Tra Russia e Ucraina è in corso una guerra sospesa. Che non finirà mai

La regione è destinata a essere un punto di frizione perenne. Perché da una parte la pressione di Putin continuerà e dall’altra Stati Uniti e alleati non possono permettersi di abbandonarla. Ecco perché

Comunque finisca, non c’è da illudersi. l’Ucraina continuerà ad essere, per molto tempo, motivo di tensioni tra il Cremlino e l’Occidente, una terra contesa sulla quale i due contendenti vogliono e vorranno esercitare la loro influenza. Perché il destino del Paese sta scritto nel suo nome: in lingua slava significa “confine”. Era il limite nord dell’Impero austro-ungarico e sarà il caso di sottolineare come le uniche guerre scoppiate in Europa dopo il 1945 hanno riguardato l’Ucraina appunto e le Krajine (stessa radice etimologica) a cavallo tra Croazia, Serbia e Bosnia, confine sud del medesimo Impero, dove resiste, ma ancora per quanto?, una pace armata a causa di contenziosi mai risolti quando tra pochi gironi saremo a trent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo.

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Non si tratta di semplice assonanza di vocaboli, i nomi definiscono le cose e le frontiere tra i mondi sono le più difficili da collocare nella ridefinizione di un nuovo ordine dopo la caduta del Muro di Berlino. Proprio in seguito alla sanguinosa esperienza balcanica, quando nel 2014 esplose a Kiev la contraddizione di uno Stato dallo sguardo strabico, un occhio rivolto ad occidente e uno a oriente, l’unica soluzione possibile sembrava la nascita di una Confederazione, con una Camera delle Regioni dove compensare gli interessi dell’ovest che ha come punto di riferimento Bruxelles e dell’est russofono che guarda a Mosca. Un’idea che tramontò rapidamente a causa della radicalizzazione delle posizioni tra opposti sovranismi e poi diventata inattuabile quando le parole lasciarono voce ai cannoni, esplose il conflitto nel Donbass che ha già causato quasi 15 mila morti, Vladimir Putin si prese la Crimea, in nome di una politica nazional-imperialistica (sembra un ossimoro ma non lo è) per la quale doveva correre in difesa dei russi o semplicemente russofoni separati dalla madre-patria dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. E fu sancita, di fatto se non di diritto, una divisione dell’Ucraina con lo zar Vladimir che si è già preso tutte le regioni che gli interessano, se le due autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e di Donetsk a lui rispondono.

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Mancava un tassello per completare la vittoria e farla assurgere a rivincita per alcuni rovesci geopolitici subiti nel recente passato, Anni Novanta e inizio Anni Dieci del nuovo millennio, quando una Russia chiusa per restauri e provvisoriamente mini-potenza, dovette subire l’onta dell’allargamento ad Est della Nato e aderirono all’Alleanza Polonia, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania. Nonostante la sventolata esistenza di un accordo tra George Bush padre e Mikhail Gorbaciov, comunque nel caso verbale e mai messo per iscritto, per cui questo non sarebbe mai successo in cambio della via libera per la caduta del Muro e la successiva riunificazione tedesca. Il mancato tassello, per una Russia tornata tra i grandi player internazionali, è il riuscire a strappare un impegno, scritto stavolta, per il quale mai e poi mai l’Ucraina potrà aderire all’Alleanza Atlantica. È insopportabile per Mosca l’immaginare soldati e missili nemici alle proprie porte anche in virtù dello storico timore dell’accerchiamento anche se sembra paradossale per un immenso Paese che si snoda lungo nove fusi orari. Tanto più se Putin, e lo ha espressamente detto, considera la Russia e l’Ucraina come una sola nazione, gli estremisti più accesi a Mosca arrivano e negare addirittura che esista un popolo ucraino, mentre nell’eterno presente tipico dell’ortodossia si rivangano le radici ataviche della stessa Russia nella Rus di Kiev e il fiume Dnepr persiste nell’immaginario come il fiume sacro delle origini.

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In questa visione, l’Ucraina è dunque essenziale per la protezione delle mura del Cremlino, un vastissimo Stato-cuscinetto dove attutire i colpi di un’eventuale invasione se nella memoria persiste l’incubo delle armate di Napoleone e poi dei carri armati di Hitler, pur se entrambi alfine sconfitti grazie anche all’ausilio del generale inverno. Ma c’è di più. L’Ucraina, dopo esserlo stato dei romani, è stata anche il granaio sovietico ed è parte irrinunciabile di qualunque progetto neo-zarista come l’Unione economica euro-asiatica o l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, una sorta di Patto di Varsavia in sedicesimo e più spostato verso oriente: in entrambi gli organismi Kiev non è entrata quando per Mosca era soggetto essenziale.

