Reparti chiusi, interventi e terapie rinviate. Due anni di pandemia hanno paralizzato gli ospedali sempre più a corto di personale dal Veneto alla Sicilia. E il Pnrr rischia il flop (Foto di Francesco Cocco)

Da oltre due mesi ventisei donne salernitane stanno attendendo un intervento chirurgico al seno per combattere il cancro che le sta divorando più velocemente di quanto la sanità campana stia facendo per salvarle. Per legge avrebbero diritto a un’operazione entro trenta giorni, eppure ne sono già passati sessanta, di giorni: spiacenti, ma la carenza di personale all’ospedale Ruggi d’Aragona di Salerno ha imposto la chiusura del reparto per i prossimi cinque mesi.

 

Contemporaneamente, a L’Aquila, è stata bloccata la lista d’attesa per accedere alla neuropsichiatria infantile dell’ospedale cittadino, un’eccellenza e soprattutto un riferimento per tutto il centro Italia. La motivazione è sempre la stessa: carenza di personale. In Veneto il presidente della Regione Luca Zaia ha aumentato il numero massimo di pazienti in carico a ciascun medico di base, da 1.500 a 1.800. Non c’erano alternative: tutti i concorsi per assumere nuovi medici di famiglia sono andati deserti, perché non ci sono abbastanza camici bianchi in circolazione.

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In Piemonte, a Chieri, ha chiuso il pronto soccorso pediatrico per fare spazio ai bambini affetti da Covid-19. E a Piacenza è saltato il pronto soccorso dell’ospedale della Val Tidone. Sempre nella ricca Emilia Romagna, a Ravenna, le cure urgenti sono gestite con il contagocce perché non ci sono né medici, né infermieri. Negli ospedali del Molise manca il quaranta per cento del personale, in Umbria i tre ospedali di Assisi, Castiglione del Lago e Umbertide hanno chiuso le sale chirurgiche per mancanza di infermieri, nel Lazio mancano 357 dottori per far marciare i reparti di emergenza e urgenza: restano sguarniti ovunque.

 

Messi insieme, questi disgraziati frammenti di mosaico riportano un quadro sconsolante: a distanza di due anni dall’inizio della pandemia, e nel bel mezzo della quarta ondata provocata dalla variante omicron, il Servizio sanitario nazionale alza bandiera bianca, affondato dall’incapacità politica di gestire il virus. All’esausto personale sanitario in servizio spetta l’onere e l’onore di cavarsela alla meglio nel curare i malati ordinari e quelli Covid-19, nel gestire il tracciamento dei positivi e vaccinare l’intera popolazione, nell’effettuare i tamponi e recuperare le interminabili liste d’attesa di visite e interventi chirurgici rinviati di mese in mese e, parallelamente, nel concretizzare i progetti utili a investire i 20 miliardi del Piano di ripresa e resilienza destinati alla sanità. Che, se non saranno spesi con criterio, faranno definitivamente saltare il fragilissimo Servizio sanitario nazionale.

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Il pronto soccorso al collasso. «L’ultimo giorno di riposo? Era Capodanno», esordisce Fabio De Iaco, a capo del pronto soccorso dell’ospedale Martini di Torino e presidente della Società italiana di medicina d’emergenza urgenza, Simeu. Nei pronto soccorso d’Italia la situazione era già critica a dicembre 2019, quando mancavano duemila professionisti. Oggi, la carenza è schizzata a quattromila unità: «Manca un quarto della forza lavoro e chi resta in servizio salta le ferie ed è in corsia ben oltre il termine del proprio turno. Siamo stremati dalla necessità di lavorare su doppi percorsi, Covid-19 e no. In più, la generale riduzione di posti letto negli ospedali, saltati per fare spazio ai reparti Covid-19, si scarica sul pronto soccorso, dove i pazienti sostano più giorni prima di essere spostati nei reparti di competenza: dobbiamo farci carico anche di loro. È il caos e ogni tentativo di trovare una soluzione per tamponare l’emergenza è risultato fallimentare. Servirebbe una complessiva riforma dell’organizzazione ospedaliera, di cui dovrebbe occuparsi il ministero», spiega De Iaco. Le riforme e le revisioni dei modelli sanitari, chieste a gran voce e attese da anni in tutti i comparti della sanità, tardano ad arrivare, nonostante la pandemia le renda improcrastinabili.

