Il Mit è un’opportunità per i miliardi del Pnrr da spendere. Ma è anche una tecnostruttura che tende ad autogestirsi. La sfida del Capitano è di non farsi fagocitare come la maggioranza dei suoi predecessori. Un fallimento a Porta Pia potrebbe essere l’ultimo del leader leghista preso nella morsa fra Giorgetti e Fitto

È il primo ministro leghista delle infrastrutture della storia repubblicana. Matteo Salvini, il grande sconfitto delle elezioni del 25 settembre, ha di che consolarsi con il dicastero di Porta Pia, l’unico forse a potersi confrontare per dimensioni, corridoi, stratificazioni geologiche di dirigenti, con il Viminale perduto dal Capitano.

Rispetto all’Interno, le infrastrutture hanno un elemento tecnico che hanno reso il Mit molto ostico agli outsider remoti e recenti cioè, per limitarsi alla scorsa legislatura, il grillino Danilo Toninelli, la democrat Paola De Micheli e l’indipendente Enrico Giovannini. Proprio l’ex numero uno dell’Istat aveva avuto l’ardire di ridenominare il colosso Mims, aggiungendo una mobilità sostenibile che, per la verità, non è stata presa in considerazione nemmeno dai tecnici del sito, rimasto al vecchio dominio mit.gov.it.

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Può sembrare un dettaglio trascurabile. È il segno di un minuetto che si balla a ogni nuovo ministro incaricato. Ogni direzione, ogni dipartimento si inchina e sorride al vincitore, persino quando è stato un ingegnere progettista del calibro di Pietro Lunardi. Ma l’idea di fondo è che comanda la struttura, non il ministro.

Che il Mit possa essere la prossima, e a quel punto definitiva, sconfitta di Salvini si desume anche da altri particolari. È vero che Porta Pia ha a disposizione una fetta sostanziosa dei miliardi del Pnrr e del fondo complementare. Ma è anche vero che la delega al Pnrr appare accanto alla casella occupata dal forzista Raffaele Fitto, ministro degli affari europei.

Non è l’unica potenziale limitazione di sovranità. Sul fronte di chi deve sborsare i denari per la ben nota “messa a terra”, cioè il ministero dell’Economia, il nuovo responsabile è Giancarlo Giorgetti, leghista sì ma non della stessa pasta di Salvini che ha accollato proprio a Giorgetti, senza mai nominarlo, la responsabilità della sconfitta elettorale per l’eccessiva vicinanza a Mario Draghi e per averlo tagliato fuori dalla formazione della lista dei ministri.

E poi c’è il mondo delle partecipate sulle quali il Mit esercita potere di indirizzo mentre le nomine sono ratificate dall’azionista Tesoro, dunque da Giorgetti. Il gruppo più importante in termini di strategia e di spesa sono le Ferrovie dello Stato, colosso bulimico che ingloba trasporto su ferro, su gomma e su strada con l’Anas. La holding Fs non solo rappresenta la maggiore stazione appaltante d’Italia ma, di conseguenza, è una sorta di ministero nel ministero.

A breve termine non ci sono problemi di rinnovamento al vertice, affidato alla guida di Luigi Ferraris dal giugno 2021, a meno di forzature dei termini del mandato alquanto irrituali. Ma Salvini dovrà studiare parecchio, lui che non è laureato, per rendersi credibile a una tecnostruttura dove i codici di appalto cambiano di continuo e bisogna correre per non perdere l’appuntamento con decine di miliardi.

Il gioco vale la candela perché il piatto è ricco. Ma l’azzardo e le possibilità di perdere tutto sono in proporzione.

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