Il miglior simbolo di tutto è Gianni Letta, che a 86 anni, dopo quasi un secolo di divina invisibilità, si è ritrovato di colpo a dichiarare ai microfoni di stampa e tv, auspicando il clima più adatto per eleggere il capo dello Stato, come un Luciano Nobili qualsiasi. Ora che con l’inizio delle votazioni si entra davvero nel vivo, e il tempo della pre-tattica è terminata, possiamo dirlo: mai come stavolta la corsa al Colle ha costretto i possibili candidati ad andare così lontano dalla propria inclinazione, impostazione, storia personale. Chi aspirava s’è dovuto adattare: gli invisibili si sono esposti alle cronache, quelli abituati ai riflettori hanno dovuto riluttanti farsi indietro. Gli altri, quelli portati nel gioco da interessi terzi, si sono barcamenati come potevano. Ecco le strategie che, nell’ultimo anno, hanno messo in piedi i principali candidati al Colle. Con esiti magari eccentrici rispetto al desiderio iniziale. Perché la corsa comincia assai più lontano di quanto si possa immaginare.
Quella di Mario Draghi, ad esempio, si perde nella notte. L’incarico a Palazzo Chigi è arrivato solo a febbraio 2021, ma i motori per un suo ingresso in politica si erano già cominciati a scaldare a novembre 2020 quando, persino prima che il governo Conte II cominciasse a scricchiolare sotto gli assalti di Matteo Renzi, l’uomo più inafferrabile tra i figli dell’Italia che conta ha cominciato a fare capolino con telefonate e inviti, a tessere fili, a stringere rapporti. Il suo nome per sostituire Conte s’era già fatto alla vigilia della pandemia: il 21 febbraio 2020 era nei titoli d’apertura della politica. Eppure, anche nell’autunno successivo, è rimasto tutto impalpabile: nessun incontro ufficiale, solo un sentore di lunghissima preparazione dietro le spalle. Dopo, da premier, Draghi ha affrontato quella che caratterialmente deve essere stata la parte più ostica: apparire, dire chi si è. Non fare solo la ieratica Gioconda: diventare una Gioconda che fa l’occhiolino. Movimenti impercettibili ma di grande effetto. Come nella conferenza stampa di fine anno - secondo alcuni troppo diretta, ma il personaggio è quello - o nella scelta di andare a incontrare il segretario Maurizio Landini nella sede della Cgil (primo premier a farlo), in segno di solidarietà dopo l’assalto neofascista; o quando ha voluto i festeggiamenti per gli Europei a Palazzo Chigi con tanto di arrivo degli Azzurri in pullman dopo la vittoria. Occasioni per mostrarsi, raccontarsi e, verrebbe da dire, «parlare di sé» anche se appare già un’espressione troppo marcata visto il soggetto. Draghi l’ha fatto in un’unica occasione: quando il 23 novembre ha incontrato i ragazzi di Punto Luce di Save the Children a Torre Maura, raccontandogli fra l’altro di non aver «fatto piani» e «pochissime scelte» nella vita e di aver invece interiorizzato una «delle poche lezioni» tramandategli dai genitori: «Più fai bene le cose, più sei libero di scegliere, o di non scegliere: perché poi la gente sceglie te». Quintessenza della sua vita professionale: politica, forse anche. Altro mantra di quel giorno: «L’esperienza più importante è ora, quello che stai facendo in questo momento». Dove sei, quello che fai. In effetti, distillando decine di incontri, battute, puntigli, la frase che più esprime la sua essenza è proprio in quella domanda: «Dov’è?», ha chiesto decine di volte ai giornalisti, cercando chi gli avesse rivolto il quesito cui si accingeva a rispondere. «’Ndo stai?», chiese alla romana, nel cortile di Palazzo Chigi, interrompendo il discorso ufficiale mentre cercava con lo sguardo il portiere Gigi Donnarumma durante la cerimonia istituzionale con gli Azzurri dopo gli Europei.
