Nicola Piovani: «La nostra cultura è afflitta da analfabetismo musicale»

“Amorosa presenza” è l’esordio del premio Oscar nella musica lirica. Straordinaria invenzione italiana, che il nostro Paese trascura. Un errore, dice il compositore alla vigilia della prima, a Trieste. «Perché è un’arte viva, attuale, profonda. In grado di narrare il presente»

Ammettiamolo: o è adorata o è detestata. Come accade con le passioni, c’è chi la segue maniacalmente e chi la evita radicalmente. E ogni scambio, tra melomani e denigratori, habitué e detrattori, è interdetto. Come nota Alberto Mattioli in “Pazzo per l’opera” (Garzanti), libro che ha dedicato alla sua ardente ossessione («se resto per una settimana senza andare all’opera inizio a stare male e dopo un mese sono già in agonia»), il pubblico dell’opera è «un piccolo mondo antico e attaccabrighe», una comunità piuttosto âgé con vezzi, riti, manie tutte sue. A partire da una koiné da veri e propri iniziati, che accresce l’impressione di un genere ostico, paleolitico e in definitiva noioso.

 

I giovani? Ci sono i blogger di argomento operistico, e quelli attratti dalle opere più audaci e rock, ma restano una netta minoranza: a teatro, «i rari under 30 spiccano come panda in uno zoo».

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«Un errore, un peccato», interviene il direttore d’orchestra Nicola Piovani, che ha appena composto la sua prima opera lirica, pronta a debuttare al Teatro Giuseppe Verdi di Trieste il prossimo 21 gennaio (fino al 29): “Amorosa presenza”, libretto scritto con Aisha Cerami, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami (pubblicato da Garzanti nel 1978), regia di Chiara Muti, scene di Leila Fteita, coreografie di Miki Matsuse, maestro del coro Paolo Longo. E allestimenti interamente realizzati dai laboratori della Fondazione del Teatro lirico.

 

«Intorno a me sento spesso perplessità: “Un’opera? Oggi? Ma chi te lo fa fare?”, mi chiedono in molti. Perché in Italia è sempre più larga la convinzione che l’opera sia qualcosa di museale, una materia d’antiquariato, da aggiornare magari con la spennellata di una regia attualizzante, che la adegui alla moda. Oppure da smembrare nei concerti d’arie d’opera italiana, con la mitragliata di un acuto dopo l’altro. Invece io penso che l’opera - cioè un teatro cantato, recitato, con voci e orchestra, con un libretto di dramma o commedia - sia una forma di spettacolo molto viva, una lingua attuale, profonda, in grado di narrare artisticamente il nostro presente».

Per dimostrarlo, ha scelto un cast di giovani di talento («i protagonisti sono due ragazzi, e un po’ di credibilità fisica degli interpreti aiuta a entrare nello sviluppo del racconto»), Maria Rita Combattelli e Giuseppe Tommaso, rispettivamente Serena e Orazio: che si incontrano, si innamorano, ma per esprimere liberamente il loro amore vestono ora i panni maschili ora quelli femminili, in uno scambio di identità - e di equivoci - continui. Sulla scia di una lunga tradizione teatrale di travestimenti, dalla commedia classica alla commedia dell’arte, svestire i ruoli sembra presagio della fluidità contemporanea: involontario elogio del queer, e della fragilità e della forza dell’amore al tempo stesso, refrattario alle etichette di genere.

«È un’opera che ho cominciato a progettare una quarantina di anni fa, su un soggetto dal quale Cerami stava ricavando il suo romanzo. Avevo avuto una commissione verbale al Teatro Lirico di Atene. Cominciammo a lavorarci ma, di lì a poco, la commissione cadde, e il nostro progetto rimase orfano. Facemmo pochi, timidi tentativi di rivolgerci a qualche teatro lirico italiano, ma senza successo. E allora rinunciai al progetto, che finì in un cassetto. Tre anni fa, in occasione di un concerto sinfonico che dirigevo a Trieste, in un’intervista al Piccolo, il giornalista mi chiese: “Ha mai pensato di scrivere un’opera vera e propria?”. Gli ho risposto: “Sì, un’opera vera e propria, col tenore, il soprano, il baritono, il coro, le scene, i costumi, l’orchestra in buca… Ci ho pensato, ma ci ho anche rinunciato, viste le difficoltà che ci sono a mettere in scena un’opera contemporanea. Se ne riparlerà alla mia prossima reincarnazione”. Il giorno dopo mi telefonò l’allora sovrintendente del teatro Verdi di Trieste, Stefano Pace, e mi disse: “Perché non ne parliamo a questa di incarnazione?”».

 

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Il risultato è una partitura un po’ diversa dal progetto concepito inizialmente. È il Maestro stesso a spiegare perché: «Negli ultimi decenni il linguaggio musicale ha praticato sentieri più aperti, meno ideologici, meno angusti e intolleranti di quelli battuti nel secolo scorso, si sono aperti spazi anche per la musica para-tonale. La partitura che ho scritto non si fa scrupolo di inglobare nei pentagrammi stilemi popolari, citazioni di generi diversi - dal tango di Piazzolla alla romanza di Tosti, dal duetto brillante rossiniano all’accento malinconico del blues, dalla cavatina classica ai ritmi di Dave Brubeck. Nel momento saliente del bacio finale, compare un accordo di dodici note, stile secondo Novecento. Ho scritto la musica di “Amorosa Presenza” seguendo il mio istinto narrativo, scegliendo nell’armamentario dei tanti linguaggi che convivono nella nostra civiltà musicale e nella mia testa, accavallandoli e rielaborandoli in un patchwork lessicale che, a mio sentire, è la cifra più autentica per raccontare la contemporaneità, per musicare il mio oggi».