 

L’inverno dei medici di base. La crisi del Servizio sanitario nazionale, a due anni dall’inizio della pandemia, non è altro che il risultato di un decennio di sotto finanziamento del comparto sanitario: «Nell’opinione pubblica si era diffusa l’idea che il Ssn fosse sprecone e insostenibile, in realtà alla sanità pubblica sono state sottratte parecchie risorse, che hanno aumentato le disuguaglianze, come conferma la Corte dei conti», dice Anna Lisa Mandorino, numero uno di Cittadinanzattiva, movimento civico a tutela dei diritti del cittadino, che continua: «Per contenere i costi, dal 2004 gli stipendi del personale sanitario sono rimasti invariati, anzi si sono ridotti dell’1,5 per cento. Gli effetti più disastrosi li osserviamo sull’emergenza urgenza e sulla carenza di medici di base, cioè sugli unici due punti di accesso al Servizio sanitario nazionale. Se il cittadino fatica a entrare in contatto con il proprio medico o non riesce ad accedere al pronto soccorso, è a rischio la vita degli italiani».

 

Già oggi, a causa del Covid-19, c’è da recuperare una mole incredibile di esami ed interventi: in provincia di Trento solo il 39 per cento degli screening oncologici sospesi è stato erogato, in Friuli Venezia Giulia è stato fatto solo lo 0,7 per cento delle visite ambulatoriali arretrate e l’uno per cento dei ricoveri. Di più: in Basilicata, Calabria , Lazio, Lombardia, Toscana e Veneto non si hanno informazioni sul recupero delle liste d’attesa e l’assenza dei medici di base rischia di allungare ulteriormente i tempi di diagnosi e cura.

 

I livelli di stress e il lavoro in prima linea hanno spinto molti medici di famiglia ultra sessantenni ad anticipare la data di pensionamento, al punto che, in base ai dati del ministero della Salute, fra il 2022 e il 2028 andranno in pensione 27mila camici bianchi degli attuali 42mila in servizio. Eppure il ministero dell’Università prevede la creazione di sole 8.641 borse di studio per la formazione di nuovi medici. Implicitamente prende corpo un nuovo modello di medicina territoriale garantito da meno di 30 mila dottori che, si spera, raddoppieranno la propria mole di lavoro affidandosi alla digitalizzazione delle cure e demandando molti compiti agli infermieri. Ma è una corsa al buio, perché nessuno sta governando, né disegnando, un simile cambiamento.

 

Il buco degli infermieri. Più dei medici, in Italia mancano gli infermieri. Spiega Francesco Longo, responsabile scientifico del Cergas Bocconi, il centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria, che «nei mesi di maggiore criticità si è provveduto a tamponare l’emergenza Covid-19 assumendo 21 mila medici e solo 32 mila infermieri. A fronte di un budget limitato, si è scelto di puntare sui primi ed è stato accresciuto il numero dei posti per la formazione di nuovi camici bianchi». Ma stando ai dati pubblicati dal Crea, il Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità, all’appello mancano 17mila medici e ben 350mila infermieri per portare i livelli di cura al passo dei modelli sanitari di Francia e Germania e in linea con gli standard fissati dall’Ocse, secondo cui servirebbero 8,8 infermieri ogni mille abitanti, mentre l’Italia si ferma a 5,6. A titolo di esempio, la Francia ha 10,8 infermieri ogni mille abitanti e la Germania 13,2.

 

Eppure il ministero dell’Università sostiene di avere mezzi a sufficienza per formare al massimo 17.394 infermieri l’anno, meno dei posti disponibili per gli specializzandi, e sufficienti a coprire il turnover degli infermieri che andranno in pensione. «È proprio la carenza di infermieri a causare la chiusura di interi reparti ovunque in Italia e a riportare sotto stress il servizio sanitario», commenta Longo della Bocconi. Anche i rinforzi arrivati in corsia ai tempi delle prime ondate di Covid-19 si sono volatilizzati, come spiega Andrea Filippi, segretario nazionale medici della Cgil: «Le assunzioni a tempo indeterminato sono state pochissime, e la maggior parte dei professionisti con contratti precari e a termine hanno già lasciato l’incarico. L’organico attualmente in forza è di gran lunga inferiore a quello pre-pandemia», dice il sindacalista.

 

La conferma viene dai dati del Cergas Bocconi: delle 83.180 figure assunte per far fronte all’emergenza Covid-19, 66.029 era precaria e solo 17.151 persone sono state stabilizzate. Dei 32 mila nuovi infermieri, solo 8,7 mila hanno avuto un contratto stabile, gli altri hanno lasciato la trincea ospedaliera, proprio mentre la contagiosità della variante omicron sta tornando a riempire gli ospedali.

 

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Regioni sul lastrico. L’indicazione del ministero della Salute alle Regioni, contenuta in Legge di Bilancio, sarebbe quella di stabilizzare il personale sanitario, senza tuttavia stanziare un centesimo per le assunzioni e ben sapendo che i governatori lamentano di aver speso più di 8 miliardi per fronteggiare il Covid-19 in questi due anni. Si tratta di una spesa extra che zavorra i conti di Regioni tradizionalmente virtuose, come l’Emilia Romagna e la Lombardia, le quali - se non aiutate - andranno in default e non potranno assumere personale per parecchio tempo.

