Flashback improbabili, un copione stonato e un finale tutto di corsa per l’esordio seriale di Gabriele Muccino

Tutte le famiglie felici sono uguali, tutte le famiglie di Gabriele Muccino pure. Che dopo dodici film un lieve sospetto aveva colpito anche gli spettatori più pavidi. Ma con la serie di “A casa tutti bene” (Sky) arriva la certezza.

Dopo un vivace dibattito se gli attori del suddetto regista siano tenuti a urlare per dare efficacia al discorso o se al contrario il tono pacato costringa a seguire i dialoghi e diventi quindi controproducente, il nostro ha regalato otto episodi di una prima stagione di un esordio seriale che a prima vista sembrava meritare uno sguardo accondiscendente. Il drammone parentale affetto da incapacità relazionali, dove ognuno esplicita l’insofferenza manifesta alla serenità basta che l’odio diffuso verso il congiunto non si perda in tentennamenti, in principio era quasi convincente. Ma il trappolone si annida nei dettagli.

Così lo scontro generazionale, dove i figli sono comunque vittime di genitori incapaci, i padri sono attaccati dal morbo della delusione, le madri annaffiano con generosità il senso di colpa atavico, i mariti non amano, le mogli accusano e i fidanzati vacillano, sembra avere un senso, ma come diceva il poeta, un senso non ce l’ha. E a un certo punto il castello di carte anziché puntare verso l’alto precipita rovinosamente.

La sottile linea gialla, che avrebbe dovuto unire questa prima stagione viene risolta come una presenza ingombrante in quattro scene tra uno scoglio dell’Argentario e una collanina, l’amante indispettita si trasforma in Glenn Close di “Attrazione fatale”, i criminali che sparano si portano a casa due prosciutti e intorno al ristorante più ambito della Capitale si giocano i destini di tutti neanche fossero a “Masterchef”.

Un copione stonato, che si risolve in fretta e furia con sei o sette tragedie buttate lì tutte insieme, tanto poi ci sarà tempo per raccontare altre storie di ordinario odio quotidiano. Mentre Muccino, ossessionato dal continuo  flashback color ocra, crede che reclutare attori giovani possa sembrare troppo avveniristico rispetto al vedere Laura Morante nei panni di una ventenne col filtro di Instagram e che sia meglio infilare la parrucca all’unico bambino del cast per fargli interpretare sia il padre che il figlio.

Così, avvolti nella solida certezza che “This is Us” abbia insegnato ben poco, si chiude la saga delle telecamere rotanti. E a parte qualche gradevole presenza (Emma col pancione e il tocco magico di Valerio Aprea), viene da dire che no, a casa non si sta bene per niente. 

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