E se Piovani ha dato alla sua composizione il sottotitolo di “Opera Semiseria”, il problema resta aperto: come riportare gli italiani in teatro? Il paradosso è che se nel nostro Paese, patria dell’opera lirica, il genere è in crisi, all’estero al contrario funziona benissimo: dall’Oriente (il Giappone ha da anni un formidabile pubblico, in Cina l’amore per l’opera è sinonimo di ascesa sociale e culturale), ai Paesi arabi, dove è scandita da meravigliose architetture: vedi la Royal Opera House di Muscat, che Franco Zeffirelli inaugurò con la Turandot nel 2011 e che il 20 gennaio riparte con la prima mondiale di “Rigoletto” di Verdi, coprodotta con Fondazione Arena di Verona e Lithuanian National Opera and Ballet Theatre, e la firma del regista fiorentino (scomparso nel 2019). Non solo: tra musicisti, cantanti, compositori, l’italian style musicale resta riconosciuto e amato (l’ultima passione della stampa inglese è l’anglo-italiano Freddie De Tommaso, in “Tosca” il più giovane Cavaradossi della storia della Royal Opera House). «Chi, come me, viaggia molto per lavoro, sa quanto sia potente l’opera italiana, quanto eccellentemente ci rappresenti nel mondo: a Tokyo come nelle Fiandre, in Argentina come in Inghilterra, dove Donizetti, nella quotidianità, è ben più famoso e frequentato che nel nostro Paese», conferma Piovani: «Fa davvero impressione l’analfabetismo musicale progressivo che affligge sempre più la nostra cultura».

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Analfabetismo musicale, insegnamento scolastico che latita. E ora l’effetto pandemia sulla cultura. Ma quando si è inceppato l’interesse del grande pubblico per la lirica? 

«Il Novecento ha visto l’affermazione di massa della musica pop. Con l’invenzione tecnologica del disco, la musica è potuta diventare grande fonte di guadagno; non di milioni ma di miliardi. Il “pezzo” discografico di successo doveva essere breve - tre quattro minuti, come le canzoni - doveva essere di moda e, nove volte su dieci, ballabile», spiega il premio Oscar: «Il mercato tende anche a ridurre l’opera del passato alle sue arie più cantabili, ai brani con l’acuto muscolare sottratti alla complessità della struttura intera. Un vecchio cinico discografico diceva: “Ogni melodramma  contiene il suo 45 giri”». Il resto è destinato alle élite. E a infittire programmazioni tradizionali, per lo più tarate su un pubblico conservatore: la causa della diffidenza verso l’opera non è certamente una soltanto.

«Nel secondo Novecento il nostro Paese ha focalizzato la propria cultura artistica sul cinema, un’arte in cui primeggiavamo nel mondo», riflette ancora Piovani: «Questo è avvenuto a discapito della cultura teatrale. Ora che l’arte cinematografica sta diventando sempre più arte televisiva, forse cambieranno anche le dinamiche della fruizione dello spettacolo dal vivo. Sarà più facile convincerci che Rossini, Verdi, Puccini sono non solo di gran valore culturale, ma anche di grande godimento, per chi lo ascolta con attenzione».

Il successo delle opere trasmesse alla tv dà segnali confortanti. E fronteggia, al tempo stesso, uno degli ostacoli più forti alla visione dal vivo: il prezzo dei biglietti.

«I magnifici, preziosi luoghi teatrali che abbiamo in Italia sono tanti, non solo La Scala, il San Carlo, La Fenice: bisognerebbe creare le condizioni per allargare l’accesso popolare a questi teatri. Abbassando l’assurdo prezzo dei biglietti, con una pubblicità e una politica che non releghi la lirica agli eventi mondani delle inaugurazioni, aumentando il numero delle repliche delle opere di successo, facendo circolare gli allestimenti su tutta la penisola. Guardi, io non ho nulla contro la mondanità, ma non la identificherei con il campo artistico, con la cultura teatrale: si possono fare anche prime riservate ai milionari, ai vip televisivi, agli sponsor e finanziatori. Ma è meglio se poi seguono le seconde, le terze e via fino alle centesime repliche, a prezzi popolari», scandisce Piovani, evocando quegli eventi assiepati di celebrità, storicamente in linea con la funzione stessa dei palchi teatrali: luoghi ideali per farsi vedere, più che per assistere agli spettacoli.

«Bisogna scorporare l’idea dell’opera dall’idea del lusso», insiste Piovani: «Il lusso e la cultura sono due momenti ben distinti in una buona società. Lo so che sto parlando di qualcosa di molto complesso da realizzare, forse impossibile, e non vorrei essere al posto del ministro. Ma deve affrontare la complessità anche chi fa politica culturale (e non l’invidio). Noi musicisti affrontiamo la complessità di una partitura sinfonica, i chirurghi affrontano la complessità di un’operazione cardiologica: i gestori della cultura pubblica devono affrontare la complessità di una riforma sostanziale dei teatri lirici. Che probabilmente è ancora più complessa di un’operazione a cuore aperto».

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