 

La salute disuguale. Nel frattempo, il tentativo degli ospedali di accaparrarsi più dipendenti, ha spinto molti professionisti a cambiare sede di lavoro, facendo aumentare la disuguaglianza sanitaria: «Le aziende periferiche hanno fatto più fatica a reclutare a tempo indeterminato, sia il personale medico, dovendo ricorrere in maniera rilevante a professionisti non specializzati o pensionati, sia il personale del comparto, che in diversi casi ha preferito forme atipiche, più remunerative e flessibili, in attesa di potersi spostare in sedi di lavoro più ambite», dice il rapporto Oasi del Cergas Bocconi.

 

Ad accaparrarsi più personale sono stati gli ospedali grandi e quelli di città, lasciando scoperti i nosocomi medio-piccoli e quelli in aree marginali. Inoltre «infermieri e assistenti sanitari hanno lasciato le residenze per anziani, che offrono contratti meno vantaggiosi, per entrare nella sanità pubblica, aggravando ulteriormente la situazione delle case di riposo, già fortemente colpite dal Covid-19 e ora spogliate del proprio organico», aggiunge Michele Vannini, segretario generale della Funzione Pubblica Cgil.

 

E le frontiere restano chiuse. Una soluzione potrebbe essere quella di aprire le porte a professionisti stranieri. Ma la burocrazia italiana e i bassi salari sono un forte disincentivo per gli immigrati, che preferiscono puntare su Germania, Francia e Regno Unito: «La Germania ha istituito un’agenzia per semplificare i requisiti di visto da riconoscere agli infermieri extra europei. Mentre l’Italia è poco efficace nello sfruttare tale possibilità», dice Federico Spandonaro, docente di economia all’università San Raffaele e presidente del centro di ricerca Crea.

 

Nonostante le deroghe alle norme migratorie, in Italia sono stati reclutati solo 133 medici e 125 infermieri stranieri nelle fasi più acute della crisi. Sarebbero potuti essere molti di più, ma molte pratiche restano bloccate da mesi in un rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Interno, coinvolto per il permesso di soggiorno, ministero dell’Università, che deve confermare la validità dei titoli di studio esteri, e ministero del Lavoro, chiamato a validare il contratto offerto. All’ospedale di Gravedona (Como) da settembre si attende l’arrivo di venti medici cubani, ma i funzionari dei ministeri non sono ancora riusciti a sbloccare l’impasse burocratica.

 

«Per lavorare in un ospedale pubblico è necessario partecipare a un concorso, ma per accedervi serve la cittadinanza italiana. E per iscriversi all’ordine dei medici e degli infermieri ci vuole un’occupazione, quindi bisogna avere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ma negli ospedali pubblici non si entra senza concorso. Lavorare per la sanità italiana è una giungla di interpretazioni e manca la volontà politica di fare ordine. Basterebbe concedere il permesso di soggiorno agli studenti e a chi ha un titolo di studio conseguito all’estero», spiega Foad Aodi, fisiatra palestinese e presidente dell’associazione dei medici di origine straniera in Italia.

 

A rischio il futuro del Pnrr. Si sbaglia chi spera di sfruttare i 20 miliardi europei del Pnrr destinati alla sanità per dare ossigeno al boccheggiante Servizio sanitario. Quei soldi non potranno essere usati per assumere medici e infermieri, al contrario la metà dei fondi dovrà essere usata per realizzare 1.288 case della comunità, 602 centrali operative territoriali per l’assistenza domiciliare e 381 ospedali di comunità per le cure di lunga degenza, mentre la restante parte servirà soprattutto per digitalizzazione, innovazione e ricerca. Per evitare che i nuovi edifici si trasformino in inutili cattedrali nel deserto sarà necessario assumere altri 30.485 infermieri entro cinque anni. Ma non è dato sapere come sarà possibile formarli, visto che il ministero non ha sufficienti risorse e l’afflusso di stranieri è bloccato.

 

«In futuro gli investimenti programmati del Pnrr genereranno maggiori oneri correnti, basti pensare alle retribuzioni che dovranno essere garantite al personale neo assunto per riempire i nuovi edifici e per mettere in atto le cure domiciliari», avverte il professor Spandonaro del Crea, che intravede, quale unica soluzione, un massiccio investimento sulla digitalizzazione della sanità e una totale rivoluzione di ruoli e compiti per renderla più flessibile. «Occorre ricordare che il 64 per cento delle risorse europee per gli investimenti pluriennali sono prestiti e, come tali, creano debito», avverte. Quindi, se gli investimenti programmati non garantiranno una maggiore efficienza del sistema, il precario equilibrio finanziario salterà nuovamente e sarà necessario intervenire con nuovi tagli. Quindi meno medici, meno infermieri e meno certezza di una cura per i cittadini.