Per fortuna Freud ci viene in soccorso. «Il presidente del consiglio Meloni? È corretto, nullo di strano». Così l'agenzia di stampa Adnkronos rilancia con un refuso l'opinione del presidente dell'Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, sul fatto del giorno, e cioè che Giorgia Meloni, fresca di giuramento e in procinto di farsi votare la fiducia in Parlamento, ritiene di volersi far chiamare «il presidente del Consiglio», al maschile.
Questo ha già provocato una mezza guerretta nel mondo a cavallo tra politica e comunicazione (agguerritissima Laura Boldrini, pioniera della questione), e certamente nella Rai, dove per un verso ci sono direttori che già chiedono ai giornalisti di uniformarsi al volere della premier, per altro verso c'è il sindacato dei giornalisti che ribadisce che «la policy aziendale, indica di usare il femminile lì dove esiste. Nessun collega può essere dunque obbligato ad usare il maschile». E insomma nel giornalismo il problema del genere è già salito al problema che lo contiene: il grado di indipendenza del giornalismo dalla politica.
«Nullo di strano», fa dire intanto il refuso al cruschista Marazzini. Nullo. Così, quasi senza volere, l'agenzia di stampa fa un doppio servizio: riporta la posizione dell'accademia della Crusca, e chiarisce contestualmente quanto possa essere straniante la banale operazione di sostituire una A con una O e viceversa. «Penso che ognuno possa e debba mantenere la propria piena libertà di espressione, optando di volta in volta per il maschile o per il femminile, in base alle proprie ragioni», dice ancora Marazzini. Che nessuno naturalmente si sogna di chiamare «la» presidente della Crusca.
Questo fatto dell'oscillazione di genere può riguardare soltanto le donne. Soltanto nel loro caso, infatti, anche se si usa il maschile «non si tratta di una scelta agrammaticale o antigrammaticale, ma semplicemente di un uso tradizionale, magari minoritario negli ultimi anni, ma ben radicato nel passato della lingua». spiega sempre Marazzini.
La tradizione è insomma dalla parte di Meloni, che si vuol far chiamare il presidente. Così come si è fatta chiamare il leader, il ministro, il capo, così come del resto ha chiamato il suo partito Fratelli d'Italia pur potendo essere a tutti gli effetti soltanto una sorella: fratello, a tutto concedere, mai. Lei del resto con l'essere donna ci ha conquistato i voti: io sono giorgia, sono una donna, eccetera. Con l'essere «il premier» li governa.
Il presidente, dunque, anche se poi la scelta suona ormai anacronistica, come si vede dalle conseguenze che porta con sé.
«Quindi IL presidente ha UN compagno? Qui si fa la storia», celia ad esempio su twitter Giorgio Cappozzo. A pensarci un attimo, sarebbe strepitoso. Eppure fino a pochissimi anni fa, le cronache riportavano con grande serenità ipotesi ancora più ardite. Come: «Il marito del ministro». Addirittura. Sarebbe bello immaginare tutto questo nel governo più a destra della storia d'Italia. Laddove cioè il "marito del ministro" non sia il marito di Daniela Santanché, o di Eugenia Roccella, o di Maria Elisabetta Alberti Casellati. Bensì il marito di un ministro uomo (non possiamo fare esempi: verrebbero interpretati come attacchi personali).
Col governo Meloni, tuttavia, non si fa la storia, almeno da questo punto di vista. Anzi. A ben guardare a volersi chiamare «il presidente» è una donna che non ha in particolare cura i diritti delle donne in quanto donne. Che in effetti anche del suo essere donna, da un punto di vista strettamente politico, non ha mai saputo bene che farsene.
Al limite può pensare ai diritti delle donne in quanto madri. E dunque delle donne che non vogliono avvalersi della 194, delle giovani donne che vanno incentivate ad avere figli, delle neomadri che vanno incentivate a farne altri. Le pari opportunità, non a caso, stanno nello stesso ministero della Famiglia e della Natalità. Più figli per tutte, salvo nel caso in cui diventino premier. In quel caso resterà il detto berlusconiano: più figli per tutti.