Ritratto
Francia: chi è Valérie Pécresse, la donna che sogna di essere De Gaulle
Borghese, conservatrice, cattolica. Si ispira a Merkel e Thatcher. La candidata repubblicana si presenta come l’unica alternativa a Macron
Per decenni è stata forse la donna più sottovalutata della politica francese, nel radicato pregiudizio misogino che fiuto politico e maternità non potessero conciliarsi. Oggi la repubblicana Valérie Pécresse, una giacca rossa a coprirle le spalle nei comizi, è la rivale numero uno del presidente Emmanuel Macron nella corsa presidenziale del prossimo 10 aprile.
Se il presidente in carica nei molteplici sondaggi francesi è dato stabile al 25 per cento delle preferenze, lei fluttua, testa a testa con Marine Le Pen, intorno al 16 per cento. Ma Le Pen, già due volte candidata alla presidenza senza successo, è incalzata a destra dall'ultra nazionalista Eric Zemmour, che, per ora al 13 per cento dei consensi, continua a strapparle voti e deputati, forte dalla presa che la sua fiorita veemenza retorica ha sull'elettorato di estrema destra. Così, complice anche una sinistra divisa in mille rivoli, afflitta da una crisi di identità che non riesce a risolvere in un Paese stravolto dagli effetti culturali della globalizzazione, Pécresse si presenta come l'unica alternativa a Macron. Quella in grado di rappresentare lo spirito della destra moderna «in un mondo post-covid». Sintetizzando i sussulti nazionalisti di una parte dell'elettorato conservatore con i desiderata economici e sociali dell'altra. La donna del fare, che si oppone alla verbosità di quel parlare a cui gli uomini, il presidente innanzitutto, hanno fatto ampio ricorso senza ottenere risultati concreti.
A differenza di Macron nel 2017 e di Zemmour adesso, Pécresse, 55 anni il prossimo luglio, non è un volto nuovo della politica. Tanto meno una sorpresa. Al contrario, caschetto biondo, occhi scuri e sorriso enigmatico, fa politica da oltre tre decenni, sempre in campo conservatore, sottostando a tutti gli stereotipi di genere ma cercando di approfittare di ogni opportunità con la stessa tenacia dimostrata dalle sue due figure di riferimento: Margaret Thatcher e Angela Merkel. Come quest'ultima si è aperta un varco in politica grazie ad un mentore influente: era stato Helmut Kohl a lanciare Merkel, è stato Jacques Chirac ad insegnare il mestiere della politica a Pécresse, per anni soprannominata "la bambina di Chirac".
Nata in una famiglia borghese (il padre è l'economista Dominique Roux, amministratore delegato della holding Bolloré, il nonno fu un celebre psichiatra che fece riconoscere la depressione come malattia e che annoverò tra i pazienti Laurence, la figlia anoressica di Chirac) Pécresse frequenta a Versailles un liceo privato che prepara al superamento degli esami d’ingresso nelle "grandi scuole" francesi. Terminata la facoltà di economia alla prestigiosa Hec entra all'Ena, la scuola elitaria per dirigenti di stato (sostituita da Macron lo scorso 31 dicembre con il più democratico Isp, Istituto per il servizio pubblico) dove si è laureata tra i migliori del corso. La sua prima foto pubblica risale proprio a quegli anni: era il 1991 quando, sacco a pelo a terra, occupava le aule dell'Ena a Parigi per protestare contro lo spostamento della sede a Strasburgo.
Terminati gli studi, entra come funzionaria al Consiglio di stato. Pochi anni poi il marito, Jérôme Pécresse, conosciuto quando era studente del Politecnico di Parigi (oggi amministratore delegato di GE Renewable Energy) le suggerisce: «Perché non chiedi a Chirac se ha un posto per te all'Eliseo?» Era il 1998 e Chirac cercava controvoglia di gestire la nascente rivoluzione digitale. Lei si occupava proprio di questi temi. «Sa che è favorita solo perché è una donna?», le disse durante il colloquio di assunzione Dominique de Villepin, allora direttore generale dell'Eliseo, poi tra il 2005 e il 2007 primo ministro di Chirac: «Ma lei è una donna normale (con marito e figli, ndr) e non farà mai politica perché non ci sono donne normali in politica».
