L’arte della recensione
Profeta e buffone, il senso di Giorgio Manganelli per la critica
Ironico, colto, sempre in fuga. Nato un secolo fa, lo scrittore inventò la recensione come genere: letteratura sulla letteratura, trasformandola in un prezioso saggio narrativo. “Anzi addirittura in una performance”
Il centenario della nascita di Giorgio Manganelli, che cade quest’anno, avrà per la tribù degli affezionati (di nicchia ma molto cospicua) una meta di pellegrinaggio che più manganelliana non si può: “Via Chinotto numero 8, interno 8”, sesta (ma anche ultima) abitazione romana dell’autore di “Hilarotragoedia” (Feltrinelli, 1964, esordio a 42 anni). Qui, al terzo piano, nelle quattro stanze con terrazzo prese in affitto, site in un viale alberato dell’umbertino quartiere romano di Prati, vi erano stipati fino al tetto (bagno e cucinino compresi) diciottomila libri (la maggior parte dei quali letti e segnati a matita), varie versioni manoscritte di circa 45 opere inedite o pubblicate, le consulenze per Garzanti, Einaudi, Mondadori, Adelphi (il cui tono era: «Lo trovo repellente, pubblichiamolo»), centinaia di articoli per giornali e testi di trasmissioni radiofoniche e di teatro. In vita avrà venduto poche migliaia di copie a volume. Ma dopo morto (maggio del ‘90), ristampate le sue opere, come goccia che scava la roccia ha piegato ogni riluttanza, e oggi siede nel pantheon italiano novecentesco accanto a Calvino, Gadda, Pasolini.
Tapiro, formichiere, tasso, armadillo, «creatura squisitamente metafisica che esiste unicamente attraverso le parole di chi lo descrive»: così è stato definito in vita. Non bello, pingue ma ipnoticamente affascinante, era fuggito al plotone di esecuzione nazista in quel di Roccabianca, paesino della Bassa Padana sul Po, salvato da un gerarca fascista («non potete fucilare il professore di mia figlia») ma reo (lui che comprendeva decine di lingue) di fare la spia per i partigiani dentro la fabbrica tedesca Todt. Da allora sempre in fuga: da Milano a Roma (la leggenda vuole in Lambretta), dalla famiglia, dai figli, dalle case prese in affitto, dall’università, dagli occhi verdi della poetessa Alda Merini, dai party letterari, dai salotti romani, dagli scrittori, dalle riunioni editoriali, dalle amiche del cuore, da se stesso. Infine, divenuto giornalista a 50 anni e spinto dallo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard (una leggenda nel suo campo) presso cui era in analisi (come Federico Fellini), a 53 si lanciò nei primi viaggi: Francia, India, Cina, Africa, America Latina, spesso per scrivere reportage per L’Espresso diretto da Eugenio Scalfari.
Manganelli scopre così le “Mille e una notte”. Il filologo, critico e saggista Salvatore Silvano Nigro, che dal 1990 ha curato per Adelphi la riedizione delle opere («Per alcune un lavoro folle, quasi da esaurimento nervoso» dice) definisce così, “Mille e una notte della letteratura”, l’invenzione di un genere che Manganelli ha creato: la recensione come letteratura sulla letteratura, narrativa sulla narrativa. «Protagonista di questo genere è la parola dei libri altrui. Per anni Manganelli ha perseguito la forma-recensione trasformandola in piccolo saggio. Di più: in un saggio narrativo, anzi addirittura in una performance», spiega Nigro.
Perché proprio le “Mille e una notte”? Nigro scioglie l’arcano nel volume da lui curato “Altre concupiscenze” (Adelphi) che di fatto ha aperto il centenario, citando proprio le parole dello scrittore: «Quando penso a tutta la letteratura nel suo insieme…mi vedo in una situazione da “Mille e una notte” in cui continuamente entro ed esco da uno scrittore a un altro, da un libro in un altro, attraverso aditi, portici e passaggi che si cancellano appena percorsi, in una situazione estremamente fantasiosa e irregolare». E ancora: «Non v’è nulla di più futile della recensione, gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchiera…ma appunto questa fatuità può farne un genere letterario più infimo che minore, una ciancia da angiporti…può spettarle una qualche accoglienza nella disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari, tra il poema epico e l’epigramma…se la letteratura è sogno caotico e sfrenato, una città frequentata da cantafavole, buffoni, prèfiche a pagamento, ciarlatani virtuosi e predicatori di elaborati vizi, ecco che il recensore sarà il buffone del buffone, la spalla del grande tragico, la claque del meditabondo, il parassita del pedante».
