 2013 dalle autorità del paese, «con riferimento alle complessive vicende relative all’Ablyazov Mukhtar e alla di lui consorte Shalabayeva Alma, due richieste di assistenza giudiziaria dirette ad acquisire prove nell’ambito di procedimenti penali nella Repubblica del Kazakhstan a carico di entrambi i soggetti menzionati». Le richieste riguardavano un procedimento penale nei confronti di Mukhtar e altri avente oggetti «reati di appropriazione indebita, riciclaggio e associazioni a delinquere», e la seconda richiesta riguardava un procedimento penale nei confronti della Shalabayeva avente oggetto «il reato di falsificazione di documenti».

 

La risposta del Viminale, che chiarisce la regolare procedura di

espulsione che venne fatta all'epoca della donna, arriva a ridosso dell’inizio del processo di secondo grado che si aprirà lunedì davanti alla Corte d'appello di Perugia.

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