Pécresse non si fa scoraggiare. Assunta come consigliera per il digitale, aspetta la buona occasione, che arriva nel 2002 quando, come le fece notare il padre, da sempre un suo grande sostenitore, «cercano donne in politica adesso: fatti avanti!». Chirac la prende sotto la sua ala e inizia la formazione: «Dammi la mano!» «Abbracciami!» «No, non così, in politica bisogna essere più carnali», le dice: «E poi abbracciare la gente è meglio che dare la mano perché non ti fa venire i crampi!».
Con lui impara l'amore per la carne, il buon vino, il buon formaggio, la campagna. Soprattutto, per la gente. Secchiona e meticolosa, impara in fretta e nel 2002 riesce a battere il generale della guerra in Bosnia, il socialista Philippe Morillon, riscendo a farsi eleggere come deputata tra le fila dell’Ump, di cui diventa portavoce nel 2004.
Per andare avanti sa che deve farsi conoscere. Così scrive un libro, "Essere una donna in politica", in cui si racconta con una sincerità che non le è naturale ma che le aprirà le porte degli studi televisivi prima e quelle del governo dopo. Nel 2011 diventa ministra dei Conti pubblici e delle riforme con François Fillon primo ministro e Nicolas Sarkozy presidente. Ma non è più lei, ex-protegée di Chirac, tra le favorite del presidente. Quelli sono gli anni delle ministre Rachida Dati, Rama Yade e Fadela Amara. Non si dà per vinta e porta a casa la riforma sull'autonomia universitaria voluta da Sarkozy, nonostante le grandi proteste. Sottostimata ugualmente da colleghi e avversari, è però notata dal Financial Times, che la descrive come uno dei “ministri migliori” dell'ex presidente.
In quegli stessi anni, e siamo al 2013, si oppone a un aumento del budget europeo, sostenendo la linea del partito e, oggi lo riconosce come errore, partecipa alle "Manif pour tous", una serie di manifestazioni contro la legge sulle unioni civili varata nel 2013 dal governo di François Hollande. Che lo abbia fatto per convinzione o per opportunismo, come sostengono i critici, non è chiaro. Certo è che quando nel 2015 si candida alla presidenza del Consiglio regionale dell'Île de France, la regione parigina, il socialista di origini tunisine Claude Bartolone la dipinge come una politica ultraconservatrice e non le risparmia attacchi feroci. Vince lei, prima donna a capo della regione più importante del Paese, novella Calamity Jane, così la soprannominano i compagni di partito: un misto di coraggio, indipendenza e crudeltà, come la pioniera americana dei fumetti western. Un appellativo che lei rivendica ancora oggi e a cui ha alluso il candidato presidenziale di estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon, quando in un dibattito recente ha citato il capo indiano Geronimo: «Quando l'ultimo albero sarà abbattuto, l'ultimo fiume avvelenato, l'ultimo pesce pescato, allora capiremo - signora Pécresse - che il denaro non si mangia».
A nemmeno un anno dalla sua elezione, Pécresse entra in conflitto con il partito: alle ultime presidenziali anziché sostenere l'amico Fillon come candidato si schiera con Alain Juppé, il favorito. È il momento in cui le viene affibbiato l'appellativo di "Valérie traîtresse", "traditrice", che ancora oggi risuona tra i ranghi dei sostenitori di Le Pen e Zemmour. Nel 2017 arriva la disfatta del partito: i repubblicani non arrivano al ballottaggio delle presidenziali. Lei, che avrebbe potuto imbarcarsi nell'operazione "salviamo il partito" prendendone le redini, decide invece di schivare la mela avvelenata. «Il partito si può salvare solo dall'esterno», dice ai compagni esterrefatti, annunciando la sua fuoriuscita e la fondazione del suo movimento di centrodestra "Siamo liberi", con una linea più europeista e liberale.