Per uno costretto al proscenio, vari sono stati costretti a scomparire. Il più abile di tutti è stato Pier Ferdinando Casini. Aspirante dichiarato al soglio quirinalizio, l’ex leader dell’Udc e presidente della Camera si è inabissato molti mesi prima che i giornalisti se ne accorgessero: nessuna intervista ai giornali, zero tv, rare uscite pubbliche, auto blu alla fine dei convegni, saluti rispettosi in caso di incontri fortuiti durante la messa, come accadde una domenica d’estate quando si trovò - indossando pantaloncini con le paperelle - nella stessa chiesa dove era anche Romano Prodi, a Borgo Carige, zona Capalbio. Il gesto più eloquente di tutti però è stato quello all’inizio della quarantena quirinalizia: chiudere i conti col passato, riconoscere i torti, quasi a pulirsi l’aura, liberarsi di un karma negativo, cercare la pace, come si vocifera abbia tentato pure con Marco Follini, quello che una volta, segretario dell’Udc, era il suo sodale nella lotta interna a Berlusconi, e che poi fu sacrificato sull’altare della legge proporzionale (il Porcellum, peraltro: forse è proprio quello, il karma negativo).
Un altro che se l’è cavata egregiamente nella sparizione è Dario Franceschini: inabissamento con cambio di obiettivo, in questo caso. Ex democristiano pure lui, più riservato di Casini, pluri ministro della Cultura, aspirante al Quirinale da un numero ormai consistente di anni, dopo l’estate ha impercettibilmente cambiato strategia. Ora fa dire che medita di tornare in Parlamento e che vorrebbe provare a fare il presidente di una delle due Camere. Da anni si dice Montecitorio un suo possibile approdo: ora la preferenza cade sul Senato. Diverrebbe così un candidato istituzionale per la prossima volta, tra sette anni, nel 2029. Quando avrà “soltanto” 70 anni, quattro meno di quelli che ha oggi Draghi. E avrà passato cinque anni in ciò che sa fare meglio: il numero due, un ruolo che ha esercitato anche nel Pd ai tempi di Veltroni (immortale il nomignolo che gli affibbiò Renzi all’epoca: «Vice-disastro»).
Franceschini insomma vorrebbe fare come avrebbe dovuto fare Maria Elisabetta Alberti Casellati. Donna, di centrodestra, con una lunga e variegata esperienza sia in politica che in magistratura, la presidente del Senato incarnava il perfetto identikit della quirinabile. In teoria. Peccato una certa indomabile inquietudine ne abbia nel tempo intaccato il profilo. Convinta di essere sottostimata, ha cambiato in cinque anni ben sette portavoce, non riuscendo mai a spiegarsi perché nessuno di loro sia riuscito a far parlare i media bene di lei (è convinta che la cosa dipenda da oscure manovre anziché dal soggetto da raccontare). Non solo: invece di fare il numero due del presidente Mattarella, ha ingaggiato con lui una indicibile competizione. Dal minutaggio di ciascun intervento pubblico, nel quale la lunghezza del discorso di lei ha spesso paurosamente lambito la lunghezza del discorso di lui (il cerimoniale rischiando l’infarto), alla convinzione che il capo dello Stato le facesse dei «dispetti», fino all’incredibile speronamento dell’Audi di Mattarella, pur di arrivare prima, sulla strada verso un comizio a Padova, minuziosamente raccontato da un articolo del Foglio che andrebbe incorniciato.
Anche la Guardasigilli Marta Cartabia, pur quirinabilissima, non ha tratto giovamento dai mesi precedenti il voto per il Colle. Da ministra era partita bene, con l’intervista sul 25 aprile concessa a Massimo Giannini sulla Stampa per dire che la Resistenza è di tutti, fino alla partecipazione alla cerimonia del 2 agosto per ricordare la strage di Bologna: segnali al centrosinistra per un profilo considerato di centrodestra. Peccato che sia finita impigliata nella riforma della giustizia: una prova necessaria, per l’ex presidente della Consulta, a dimostrare di saper fare politica, dalla quale è uscita abbastanza indenne ma con un’aura politicamente gracile. Anche al netto della campagna del Fatto che si è abbattuta su di lei e, alienandole il consenso nel M5S, ha fatto il resto.
Quirinabile ma distrattamente, quasi senza pensarci, è Paolo Gentiloni. Con una modalità che ricorda quella di Letizia Moratti, la quale è evocata nei toto-Quirinale dagli altri, i leader del centrodestra che vedono in lei, vicepresidente e assessora al Welfare della Lombardia, una possibile soluzione “Cav. free” per conquistare il Colle. La differenza che lei è portata avanti come su una sedia papale. L’ex premier, commissario europeo per l’Economia, sembra buttato là per caso: non pare aver messo in campo un’accorta regia come in altri periodi (ad esempio quando era a Palazzo Chigi). Nessuno gli fa la ola. Risultato: si fa il suo nome come possibile premier per il dopo Draghi, nell’ambito di un profilo che ricorda quello delineato una volta proprio da Dario Franceschini: «Il capo dello Stato è uno che la sera prima di essere eletto, mentre guarda la televisione, riceve la telefonata che gli annuncia: “Sarai presidente”».