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Nel tentativo di riportare indietro gli orologi della storia, Putin non solo reclama una garanzia legale per scongiurare l’ingresso dell’Ucraina (e della Georgia) nella Nato, ma avanza anche la richiesta, invero irricevibile, del ritiro di tutti i soldati occidentali dai Paesi che entrarono nella Nato dopo il 1997, cioè quelli del blocco sovietico e i balcanici Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Ma sembra, di tutta evidenza, un alzare la posta per sedersi a un tavolo negoziale da una posizione di forza e ottenere quanto davvero gli sta a cuore. Al tavolo troverebbe un Joe Biden che pure, a sua volta, ha scelto i toni forti, lanciato allarmi su un’imminente invasione russa, indicando persino il giorno e credendo di poter giocare ancora con la piccola Russia degli Anni Novanta. Senza tenere in considerazione i precedenti.

 

Lungo tutti i suoi 22 anni al potere, Putin, pur essendo chiaro nelle sue ambizioni, ha sempre tenuto molto coperte le azioni militari fossero esse in Cecenia, come in Ossezia del Sud, come nella stessa Crimea, per mettere poi il mondo davanti al fatto compiuto. Washington ha comunque raggiunto lo scopo di compattare l’Occidente sui principi della sua posizione anche se distanti sono sembrati i metodi usati per raggiungere il risultato. Al cospetto di un’America che sta però dall’altra parte dell’Atlantico e può permettersi un linguaggio smodato, l’Europa ha preferito ricorrere a una diplomazia più sottile e soft, guidata dalla ragionevolezza imposta dalla sua sostanziale debolezza militare, dalla vicinanza con l’Orso non più sovietico ma russo e dagli interessi economici che si snodano, soprattutto, lungo i gasdotti che partono dagli sconfinati giacimenti asiatici fino alle nostre case. Le tensioni hanno già fin troppo contribuito ad alzare le bollette energetiche, mandato in rosso le Borse, frenato la ripresa post-pandemia per potersi permettere un confronto più aspro con chi può manovrare i rubinetti del gas essenziale per le famiglie e per le imprese. Senza contare che persino la stampa ucraina è stata sorpresa, e talvolta addirittura critica, nei confronti delle esasperazioni della Casa Bianca, nel timore che i fatti dovessero poi stare dietro alle parole sulla pelle di un popolo già stremato da una guerra guerreggiata che dura ormai da sette anni.

 

È possibile che Biden abbia usato tutto il suo battage mediatico per spostare l’interesse sulla scena internazionale dopo che i sondaggi lo certificano come il presidente dal gradimento più basso dopo un anno di mandato, nonostante i dati macroeconomici gli sorridano. È possibile anche che abbia riattivato, lui politico di lungo corso, i vecchi meccanismi pavloviani della Guerra Fredda vinta, senza considerare che i tempi sono mutati e il risorgente imperialismo russo impone, realisticamente se non moralmente, di fare i conti con una multipolarità in cui agiscono diversi attori e i Paesi autoritari (non va dimenticata la Cina) hanno ormai costruito una sorta di multinazionale che si oppone alle democrazie liberali come ha dimostrato anche la sciagurata esperienza afgana che Biden sta cercando di far dimenticare. E che, nel nuovo seppur precario equilibrio di un pianeta che sembra finito fuori controllo, vanno contemplate le ragioni dell’altro. Cosa mai direbbe la Casa Bianca se Mosca entrasse in un’alleanza militare con Cuba e minacciasse da vicino il suolo americano? O se la stessa cosa succedesse con il Messico? Sono ovviamente ipotesi di scuola non suffragate da scenari concreti, ma rendono l’idea di uno squilibrio.

 

In mezzo a questo pandemonio chi ne fa le spese è proprio l’Ucraina a causa della sua sfortunata posizione geografica, così prossima a un ingombrante vicino. Si arriverà probabilmente a una tregua, ma è facile pronosticare che sia impossibile, almeno nell’orizzonte scrutabile, arrivare a una pace durevole. Troppi sono i punti vicendevolmente non negoziabili. Lo schieramento occidentale non può accettare un’amputazione dell’Ucraina e continuerà a difendere la sua integrità territoriale nel timore di rivendicazioni etnico-nazionali a casa propria (Spagna e Belgio tanto per fare degli esempi). La Russia non può rinunciare al Donbass e alla Crimea, base fondamentale per la sua flotta navale. Si stringeranno accordi per evitare il peggio, lasciando il resto, leggi l’Ucraina, in un limbo indefinito. E sperando che non ci sia nulla di più duraturo della provvisorietà.

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