Il buffone dei buffoni. Ma come è stato poi difficile, per gli altri, censirne le imprese. Erano infatti quasi tutti scritti sparsi, che Lietta Manganelli, la figlia del “Manga” (era il soprannome) ha imparato nel tempo a conoscere meglio di chiunque. Sospira ripensando al lavoro di Nigro: «Il Manga è sterminato, ha scritto su tutto, tranne forse sulle etichette dell’acqua minerale. Selezionarlo è come scalare una montagna. Hai scelto alcuni scritti? Subito dopo ti imbatti in un altro e ti pare il più bello». Quelli raccolti in “Altre concupiscenze” sono prove mostruose di erudizione e approfondimento: da Dickens a Yeats, da London a Savinio, da Landolfi a Calasso, il recensore sbriciola i libri altrui per cavarne l’osso, spesso sfuggito ai più. Aggiunge Lietta: «Mi ha sempre sconvolta la sua capacità di approfondire e prevedere le cose. Una dote che lo rende attualissimo. Ma per lui era anche una maledizione». La figlia annuncia la pubblicazione, da parte della nave di Teseo, delle opere teatrali. «Tra cui un inedito su Hitler», anticipa. E intanto, per l’editore perugino Graphe.it, è stato riedito il racconto “Notte tenebricosa”, con prefazione della figlia e una sua lunga intervista sul “Manga privato” allo psicoanalista “manganelliano” Emiliano Tognetti.
Ma attenti a Pinocchio. Attraversa tutta la vita e l’opera di Manganelli. Per lui, era l’ultimo mito rimasto al mondo, incontrato a cinque anni, quando pianse disperatamente per le ultime pagine che Collodi dedicò alla trasformazione del burattino in un bambino normale. «Così finisce ogni avventura», diceva, invitando poi da adulto la figlia a ignorarne la conclusione. Una collezione di Pinocchi invadeva le case precedenti via Chinotto. Così, circondato da un esercito di burattini, lo incontrerà per la prima volta un giovane Salvatore Silvano Nigro. Un incontro fatale.
Racconta il filologo: «Avevo curato per Costa&Nolan la scoperta di un trattato del Cinquecento, “Della dissimulazione onesta” di Torquato Accetto. Siccome la collana prevedeva prefazioni, Edoardo Sanguineti che la dirigeva disse: l’unico che può farla è Manganelli. Così, con una lettera di presentazione di Sanguineti, partii in treno da Catania, dove allora risiedevo. Ricordo la stanza circondata da Pinocchi di legno e Manganelli che cercava di cacciare la collaboratrice domestica per non essere disturbato. “So tutto”, mi disse. Poi prese il manoscritto e lo lasciò cadere nel cestino. Ci rimasi molto male. Tornai in stazione per riprendere il treno, non avevo i soldi per permettermi un aereo. Tornato a casa, in portineria trovai un plico, con allegata la sua prefazione. Lo aveva letto di notte e poi ne aveva scritto». Lietta Manganelli aggiunge sorridendo: «Quel giorno il Manga aveva mal di denti, perciò fu più burbero del solito».
Così comincia un’avventura. Prosegue Nigro: «Era il 1983. Ora è il 2022 e sono ancora alle prese con lui. Esplose tra noi un grande, reciproco amore. Manganelli finì per ringraziarmi, poiché in Torquato Accetto aveva scoperto un suo antenato». Davvero? Erano parenti? «No, affatto, ma lo considerava un antenato. Ci aveva ritrovato un aforisma di Quintiliano cui era affezionato: la penna lavora anche quando cancella. Cosa sta dietro le parole e gli spazi bianchi, questo lo ossessionava. Io sono nato come studioso del barocco e la sua prosa era molto legata a quel periodo storico.
Così iniziammo a frequentarci e lui prese l’abitudine di recensire i miei libri. Un giorno mi disse che cercava una copia del “Cannocchiale aristotelico” di Emanuele Tesauro, uno dei più importanti saggi di semiotica del Seicento. Io avevo l’originale d’epoca e glielo regalai. Ne fu felice. Lo teneva in una teca, considerandolo un totem».
Nigro, prima di curare su richiesta di Elvira Sellerio le quarte di copertina di Andrea Camilleri, ha lavorato fianco a fianco con Leonardo Sciascia negli anni in cui lo scrittore di Racalmuto aveva “la felicità di fare libri” all’interno della casa editrice siciliana. E racconta: «Un giorno Leonardo mi confessò che avrebbe voluto conoscere Manganelli, di cui si disse un grande ammiratore, ma temeva di contattarlo direttamente, per via della fama di brutto carattere che circolava su di lui. Ci penso io, gli dissi. Contattai Manganelli che, a sua volta, mi rivelò subito di apprezzare enormemente Sciascia, La circostanza mi colpì moltissimo: due autori così diversi che si amavano a vicenda. La cosa andò avanti. Si misero persino d’accordo per fare insieme un viaggio in Sicilia. E la loro guida, decisero, sarebbe stata un terzo scrittore, Gesualdo Bufalino. Ma non se ne potè fare mai nulla: Sciascia morì nell’89 e Manganelli nel ‘90. Poi anche Bufalino andò via nel ‘96. Quanto a me, per tutta la vita ho cercato di coniugare il razionale di Sciascia e il barocco retorico di Manganelli. E questo perché ho avuto l’enorme fortuna di conoscerli».