I fatti le hanno dato ragione. Rientrata nel partito repubblicano la scorsa estate per tentare di ottenerne la candidatura all'Eliseo, batte a dicembre l'ultraconservatore Éric Ciotti e con il 60 per cento delle preferenze diventa la prima donna candidata presidente della destra tradizionale. «Hanno avuto l'audacia di scegliermi», dirà lei.
Da quel momento cambia la retorica, cercando di accomodare le due anime della destra per ottenere quella sintesi che le spalanchi le porte dell'Eliseo. Comincia a parlare di sicurezza, vorrebbe inviare poliziotti nelle aree più degradate delle banlieue, dove è fuori controllo il mercato della droga, addirittura con l'ausilio dell'esercito, il cui compito dovrà essere quello di tutelare le forze di polizia in caso di bisogno. Nel suo primo viaggio all'estero da candidata approda in Grecia, a casa del governo amico del premier Kyriakos Mitsotakis, fiero combattente contro l'immigrazione illegale: la difesa dei confini europei diventa la retorica con cui sedurre la destra repubblicana. Quando, in occasione dell'inizio della presidenza francese dell'Unione europea, il primo gennaio il presidente Macron illumina l'Arco di trionfo con i colori della bandiera europea, si unisce al coro di critiche dell’estrema destra anti-europeista e nazionalista. Precisa però che non è contraria all'esposizione della bandiera europea, piuttosto al fatto che non sia accompagnata da quella francese. «Sono per un'Europa delle nazioni», dice: «Né anti-europeista, né federalista». Una via di mezzo tra Le Pen e Macron. Alla ricerca, più elettorale che politica, a dire la verità, di una "terza via" a destra.
Ma non dimentica la destra benestante da cui proviene lei, cresciuta nella ricca Versailles, simbolo per eccellenza della borghesia francese, la stessa che, in parte, ha tradito i repubblicani, dando il proprio sostegno a Macron. E così lancia tre proposte mirate alla classe media: per arrestare il calo della natalità propone di versare 900 euro per figlio fino alla maggiore età, indipendentemente dalle condizioni di reddito e promette di raddoppiare il montante di denaro che genitori e nonni possono donare a figli e nipoti senza che questo sia tassato.
Per aiutare ulteriormente la classe media a conciliare famiglia e lavoro, promette di raddoppiare il credito di imposta per chi impiega personale di servizio: «Il 50 per cento del costo totale di un impiego a tempo pieno sarà così coperto, sia che si tratti di babysitter, di badanti o di colf». Infine, lancia la proposta di ridurre i contributi sociali del dieci percento sui redditi inferiori a tremila euro per aumentare la busta paga in tempi di inflazione galoppante. L’aumento di spesa sarà coperto con la semplificazione della burocrazia e la riduzione dei funzionari pubblici, un argomento sempre verde delle destre di mezzo mondo.
Con l'aiuto di Patrick Stefanini, l'anziano direttore di campagna di Chirac e Fillon, il veterano delle elezioni francesi che anche Zemmour avrebbe voluto dalla sua parte, Pécresse ha messo su una squadra di comunicazione giovane e variegata, capeggiata dall'eurodeputato Geoffrey Didier, già suo consigliere per l'Île-de-France e ben inserito a Bruxelles, e ha avuto la cura di tenersi ben vicini i rivali interni, affidando a ciascuno i temi a loro cari: Ciotti la consiglierà sulle questioni di sicurezza, Michel Barnier sull'Europa, Xavier Bertrand sul lavoro e Philippe Juvin sulla salute. In totale sono una cinquantina gli uomini e le donne a cui si è affidata per la campagna elettorale, facendo attenzione a rispettare l’equilibrio tra i generi. Perché se c'è una cosa a cui Pécresse ha detto di non voler rinunciare - potente simbolo del cambio dei tempi - è la definizione di donna "femminista". «La lotta contro la violenza contro le donne è una mia battaglia personale», ha detto recentemente in una trasmissione televisiva, guardando dritto negli occhi il conduttore indagato per molestie sessuali: «Troppo tempo la società ha guardato altrove, ha minimizzato, e le donne hanno avuto paura di denunciare. Io non lascerò che nessuna donna abbia paura. Con me la legge del silenzio è finita».