Parlava di Sergio Mattarella, in pratica. La storia dell’elezione dell’attuale capo dello Stato è in effetti l’esatto contrario dello stile prevalente nella conclusione del suo mandato. Prima del gennaio 2015 infatti Mattarella non ha fatto una cena, un’intervista, un abbocco: niente. Compariva sì in qualche toto-nomi, ma in modo del tutto inerte. Senza intervento personale. All’opposto, all’inizio del semestre bianco il capo dello Stato ha cominciato a far filtrare segnali della sua volontà di uscita dal Colle senza ritorno. Prima più lievi, poi sempre più decisi. Abbiamo saputo persino che ha preso in affitto casa, alla fine. Ma già a fine luglio, alla cerimonia del Ventaglio al Quirinale, Mattarella aveva chiarito, in via preventiva, di non essere in grado di smentire tutte le notizie circolanti sul suo conto, perché erano troppe: ma che questo non era un buon motivo per considerarle vere.
Quanto alla possibilità che il presidente della Repubblica possa cambiare idea rispetto al bis, si accettano scommesse. Nel 2015 Matteo Renzi lo scelse ritenendolo un interlocutore docile, malleabile. «Davvero l’ha eletto per questo motivo? Si vede che non lo conosce», commentò all’epoca Rosa Russo Iervolino: previsione azzeccatissima, come si vide solo undici mesi dopo, quando Mattarella rifiutò di sciogliere le Camere. Ci sono altri casi in cui invece il (possibile) capo dello Stato i leader lo conoscono fin troppo bene. Vale per Rosy Bindi, già ministra, presidente del Pd e presidente dell’Antimafia, ritiratasi nella campagna senese dal 2018, dopo l’ultimo mandato, e ricomparsa solo in estate, a fianco del segretario del Pd Enrico Letta che all’epoca girava palmo a palmo il collegio di Siena per farsi eleggere alle suppletive. Pur mitigata da un mix di decisa prudenza, Bindi in questi mesi non si è sottratta a quello che è un processo irrefrenabile: più s’è fatta avanti la possibilità di un’ascesa di Silvio Berlusconi, più è risuonato il suo nome come antagonista naturale. Prima politica di peso a opporsi apertamente al Cavaliere quanto ad atteggiamento verso le donne, Bindi è del resto solita procedere politicamente come un panzer, quando necessario: da presidente dell’Antimafia non si fermò neanche davanti a Vincenzo De Luca, il che è una vera rarità, nel Pd.
Inappuntabile come sempre Giuliano Amato: formalmente invisibile, con al massimo qualche puntata a giocare a tennis per sfoggio d’atleticità, sottotraccia l’ex premier è un inferno di manovre che percorrono tutta la sinistra, con incontri riservati in posti appartati, dalla Treccani al suo ufficio di giudice costituzionale. D’altra parte sono almeno vent’anni che l’oggi ottantatreenne dottor Sottile aspira al soglio. Nel peggiore dei casi stavolta porterà a casa comunque una presidenza: quella della Consulta.
Anche Silvio Berlusconi non ha saputo resistere a incarnare il suo personaggio di sempre: ma al contrario di Amato per lui non è un vantaggio. Come Roger Rabbit di fronte al ritornello «ammazza la vecchia» non poteva esimersi dal finire la frase («col Fliiiiick») anche a costo di rischiare la vita, così anche Silvio Berlusconi non ha saputo resistere ai fari puntati del centro del palcoscenico: partito in autunno come l’alato anziano leader che andava a Strasburgo per incontrare i vertici del Ppe e inviava pregevoli quadri in dono, è finito troppo presto e con troppa pubblicità metaforicamente sbracato su un divanetto a telefonare, con Vittorio Sgarbi, a tutti i Carneade del Parlamento, promettendo favori e gentilezze. Non fosse bastata la prospettiva di un Dudù come “first dog” impegnato a correre su e giù per il corridoio della manica lunga a sollevare perplessità.